lunedì 25 luglio 2016

Monismo e monoteismo nel paganesimo


Alcuni neopagani di mia conoscenza, per parlare della fondamentale unicità divina, hanno l'abitudine di opporre il concetto di monismo a quello di monoteismo. 
Per definizione, però, il monoteismo è il “termine designante ogni dottrina religiosa o filosofica che affermi l’esistenza di un unico Dio” (Universale Garzanti - Filosofia A-M); il monismo parimenti è “ogni sistema filosofico che ammetta una sola specie di sostanza”, vale a dire un termine che “si applicava sia alle concezioni idealistiche sia alle concezioni materialistiche, in quanto convenivano nel ricondurre l’insieme della realtà a un principio unitario sottostante all’apparente molteplicità e discontinuità dei fenomeni, negando (sia pure per diverse ragioni) qualsiasi dualità tra materia e spirito, tra mondo e Dio.” 
Quindi, come si può ben vedere, i due termini non sono per nulla opposti fra loro, questo perché entrambi hanno dei perfetti e definiti contrari: il contrario di monoteismo è ovviamente politeismo, e questo implica che il contrario di monismo non è monoteismo, bensì dualismo. E tutti sappiamo che quest’ultimo termine è “applicato prevalentemente alle credenze religiose che ammettono due divinità o due principi cosmogonici”, che sono “coeterne in continuo conflitto fra loro”. 
Insomma, laddove, in una religione, non esiste un’opposizione cosmica fra due principi o sostanze, abbiamo il monismo; se invece esiste (come nel primo zoroastrismo e in alcune correnti gnostiche) abbiamo il dualismo. E ovviamente, si badi che princìpi o sostanze, nel dualismo, devono avere pari dignità e potenza (anche se alla fine dei tempi uno vincerà sull’altro); come che sia, tutti i (pochi) esempi di dualismo radicale che la Storia ci offre sono insindacabilmente destinati a sfociare prima nel dualismo mitigato e infine nel monismo (le due religioni citate sopra sono ottimi esempi). 
A questo punto sorge la domanda: l’ellenismo neoplatonico è monismo? Certamente, poiché non esistono entità opposte a Dio, e tutto ciò che esiste è una sua emanazione. E parimenti, il cristianesimo è monismo? Certamente anche in questo caso, poiché tutto deriva da Dio tramite la creazione, e tutto ciò che esiste gli è subordinato. Allo stesso modo sono monismi le altre “grandi religioni monoteistiche”, l’ebraismo e l’islam, e praticamente tutte le religioni che riconoscono un unico principio da cui tutto è scaturito.
Ma è così sconvolgente (ed errato) parlare di monoteismo nell'ambito delle religioni pagane? 
Il monoteismo non è una novità per nessuno scrittore della tarda antichità, indipendentemente dal suo credo filosofico. In un neoplatonico come Giamblico noi vediamo sotto la forma più naturale di fede, purché, naturalmente, si intenda dio come un dio non personale. Il Trattato sui misteri doveva presentare, come si è detto sopra, la dottrina dell’Uno e la sua “piramide dell’essere” nella forma di una fede monoteistica, così semplificata, che fosse facilmente comprensibile a un più ampio pubblico di lettori. Questa dottrina è esposta soprattutto nell’ottavo libro, ove è presentata come l’insegnamento delle antiche tradizioni egiziane, e confermata in modo particolare dall’ermetismo. Esiste, dunque, solamente un dio; egli è collocato al di sopra e prima degli dèi che noi conosciamo (VIII, 2). Questa realtà divina, trascendente nel significato più stretto, non è solamente immobile e immutabile, ma anche inaccessibile a ogni ricerca razionale dell’uomo. Dio è, comunque, la fonte di tutto, il punto di partenza per l’oggetto del nostro pensiero.” (C. Moreschini, in Introduzione a Giamblico, I Misteri degli Egiziani, BUR, Milano 2003, pagg. 40-41).
Questo passo di Moreschini è a mio avviso indicativo per comprendere il pensiero di Giamblico (che sarà anche quello condiviso dalla maggior parte degli Elleni colti per i successivi due secoli, se non anche oltre); indubbiamente esso fuga ogni dubbio riguardo alla questione del “teismo” ellenista: esso è propriamente monoteismo, non enoteismo, panteismo o che altro.

Diceva Plotino (Enneadi II, 9): “Non restringere la divinità a un unico essere, farla vedere così molteplice come essa stessa si manifesta, ecco ciò che significa conoscere la potenza della divinità, capace, pur restando quella che è, di creare una molteplicità di dèi che si connettono con essa, esistono per essa e vengono da essa.” E si potrebbero citare molti altri autori dello stesso avviso.
Si può dunque avere un bel questionare riguardo al fatto che se c’è pluralità non può esserci monoteismo, ma sono discorsi inutili, anche nel maestro del maestro di Giamblico la Fonte Divina è una, ed esattamente come in Giamblico è inconoscibile. Questi però aggiunge alla teologia plotiniana, primo fra tutti, figure semidivine provenienti da altre tradizioni, come l’arcangelo, l’angelo e l’arconte.
Il perché il Siriaco sia secondo me un vero monoteista pagano (se non il primo consapevole monoteista pagano) e non un normale sincretista in realtà è molto semplice: il sincretismo è l’aggiungere una o più divinità a un pantheon prestabilito, ad esempio Iside che entrò a far attivamente parte di quello romano. Giamblico però fa molto di più: egli concepisce un’operazione simile a quella che fece quasi 300 anni dopo lo pseudo-Dionigi (allorquando strutturò i nove cori angelici), ovvero una scala gerarchica delle manifestazioni divine comuni a tutte le religioni esistenti (e, immagino, ancora oggi più o meno applicabile e condivisibile da ogni fede).
Uno --> Dio --> Arcangelo --> Angelo --> Demone --> Arconte --> Eroe --> Anima
In definitiva, se dovessi scegliere seriamente un “profeta” del monoteismo pagano, questi sarebbe senza ombra di dubbio Giamblico, che nonostante il suo essere (almeno relativamente) famoso, è abbastanza bistrattato, poiché a lui si preferisce quasi sempre Plotino. Eppure Giamblico, forse proprio per essere entrato più a contatto con altre religioni e aver impostato il neoplatonismo in un’ottica ancora più mistica di quella plotiniana, mi risulta essere consapevolmente più vicino all'idea dell'attuale neopaganesimo.
 

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