Un'evocazione negromantica e un sabba stregonesco. |
Articolo pubblicato in tre parti su Athame il 03, 13 e 30/05/2016.
L’articolo
di Alberto Paganini, Alla ricerca della
stregheria, di recente pubblicato su Athame, mi ha portato a voler mettere
per iscritto alcune riflessioni che ormai da più di un anno mi sono messo a
elaborare studiando la storia della stregoneria: vorrei che questo mio lavoro
non venisse preso come una critica, ma più che altro come una correzione e
un’integrazione, per fare ulteriore chiarezza sull’argomento.
Il
punto dal quale vorrei partire è il riempimento di una lacuna all’interno
dell’articolo in questione, il quale sembra dare per scontato che la magia
medievale e la stregoneria coincidano perfettamente, e che dunque fa rientrare
ogni genere di attività magica (dai riti divinatori, al volo notturno,
all’evocazione degli spiriti, agli incantesimi sui libri) nell’ambito della
stregoneria, il che però ha perfettamente senso solo nella mentalità di un
inquisitore medievale, che come vedremo non riusciva a distinguere le varie sfaccettature
della pratica in questione; fortunatamente per noi, che riusciamo oggi ad avere
un quadro storico più ampio, possiamo dire che si trattava di due grandi
ambiti, non sempre perfettamente distinti (e che potevano portare ai medesimi
risultati, com’è logico), ma nella sostanza molto diversi.
Il
Medioevo presenta essenzialmente due forme di magia, dunque: la cosiddetta
negromanzia e la stregoneria vera e propria. La prima aveva perso il suo
significato legato all’etimologia (divinazione tramite i defunti), approdando a
quello generico di “magia effettuata tramite il potere dei demoni”[1]: i negromanti erano, a conti
fatti, persone che operavano tramite incantesimi rituali (cerchi, candele,
formule,…), spesso scritti su libri, e proprio per il fatto di saper leggere
erano in genere persone colte, molte volte ecclesiastici (è dalla loro opera
che si svilupperà la magia rinascimentale, e poi quella vittoriana). Viceversa,
la stregoneria propriamente detta (quella dell’immaginario del sabba) era più
legata alle classi sociali inferiori, e aveva un carattere estremamente più
sciamanico e, per così dire, istintivo. Di seguito farò un breve sunto delle
caratteristiche di ognuna delle due pratiche (per la negromanzia mi rifaccio in
toto al Kieckhefer[2]), con tanto che ciò non
esaurisce minimamente l’argomento, per molti versi ancora da esplorare.
LA NEGROMANZIA
MEDIEVALE
Stando
alla testimonianza dell’inquisitore Nicolau Eymerich, che durante il XIV secolo
ebbe ampiamente a che fare coi maghi (riuscendo anche a leggere dei loro testi,
come il Tesoro di Negromanzia e la Tavola di Salomone), costoro imparavano
dai libri numerose forme di magia proibita: battesimo di immagini, fumigazione
della testa di un morto, evocazione di un demone per mezzo del nome di un
demone superiore, iscrizione di caratteri e segni, invocazione di strani nomi,
commistione di nomi di demoni con quelli di angeli e santi in preghiere
blasfeme, fumigazioni con piante aromatiche, combustione di animali, getti di
sale nel fuoco e molto altro. A suo avviso, questi comportamenti avevano sempre
uno scopo di adorazione dei demoni: i negromanti promettevano loro obbedienza e
si consacravano al loro servizio, cantavano salmodie in loro onore, e offrivano
in sacrificio non solo animali ma anche il proprio sangue; nell’esercizio
dell’arte magica praticavano ogni genere di ascetismo: digiunavano, si
lavavano, si rasavano, si mantenevano casti e si vestivano di nero o di bianco
(secondo alcuni per attirare i demoni, secondo altri per proteggersi). Alcuni
libri di negromanzia, comunque, sono giunti fino a noi: il Manuale di Monaco, ad esempio, descrive una quantità di operazioni
magiche (“esperimenti”), ma ne abbiamo testimonianza anche in altre parti della
Germania, in Spagna, Francia, Inghilterra e Italia (il celebre “libro del
comando” delle masche della tradizione piemontese potrebbe essere una
derivazione del manuale negromantico).
In
generale, gli scopi di questa magia rituale rientrano in tre categorie
principali: influire sul corpo e sulla volontà altrui, creare illusioni e
discernere le cose segrete, passate, presenti e future (tutti casi classici di
magia, già presenti sin dall’Antichità). Le tecniche negromantiche possono
essere molto complesse, ma si basano su pochi elementi principali: cerchi
magici, scongiuri e sacrifici. Il cerchio si può tracciare a terra con un
pugnale o una spada, o disegnare su una pergamena o un panno; a volte è
semplice, poco più di una forma geometrica, altre molto complicato, con
all’interno scritte e simboli di vario genere, siti per gli oggetti magici (spade,
scettri, coppe, denari e altro) e un posto per il negromante stesso; persino i
vari materiali vengono a volte specificati (ad esempio sangue di gatto, upupa o
pipistrello per le scritte, pergamena vergine o pelle di leone per il piano su
cui tracciare,…), e questo perché uno stesso cerchio può avere effetti diversi
in base al materiale utilizzato nel crearlo. Il cerchio sembra aver avuto, per
i negromanti, meno importanza in sé rispetto alle varie scritte al suo interno,
in genere nomi di Dio e dei santi o parti della liturgia cristiana.
Lo
scongiuro è la principale componente orale dell’atto magico: esso si impernia
su un verbo di comando, come “io vi ordino” o “io vi impongo” di apparire e
obbedire; in genere esso riprende parti dei salmi o delle preghiere cristiane,
e su alcuni libri è detto di inginocchiarsi a mani giunte e col volto al cielo,
e di ripeterlo un dato numero di volte. Nello scongiuro si chiede di solito al
demone di apparire in forme che non facciano paura: per questo le manifestazioni
degli spiriti sono in genere preordinate (re, servitori, cavalieri, animali, e
via dicendo); l’apparizione di Mefistofele nel Doctor Faustus di Marlowe ne è un bell’esempio.
Importante
era anche, come detto, il sacrificio: nel Manuale
di Monaco, il negromante invoca i demoni a un crocicchio col sacrificio di
un gallo bianco, che egli supplica di accettare; in un altro esempio, bisogna
portare un’upupa prigioniera e, quando i demoni avranno giurato di obbedire al
mago, questi gliela darà. Uno scongiuro del XIII secolo dice, per fare un
esempio, di prendere un pipistrello e sacrificarlo con la mano destra, e con la
sinistra cavargli il sangue dalla testa. Era infatti credenza diffusa che i
demoni fossero attirati dal sangue, specialmente da quello umano; quindi,
secondo Michele Scoto, i negromanti usavano spesso acqua mista a sangue, o vino
somigliante a sangue, “e sacrificano
carne di persona vivente, per esempio un pezzetto della propria carne, oppure
di un morto […] sapendo che la
consacrazione di uno spirito in un anello o in una bottiglia si può effettuare
compiendo solo molti sacrifici.” Da notare che, in tutto questo, non si
parla mai di un vero e proprio sacrificio umano. Si potevano comunque offrire
anche altre sostanze: a volte si spargeva nell’aria latte e miele, oppure si
mettevano farina, sale, cenere e altre cose nei vasi da collocare nel cerchio
magico; il Manoscritto di Praga
invita poi i negromanti a offrire ai demoni carbone, pane, formaggio, orzo,
sale e tre chiodi da calzolaio.
La
magia negromantica è in genere di tipo simpatetico, e quando non usa cerchi e
cerimonie elaborate sfrutta immagini apposite: ad esempio, per far innamorare
qualcuno si può scrivere i nomi dei demoni incaricati di indurre l’amore sulla
statuetta di cera rappresentante l’obiettivo della magia; oppure si possono
intagliare due statue, una rappresentante il negromante e l’altra la persona di
cui si vuole ottenere il favore (magari incidendovi sopra una corona se è un
re, per dire) e legarle assieme con una catena; oppure ancora si scaldano sul
fuoco due pietre rappresentanti le vittime, le si getta in acqua fredda e poi
le si percuote fra loro per indurre odio fra le due. In genere queste
operazioni vengono comunque accompagnate da formule: una ricetta amorosa giunta
fino a noi, ad esempio, recita che “come
il cervo brama la sorgente, così NN brami il mio amore, e come il corvo brama i
cadaveri, così ella mi desideri, e come la cera si scioglie sul fuoco, così lei
desideri il mio amore.” Va da sé che questi effetti possono anche essere
annullati: se si è sotterrato un panno per indurre una maledizione, lo si deve
dissotterrare e bruciarlo, o comandare ai demoni di andarsene in quanto hanno
adempiuto al loro compito, e così via. La cosa più importante, specificano i
vari manuali, è che venga mantenuta la segretezza sia sui riti che sui libri
che li contengono.
Si
può in genere ritenere che questa forma di magia medievale derivi in parte
dalla tradizione pagana tardoantica (soprattutto quella astrale e goetica), e
in parte da quella esorcistica giudeo-cristiana: i rituali infatti hanno
sempre, come visto, uno sfondo cristiano, e i vari manuali spiegano quando
devono essere officiati (il sabato prima dell’alba con la luna calante, il
giovedì con la luna crescente, e via dicendo); lo stesso confine tra spiriti
astrali o elementali e angeli caduti è piuttosto confuso, e i negromanti si
appellano ora agli uni, ora agli altri. Michele Scoto dice che le immagini
astrologiche servono non solo a evocare le potenze che regolano le orbite
planetarie e i demoni della luna, ma anche gli spiriti dannati presenti nel
vento. Anche la pratica della fumigazione venne adottata dalla negromanzia: il Manuale di Monaco, addirittura, fornisce
gli ingredienti per le fumigazioni adatte a ogni giorno della settimana (ad
esempio di giovedì si bruciano incenso e zafferano per mettere d’accordo due
nemici). Anche le fumigazioni comunque, come forse la pratica di sotterrare o
nascondere le immagini magiche e le pratiche di sacrificio ai demoni, traggono
origine dalla magia astrale, come si riscontra nel Picatrix arabo.
Per
quanto riguarda invece l’aspetto esorcistico, il Libro delle Consacrazione parla dei negromanti come di esorcisti,
poiché le formule utilizzate sono tutto sommato le stesse usate dai sacerdoti
cristiani: la differenza, ovviamente, sta nel fatto che i secondi li
costringono ad andarsene, i primi a sottomettersi al loro volere. Il negromante
invoca i nomi di Dio, di Cristo, della Madonna e dei santi, a volte anche del
sole e della luna, del cielo e della terra, tutti i caratteri di Salomone e le
operazioni magiche di Virgilio (considerato nel Medioevo un grande mago); per
fare un esempio concreto di preghiera esorcistica alterata, nel Manuale di Monaco è scritto: “Io ti comando, demone malvagio, per il
potere del Signore, e ti ordino nel nome dell’Agnello immacolato che cammina
sull’aspide e sul basilisco, che ha calpestato il leone e il drago, che tu
esegua subito ciò che ti comanderò. Trema e temi quanto viene invocato nel nome
di Dio, il Dio che l’Inferno teme, e a cui sono soggette le Virtù celesti, le
Potenze, le Dominazioni e le altre Virtù, che lo temono e lo adorano, e che i
Cherubini e i Serafini lodano con voce instancabile. Il Verbo fatto carne ti comanda.
Colui che nacque da una vergine ti comanda. Gesù di Nazareth, il quale ti ha
creato, ti comanda di adempiere subito a tutto ciò che ti chiedo, a tutto ciò
che voglio avere o sapere. Più a lungo indugerai a fare ciò che io comando e
ordino, più crescerà di giorno in giorno il tuo castigo. Io ti esorcizzo,
spirito maledetto e mendace, con le parole della verità.” In effetti,
l’atteggiamento dei negromanti davanti a Dio era diverso da quello che avevano
nei confronti dei demoni: in genere essi si presentano come umili e indegni
supplici davanti al Signore, implorando l’aiuto divino per ottenere potere
sugli spiriti. Questo, a conti fatti, rende la negromanzia medievale una vera e
propria forma di “magia cristiana”.
Riguardo
la natura stessa degli spiriti in questione, il più delle volte i negromanti
sono espliciti riguardo i nomi di coloro che vogliono chiamare, non solo Satana
ma anche demoni con nomi e attributi specifici; dato che la negromanzia è
comunque una commistione di cristianesimo e paganesimo, non è sorprendente
trovare di quando in quando una certa ambiguità riguardo gli spiriti invocati:
alcune fonti parlano di “spiriti neutri”, vuoi astrali o elementali, altre di
esseri che sono “fra il bene e il male,
né all’Inferno né in Paradiso”, e Cecco d’Ascoli parla di demoni associati
ai punti cardinali, con al loro servizio legioni di subalterni. Il Manuale di Monaco asserisce che gli
spiriti benigni sono chiamati per scopi buoni, e quelli maligni per scopi
malvagi. In genere, comunque, molti manuali mettevano in guardia dalla capacità
d’inganno dei demoni, e a volte si cercava di blandirli con formule come “Possa il Signore, nella sua misericordia,
restituirvi al vostro stato di un tempo.” I testi negromantici inoltre
riportavano a volte anche dettagliate informazioni sui demoni, su come
apparivano e cosa potevano insegnare (tant’è vero che persino l’erboristeria
venne malvista dai nemici della magia nell’epoca moderna).
LA STREGONERIA
“SCIAMANICA” ITALIANA
A
partire dalla seconda metà del XIV secolo fino al XVII, l’Italia settentrionale
fu teatro di molti processi per stregoneria, in particolare nelle zone
collinari e montane: i casi più eclatanti, di cui ci sono arrivati gli atti
processuali, sono quelli della Valle d’Aosta, di Rifreddo (Cuneo), di Venegono
Superiore (Varese), di Pisogne (Brescia) e della Val di Fiemme (Trento), ma
abbiamo numerose testimonianze anche per quanto riguarda il Biellese, l’Ossola,
il Novarese, la Valtellina, il Comasco, il Lecchese, il Pordenonese e il
Friuli, oltre che Milano, che detiene il primato della menzione della Signora
del Gioco; ci furono ovviamente anche processi nel resto d’Italia, ma in numero
nettamente minore rispetto a quelli delle zone nominate. Cercherò qui di
schematizzare brevemente le caratteristiche della stregoneria propriamente
detta, ovvero quella forma di magia diversa dalla summenzionata negromanzia, e
che prevedeva se non pratiche, almeno celebrazioni comunitarie; come detto, mi
limiterò qui ai processi italiani, in quanto sono di primario interesse nella
nostra indagine.
1) Comunità iniziatica.
La stregoneria
funzionava più o meno secondo caratteristiche semplici e comuni a tutte le zone
interessate: una strega più anziana avvicinava quella che le sembrava una
novizia promettente (a Venegono questo accadeva fuori da una chiesa, dopo la
messa, mentre in Val di Fiemme le streghe andavano direttamente a casa della
predestinata, o ancora in Valcamonica la strega avvicinava la novizia
incontrandola in maniera “fortuita” per i campi), e le presentava un bel
giovane straniero, che le prometteva grandi poteri se avesse deciso di divenire
suo amante, o la conduceva direttamente al ritrovo. In genere le streghe si
ritrovavano assieme per celebrare i propri riti (fossero essi le processioni
milanesi, i sabba della tradizione tarda, e via dicendo), a differenza dei
negromanti che potevano avere tutt’al più degli allievi.
2) Spiriti
famigliari. La
creatura che veniva presentata alla novizia veniva identificata dagli
inquisitori con un demone, ed è giusto dire che ogni congrega aveva più demoni
che assistevano le streghe. Non si sa se fossero uno per ognuna o uno per più
di una, fatto sta che il comportamento di questi spiriti era lo stesso che in
genere viene attribuito ai totem nelle tradizioni sciamaniche: Benvenuta di
Navi detta Pincinella, una strega camuna processata nel 1518, “dice di aver medicato molte persone,
secondo quello che mi insegnava il demone, il quale stava sempre presso di me,
perché mi voleva bene. Chiestole il nome di questo demone, risponde che si
chiama Giuliano; e disse che quando faceva quegli incantesimi sui malati, e
pronunciava il nome di Dio, della Vergine Maria e di san Giuliano, intendeva il
suo demone, e disse che Giuliano è stato 13 anni dentro una sua gamba, e la
consigliava su tutto quel che doveva fare.”
Riguardo a
chi le aveva insegnato le medicine, la Pincinella risponde che alcune le ha
apprese dalle persone, altre gliele ha rivelate Giuliano nel cuore, altre a
parole quando le domandava e gli appariva, a volte di giorno e a volte di
notte, per andare al Gioco. Dice che Giuliano le era apparso la sera prima,
sulla porta di casa all’ora di cena, dicendole che se non avesse rivelato quelle
cose all’Inquisizione le avrebbe fatto guadagnare dei soldi: c’era infatti a
Brescia un gentiluomo, disse, al quale era caduta una borsa con 50 ducati d’oro
nella latrina, e dava la colpa alla massara; se la Pincinella glielo avesse
rivelato, ne avrebbe avuti la metà, ma lei a quanto pare preferiva stare coi
frati che l’avrebbero uccisa[3]. Casi simili li possiamo vedere
in molti altri processi, e possiamo anche notare che, a differenza dei demoni
evocati tramite i libri di magia, ovvero quelli della tradizione demonologica,
quelli legati al Buon Gioco avevano nomi umani o soprannomi vezzeggiativi (Martino,
Angelino, Giuliano, Costanzo, Giorgio,…), e sempre in forma umana apparivano, e
mai animale (se non, in specifici casi, per condurre le streghe al sabba sul
loro dorso). A proposito dell’essere amante di demoni, nel processo venegonese del
1520 Caterina Fornasari chiariva che “per
quanto riguarda la sostanza e l’essenza del coito, il piacere era minore,
perché il membro di Martino non era né duro né rigido come quello di un vero
corpo e, quando era nella vulva, risultava cosa fredda, mentre negli abbracci,
nei baci, nelle tenerezze e carezze di ogni tipo, provava maggior piacere,
perché Martino le dava la sensazione di prediligerla sinceramente e
profondamente”[4] (una testimonianza simile la
ritroviamo anche nel summenzionato processo di Pisogne, in quelli della Val di
Fiemme, e in altri ancora).
3) Il Buon Gioco e
la sua Signora. Le
pratiche stregonesche erano semplici: in determinate notti (in genere di
giovedì, e non solo in quello delle quattro tempora, specifico di alcune regioni)
le streghe si ritrovavano in un luogo prestabilito e isolato, e si davano a
eccessi di ogni tipo assieme ai loro demoni; gli atti di profanazione
dell’eucarestia, il cannibalismo rituale e la presenza stessa del Diavolo
dovrebbero essere aggiunte posteriori, dovute forse all’agire
dell’Inquisizione, forse alla modifica dell’immaginario delle streghe stesse.
Per fare un esempio concreto, se nel Trecento a Milano si parlava della Signora
del Gioco (Madonna Oriente), a cavallo fra Quattrocento e Cinquecento essa
diventa una figura minore (ma ancora presente ai sabba), per poi scomparire del
tutto nei processi di fine secolo. Come detto, le streghe si recavano ai sabba
a volte nella carne, altre nello spirito: il Malleus maleficarum attesta che una strega, quando voleva volare al
raduno, si stendeva sul letto e vi andava in spirito, dopo essersi cosparsa
parti del corpo con uno strano unguento e volando fuori dalla cappa del camino,
a volte cavalcando scope o animali, o trasformandosi in animale essa stessa.
Non sappiamo ovviamente i dettagli dei riti che si svolgevano in segreto, se
non che avessero a che fare con dell’acqua (elemento che ricorre sin dalle
prime testimonianze milanesi), e che avessero ovviamente una componente
sessuale (ma non così nel processi trecenteschi); la maggior parte dei
partecipanti erano donne, per quanto siano attestati anche stregoni uomini. La
negromanzia non solo non prevedeva riti comunitari, ma come abbiamo visto non
aveva alcuna componente che potesse rimandare al volo notturno o alla
sessualità.
4) Magia istintiva. Sugli effetti della magia delle
streghe, per la maggior parte le testimonianze parlano del loro agire tramite
il tocco, col quale potevano far ammalare o uccidere, senza bisogno di
pronunciare incantesimi (ad esempio, la venegonese Tognina del Cilla afferma
che “hanno fatto morire un ragazzo di
circa dodici anni, che custodiva le bestie, toccandole tutte loro a una tibia;
e questo fu a persuasione di Elisabetta, la quale lo ha toccato per prima, e a
causa di quel tocco il ragazzo si è sentito male ed è morto”[5]); allo stesso modo potevano
entrare nelle case passando da aperture minuscole, probabilmente anche
rendendosi invisibili; era loro facoltà anche scatenare tempeste per devastare
i raccolti: da qui nasce forse la leggende dei tempestari (particolarmente in Emilia).
Anche qui, si tratta di una forma di magia diametralmente opposto a quella
negromantica, che prevedeva una ritualistica più o meno complessa.
Dalle
descrizioni dei rituali e dalla teologia esplicata dalle streghe stesse, quello
che viene chiamato Buon Gioco sembra essere una religione più che una pratica
magica: se la negromanzia era volta a ottenere qualcosa, la stregoneria (che
potremmo a buon diritto definire “sciamanica”) si fondava su figure precise,
aveva delle cerimonie fisse, richiedeva un’iniziazione che permetteva l’accesso
a un gruppo coeso e che forniva un contatto costante col soprannaturale, non
solo durante la pratica magica vera e propria. Si è supposto, a mio avviso
lecitamente, che la stregoneria fosse dunque un culto pagano sopravvissuto alle
persecuzioni, anche in vista del fatto che (aggiungo io) prima del Trecento e
della formazione degli Stati regionali italiani, gli estesi spazi del contado
erano amministrati da signori locali che non facevano capo a nessun potere
centrale, e gli stessi ecclesiastici, prima dell’istituzione delle pievi,
avevano una possibilità di monitoraggio della propria giurisdizione
estremamente limitata[6].
Ciò
detto, la coesione dimostrata tra le streghe, la conoscenza delle reciproche
congreghe anche a grande distanza e una tutto sommato similare struttura del
culto mi indurrebbero a pensare che questa religione sia nata come (o derivi da
un) culto misterico, più che essere una sopravvivenza clandestina di un qualche
culto locale pagano non altrimenti attestato. Se gli inquisitori parlavano di
Diana (inadatta per principio a un culto orgiastico, vista la sua verginità,
come già intuiva nel 1527 Giovanni Francesco II Pico della Mirandola[7]), gli studiosi moderni hanno
voluto identificare la Signora del Gioco con Epona, con tanto che la cosa mi
sembra, per più di un motivo, abbastanza forzata, non ultimo il carattere
guerresco e l’assenza di magia nella figura di questa dea, come anche la scarsa
presenza, nel Buon Gioco italiano, di anime di defunti, cui ella è connessa e
su cui ritorneremo brevemente.
FARE CHIAREZZA:
NEGROMANZIA E STREGONERIA
Mi
sembra opportuno riportare ora alcuni esempi delle due pratiche magiche, spesso
confuse fra loro dalla gente dell’epoca (e purtroppo ancora oggi).
Il
primo caso, forse uno dei più eclatanti, riguarda un processo tenutosi a
Cassano d’Adda nel 1520: alcune donne vengono accusate di “stregoneria”, e
raccontano all’inquisitore di aver appreso alcune arti da “un certo presbitero Bartolomeo che risiedeva nella
presente terra per educare il quale la persona succitata faceva più e diversi
incantesimi, che lui stesso scriveva in un suo libro nel quale aveva anche
scritto molte altre cose come allora aveva detto a lui il teste”, o ancora “imparai
questo a Milano da una donna del Rizo che stava a quel tempo con il capitano
della giustizia [...] e questa
femmina del Rizo fece quest’incanto con i grani d’allume per vedere se uno che
mi voleva tenere a sua disposizione e che mi aveva tolto a Caravaggio, dalla
strada, mi volesse bene o no, e così fatta questa cosa, mise i grani sul
focolare, il grano del mio predetto uomo che non si congiunse con quello messo
a mio nome, per cui codesta donna mi disse di andare dal capitano di giustizia
a far si che lui mi lasciasse.” Si parla dunque anche di come alcune delle
inquisite abbiano praticato la magia nella solitudine della propria casa: “Interrogata più volte e di nuovo confessò e
viene confessato che molte volte aveva invocato e aveva adorato il Diavolo che
a lui era apparso a volte sotto la forma di capro, altre sotto la forma di
abate sotto il nome di Baladas [probabilmente Barbas], al qual Diavolo chiese molti segreti dei maestri e della medicina…”,
o ancora “che anche la succitata donna
insegnò che avrebbe fatto nella camera di quello un cerchio con un coltello e
che accendeva una candela benedetta e quella stessa candela accesa teneva in
mano e che nuda entrava nel detto cerchio e dopo aver piegato le ginocchia
poste in terra, così curvata invocava il Gran Demone o Diavolo che colà si avvicinava
a lei e dopo che era alla sua presenza che la strega allo stesso Diavolo diceva
ciò che voleva e che dal Diavolo la strega otteneva tutto ciò che chiedeva”,
e segue il classico incantesimo d’amore, simile a quello riportato nella parte
sulla negromanzia. Ma, a un certo punto del processo, l’inquisitore chiede a
una delle donne sotto tortura “se mai fu
nel Gioco”, al che lei risponde: “Monsignore
io non so quale sia il Gioco, ma ho sempre vissuta da buona cristiana.”, e
prima ancora: “Interrogata se mai fu nel
luogo delle streghe con la Cossina soprannominata la Formiglia, rispose
‘Monsignore non fui mai né con lei né con altri.’…” e ancora oltre, dopo
altre torture: “Monsignore io ho detto il
vero né mai faccio il Gioco e non so quello che sia Gioco.”[8] In tutto ciò è palese che il processo verte su casi
di negromanzia, e tuttavia l’inquisitore chiede alle processate se si siano mai
recate al sabba, cosa che esse, sotto tortura, asseriscono di non conoscere:
questo basta (almeno a noi) a chiarire che non facevano parte di alcuna
comunità stregonesca, e che in genere streghe e negromanti non si
frequentavano.
Un altro caso abbastanza
eclatante, e riportato dal Paganini come caso di stregoneria in quanto vi
compare la figura della Signora del Gioco, è quello di Giuliano Verdena, un tessitore
mantovano processato nel 1489: stando ai testimoni, egli è solito trarre le
sorti riempiendo un vaso d’acqua (talvolta benedetta), accostandola a un lume e
facendo guardare nell’ampolla un bambino o una bambina, che devono pronunciare
una formula magica riguardante gli angeli. L’uomo consulta un suo libro per
interpretare ciò che i fanciulli vedono: sono riportati due casi, nei quali
essi vedono una volta una processione di molte persone “che sembrano musulmani”, guidati da Lucifero con un libro in mano,
e nell’altra la Signora del Gioco che,
“vestita di panni neri, col capo chino”,
appare a Giuliano stesso dichiarandosi pronta a rivelargli “il potere delle erbe e la natura degli animali”[9]. Si tratta di uno splendido
esempio di negromanzia (e più precisamente di catottromanzia o di idromanzia),
un rituale già attestato da Giovanni di Salisbury, il quale racconta che un
prete dedito alla divinazione spalmava sulle unghie sue (all’epoca
giovanissimo) e di un altro ragazzino un unguento riflettente, nel quale si
materializzavano segni, nomi e immagini demoniache[10]. L’interesse del Verdena è, a
suo stesso dire, quello di scoprire i segreti scritti sul libro di Lucifero, e
quelli che può insegnargli la Signora del Gioco per aiutare la Cristianità
contro l’assalto dei Turchi: non c’è nella sua pratica (né nella sua ambizione)
alcunché che rimandi alla stregoneria propriamente detta. Il caso in questione
è comunque degno di nota, in quanto ci mostra un interesse dei negromanti per
la stregoneria e le arti che essa comportava, e che evidentemente non erano ad
appannaggio della loro magia ritualistica e scritta sui libri: questo, unito
alla mentalità inquisitoria, può essere stato un importante fattore nella
“cristianizzazione” della visione del Buon Gioco, nel quale proprio in quel
periodo iniziano a comparire uomini di Chiesa ai sabba (come sul Tonale a
inizio XVI secolo).
ALTRE FORME DI
MAGIA MEDIEVALE
Come
possiamo vedere, dunque, distinguere la stregoneria e la negromanzia è
piuttosto semplice. Va comunque specificato che esistevano anche pratiche che
non rientravano propriamente in queste (o meglio, è difficile trovare loro una
reale posizione).
1) La magia
naturale. Una
tipologia magica che già i colti dell’epoca distinguevano dalla negromanzia o
magia cerimoniale (Vincenzo di Beauvais, Alberto Magno, Ruggero Bacone, e il
già citato Giovanni di Salisbury) è quella “naturale”, ovvero quella basata
sulle proprietà di pietre ed erbe, e il cui scopo era sostanzialmente quello di
guarire. Pur essendo apprezzata, essa era appannaggio sia delle classi colte
che del popolino, e spesso veniva unita a pratiche rituali: si trattava, a
conti fatti, di un insieme di nozioni provenienti in parte dal folklore locale,
in parte dalla classicità, a metà strada tra negromanzia e medicina, a volte
persino accostata alla stregoneria[11]; questo mi indurrebbe a pensare
che una simile distinzione esistesse più nella mente dei colti dell’epoca che
nel vissuto della gente comune. I Lapidarii
di Marbodo di Rennes e di Ildegarda di Bingen sono ottimi esempi di compendi di
magia naturale, ma che queste pietre venissero usate per le loro proprietà
senza una ritualistica è qualcosa di attestato solo nelle ristrette cerchie
delle corti nobiliari o comunque degli ambienti altolocati (dove, come abbiamo
visto, bazzicavano i negromanti).
2) La segnatura. Anche qui ci troviamo davanti a
pratiche magiche border-line, che
spesso usavano sì una certa conoscenze delle erbe e delle pietre, ma la univano
a una magia istintiva (spesso innata) di tipo chiaramente simpatetico: nella
sostanza, il mago può scoprire lo stato di salute o comunque ciò che riguarda
un soggetto analizzando qualcosa che è entrato in contatto con lui, e sempre in
questo modo agire magicamente su di esso. Il caso più eclatante è quello di
Gostanza da Libbiano, processata a San Miniato al Tedesco nel 1594: quando la
nipote di questa viene interrogata, l’inquisitore chiede “se quelli che venghino per le medicine portano panni come calzoni,
camicie et altro, dixe messer sì, et delle cuffie portano, et calze et delle
camiciuole rosse et bianche, et ancora camicie. Interrogata quel che fa di tali
panni, dixe li guarda et li misura et poi rende loro et dice che piglino de’
garofani et noce moschade et li diano alli amalati.”[12] E altri begli esempi sono quelli
valdostani di Anthonia Dollina di Perloz e di Beatricia de Meyllerio di
Champorcher, entrambe processate nel 1420 in quanto praticavano la segnatura
con le medesime modalità; tuttavia, nel processo della seconda si scende più
nei dettagli della pratica, asserendo che la donna scopre sì i mali delle
persone di cui le vengono portati gli abiti, ma lo fa perdendo conoscenza e
traendo a seguito di questo evento le formule di guarigione, che spesso
comportano preghiere e messe, oltre che rimedi veri e propri. La strega conosce
anche molte formule, come ad esempio per proteggere le mandrie dai lupi[13]: tutto questo, e in particolare
la trance di chiara natura sciamanica, mi portano a pensare a una stretta
correlazione con la stregoneria, che andrebbe approfondita con studi specifici.
Sta di fatto che la segnatura è la pratica popolare più diffusa nell’Italia
centro-meridionale, mentre la stregoneria propriamente detta sembra essere un
fenomeno per lo più settentrionale[14].
3) I Benandanti. Portati alla ribalta da
Ginzburg, i Benandanti friulani si configurano come degli uomini che, durante
le quattro tempora, si recano in determinati luoghi armati di bastoni di
finocchio e combattono contro le streghe, per impedire loro di rubare i
germogli dei campi e permettere dunque l’abbondanza delle coltivazioni: anche
in questo caso, gli inquisitori non sembrano essersi accorti di avere a che
fare con qualcosa di diverso da negromanti e stregoni (seppur la cosa venga
esplicata dai Benandanti stessi), e per tale ragione col passare dei secoli
questo gruppo diventa uno stereotipo stregonesco, con l’adorazione del Diavolo
e la partecipazione al sabba. Non è mia intenzione trattare nel dettaglio dei
Benandanti in questa sede: voglio solo far notare come questa forma di magia,
di chiara natura sciamanica, non abbia in realtà le stesse caratteristiche
della stregoneria italiana vista finora, e che dunque non possa essere
considerata una sua variante. Il celebre esempio del “lupo mannaro livone”[15], come anche la menzione di altri
gruppi simili ai Benandanti, ovvero i Kresniki della ex Jugoslavia e forse i
Taltos dell’Ungheria, indurrebbero a pensare che essi siano una tradizione
magica del mondo slavo, piuttosto che una qualche variante locale (ma di questo
parleremo più dettagliatamente a breve).
PROBLEMI
STORIOGRAFICI: GINZBURG E L’UNIVERSALISMO
Il
lavoro di Ginzburg del 1989, Storia
notturna, ha dato estremo lustro alla problematica della stregoneria, e
ancora oggi risulta essere un compendio di tantissime testimonianze
sull’argomento; pur tuttavia, nel corso degli anni altri documenti sono venuti
alla luce, e altri studi sono stati fatti: queste nuove uscite, spesso edite da
case editrici minori o locali, non hanno mai raggiunto la visibilità adatta a
integrare lo studio su vasta scala, anche solo a livello degli appassionati. Per
tale ragione, Storia notturna è
ancora oggi la “bibbia” degli studi di stregoneria, per quanto la sua visione
risulti a me personalmente piuttosto datata.
Il
punto centrale sono i tratti comuni delle stregoneria: si parte infatti dal
presupposto che la visione degli inquisitori sul fenomeno fosse corretta su un
particolare, ovvero che “la stregoneria” esistesse come corrente religiosa a sé
stante, con tratti comuni (la cerimonia orgiastica, il volo notturno, la
presenza di figure soprannaturali, l’esercizio di poteri magici) che la
configuravano come un unico fenomeno esteso su scala europea, tutt’al più con
varianti locali. Ciò si vede bene nel già citato caso dei Benandanti, che
vengono poi ridotti a stregoni stereotipici, all’aggiunta del Diavolo nel processo
alla milanese Pierina de’ Bugatis nel 1390, alla demonizzazione della Signora
del Gioco in Val di Fiemme, e così via. Ginzburg si adatta a questa mentalità
su un concetto molto importante: è vero che egli cerca di ricostruire i culti
pagani che avrebbero dato origine alla stregoneria, ma lo fa ritenendo che vi
sia un’origine comune di tutta la
stregoneria, ovvero una divinità femminile collegata alla processione dei morti
e al volo notturno, la stessa citata dal Canon
Episcopi del X secolo; pur tuttavia, un intero capitolo della sua opera è
dedicato alle “anomalie”, ovvero a quelle tradizioni stregonesche che non
rientrano in questo schema, le quali non sembrano avere alcuna continuità
logica fra di loro, ma di contro il loro numero è piuttosto elevato. Già questo
fatto basterebbe a mettere in discussione la liceità della sua teoria.
Ginzburg
sembra lasciarsi spesso andare a voli pindarici, cercando di collegare le
tradizioni siciliane con quelle nordiche, quelle iberiche con quelle slave, per
giungere alla conclusione che sì, ci sono tante anomalie, ma la sostanza è che
la stregoneria altro non sarebbe che la sopravvivenza del culto di una dea
preistorica di vita e di morte. In realtà, ipotizzando che la cosiddetta
“stregoneria” degli inquisitori altro non fosse che l’indebito accostamento di
culti e tradizioni locali dalla natura più disparata, si potrebbe sistemare il
problema, in maniera molto più logica e semplice: l’ecclesiastico dell’epoca
accomunava tutte le forme di magia (usando questo termine assieme a stregoneria
e negromanzia, in maniera equivalente), ed esse venivano riconosciute spesso e
volentieri perché le streghe propriamente dette compivano atti magici di natura
sciamanica. Questo però non significa che una strega slava avesse qualcosa in
comune con una strega lombarda, o una inglese, non più di quanto possano
accomunare forme di magia sciamanica o indoeuropea sviluppatesi in maniera
differente in epoca antica. Non è questa la sede per trattare diffusamente
degli errori di Ginzburg, ma basterà citare quello che trovo essere il più
grave, a titolo di esempio: il corteo di Diana o Erodiade altro non sarebbe,
secondo lui, che la processione delle anime dei morti, da accostarsi quindi
alla Caccia Selvaggia delle tradizioni germaniche; per questo esisterebbe la
stretta correlazione fra le streghe e i defunti, la qual cosa non è però
presente sul suolo italiano, se non sporadici casi nei quali compaiono alcune
anime di morti, ai quali non viene data molta importanza (il che, per una
processione che dovrebbe essere composta da spettri, risulta piuttosto strano).
L’intera stregoneria italiana, da quella piemontese a quella siciliana, un
insieme di tradizioni molto variegato, è dunque un’unica grande anomalia sul
suolo europeo? O forse è lo schema ginzburgiano a non reggere?
L’universalismo
di Storia notturna condiziona ancora
oggi la maggioranza degli studiosi, che parlano di un “fenomeno della
stregoneria”, e cercano di tracciarne le motivazioni psicologiche, politiche e
sociali; la comodità della teoria di Ginzburg porta anche molti appassionati a
riconoscerne la liceità, fermo restando che la stessa Wilby, parlando dei cunning folks, distingue nettamente le
tradizioni inglesi da quelle scozzesi[16], e risulta dunque improponibile
citare assieme queste tradizioni accanto alla Madonna Oriente milanese e alla
Regina delle Fate siciliana, come fa Paganini; ha dunque ancora senso, nel
2016, ritenere che esistesse un’unica, grande corrente stregonesca diffusa in
tutta Europa con varianti locali, piuttosto che pratiche locali di tipo
sciamanico poi indebitamente accomunate?
PROBLEMI STORIOGRAFICI:
LELAND E IL VANGELO DELLE STREGHE.
Negli
ultimi anni, la stregoneria romagnola e toscana è stata studiata in più di un
testo, e si sono dunque potute trarre alcune caratteristiche comuni della
stessa, che pare rientrare nell’ambito della segnatura, dunque una pratica a
metà strada tra la magia sciamanica e la medicina: in alcuni casi essa ricorda
la stregoneria norditaliana (come nel caso di Camilla di Montalcino, inquisita
nel 1590, la quale asseriva di poter guarire e far ammalare col tocco in virtù
di un patto demoniaco[17], o ancora di Diamantina Ramponi
di Forlì, che nel 1603 venne processata per motivi simili[18]), in altri la negromanzia e la
magia naturale (soprattutto, com’è logico, in ambienti cortigiani). La
distinzione tra le due grandi categorie della magia medievale è qui più sfumata
che altrove, eppure sempre ben presente. In Romagna e in Toscana dunque, come
anche in Emilia e altre zone limitrofe, la magia che dava problemi agli
inquisitori non era tanto quella delle evocazioni demoniache o dei sabba
orgiastici, ma quella che prevedeva una pratica medica illegale, cioè fuori
dall’ambito universitario (un problema che iniziò a riscontrarsi già tra XII e
XIII secolo).
Questa
era dunque la situazione. E in questo contesto (o per lo meno, nella Romagna e
nella Toscana di fine Ottocento) sarebbe stato scritto Aradia o il vangelo delle streghe di Leland, giornalista americano
che avrebbe ricevuto da una tale Maddalena, di origine romagnola ma residente
in Val d’Elsa, le credenze e le formule delle streghe, tutte scritte su un
libro che poi egli avrebbe tradotto dall’italiano all’inglese[19]. Il mito iniziale parla di come
Aradia, figlia di Diana e Lucifero, sarebbe stata mandata sulla terra per
insegnare le arti magiche alle donne, di modo da liberare gli schiavi
dall’oppressione uccidendo i padroni; seguono poi tutta una serie di formule,
scongiuri e rituali della natura più disparata. Vediamo brevemente nel
dettaglio cosa non funziona in tutto ciò.
1) Diana, Lucifero
e Aradia. Nel Vangelo, Diana ha nella sostanza il
ruolo che spetterebbe a Dio nel cristianesimo, ed è una sorta di “grande dea
madre” creatrice, che avrebbe ammaliato suo fratello Lucifero (la luce)
generando dunque Aradia. Questo mito non solo non è mai accennato in nessun
processo tosco-romagnolo, ma non ne abbiamo riscontro in nessun’altra parte
d’Italia. Si potrebbe tuttavia obiettare che in effetti il testo era una cosa
molto segreta, ma non è solo questo: il fatto è che dell’esistenza di Diana e
della sua identificazione con la Signora del Gioco si sono sempre fatti
promotori gli inquisitori, non il popolino, e allo stesso modo l’ultima
menzione di questa figura risale al 1519, in quel di Modena[20], dopodiché scompare del tutto.
Allo stesso modo va tenuto presente che la stessa figura del Diavolo, a partire
dal XVII secolo, inizia a scomparire, quando (stando alle testimonianze
processuali) i sabba si trasformano in ritrovi goliardici che non hanno quasi
più nulla di strettamente diabolico[21]. Dunque, se dobbiamo accettare
che la mentalità ecclesiastica abbia modificato le credenze stregonesche (la
qual cosa Leland sembra voler far passare riportando questi miti che
commistionano paganesimo e cristianesimo), non possiamo in nessun modo pensare
che a fine Ottocento ci fossero streghe che adoravano Diana e Lucifero (la qual
cosa poteva però apparire lecita a una persona dell’epoca, che aveva a
disposizione solo alcuni testi di mano inquisitoria, e non gli atti dei
processi, e probabilmente conosceva il folklore di altre parti d’Europa, come
la Romania). Infine, su Aradia si dice o che sia una corruzione del nome
Erodiade (anche qui, termine sempre usato dagli inquisitori e mai dalle streghe
processate), oppure una derivazione dell’Arada della tradizione
slavo-balcanica; in quest’ultimo caso, però, non mi sembra poi molto plausibile
che la correlazione tra figure così distanti (senza contaminazione storiche) sia
genuina (e stesso discorso vale per la coppia Diana-Lucifero, che deriverebbe
dalla stessa cultura slava).
2) Formule
negromantiche.
Il testo in questione sembra poi essere in tutto e per tutto un manuale di
magia: non si parla di contattare spiriti famigliari, non si fa cenno a
capacità innate, iniziazioni a un gruppo e a ogni altra cosa che riguardi la
stregoneria così come sopra descritto; in compenso, le formule sono
squisitamente negromantiche, seppur prive della componente rituale (o, laddove
vi è, risulta essere molto semplice). In tutto questo occorre però citare i
vari seguaci odierni di Leland, primo fra tutti Dragon Rouge, che nei suoi
libri non fa altro che esasperare la ritualistica negromantica della cosiddetta
“stregheria italiana” (attingendo a piene mani dall’esoterismo vittoriano), con
tanto di fumigazioni, apparizioni negli specchi di angeli e demoni, e così via,
tutte cose ben lontane dalla stregoneria tradizionale.
3) Impostazione
politica. Leland
era un anarchico e un insurrezionista, e pare difficile che l’impostazione così
apertamente anarchica del Vangelo
risulti essere un caso: passi come “tu
[Aradia] insegnerai l’arte di avvelenare,
di avvelenare tutti i signori, di farli morti nei loro palazzi, di legare lo
spirito dell’oppressore. E dove si trova un contadino ricco e avaro, insegnerai
alle streghe tue alunne come rovinare il suo raccolto con tempesta, folgore e
baleno, con grandine e vento”, oppure “Sarete
liberi dalla schiavitù! E così diverrete tutti liberi! Però uomini e donne
sarete tutti nudi, fino a che non sarà morto l’ultimo degli oppressori” mi
sembrano piuttosto esplicativi, e lontani da una qualunque mentalità
pre-rivoluzionaria (mentre lo stesso Leland asseriva che si sarebbe trattato
della “traduzione di un qualche testo di epoca
latina più o meno tarda”). Aradia stessa è l’esatto contrario di Cristo:
donna, strega, ribelle in maniera violenta, e figlia di una divinità femminile.
Occorre
inoltre ricordare che alcuni contemporanei di Leland (James McPherson, Alexander Carmichael e William Sharp) avevano scritto libri di folklore, contenenti formule magiche da loro
stessi rivisitate e poeticamente mescolate ad altre, spacciandoli poi per
manoscritti originali della tradizione celtica (Sharp si era addirittura firmato come
Fiona McLeod, e facendosi passare per una strega della tradizione celtica
locale). Tutto questo dovrebbe in sé bastare a dimostrare che è nettamente più
probabile (se non certo) che il Vangelo
delle streghe altro non sia che una creazione di Leland, peraltro
perfettamente immersa nell’epoca nella quale venne scritto, ma con nessuna
reale correlazione con la stregoneria italiana.
CONCLUSIONI
Il
fenomeno della stregoneria (soprattutto quella del nostro Paese) è un campo di
studio affascinante e per molti versi ancora inesplorato, oltre che immensamente
complesso: per tale ragione ogni banalizzazione e ogni semplificazione possono
risultare deleterie alla serietà dello studio. Non mi riferisco certo qui alle
lacune dell’articolo di Paganini, quanto alle pretese dei già citati seguaci
della “stregheria italiana” o “vecchia religione”, i quali non fanno altro che
aggiungere materiale preso da altre fonti al testo di Leland, già di per sé non
genuino, e dimostrando quindi di non avere idea di cosa fosse realmente la
stregoneria di epoca medievale e moderna.
Ognuno
è libero di credere in quel che vuole, e di praticare ciò che preferisce, certo:
esiste però una linea di confine, sottile ma ben evidente, che separa credenza
personale da credenza storica. Ovverosia, dire “io adoro Diana come dea della
forgia” è una faccenda puramente personale; ma dire “io adoro Diana come dea
della forgia, esattamente come facevano i Romani” va oltre la sfera del
personale, perché entra in quella storica, e risulta dunque essere errata. Il
secondo caso è, appunto, quella della stregheria italiana di Dragon Rouge e
altri (ma non solo loro), i quali sostengono, senza prove alla mano, che la
loro religione è quella stessa che veniva praticata dalle streghe medievali
(ma, come abbiamo visto, le fonti dell’epoca smentiscono tutto questo sistema
di credenze “storiche”).
Personalmente
la reputo un questione di sincerità: o i seguaci della stregheria lelandiana
ignorano totalmente gli studi sulla stregoneria, la qual cosa non fa loro molto
onore, visto che sarebbero i continuatori di quella religione, oppure li
rigettano, la qual cosa li inserisce in un sistema di credenze laddove il Vangelo delle streghe e le parole dei
maestri diventano dogma. In entrambi i casi, credo che ci troviamo davanti a
una religione che non è né revivalista né ricostruzionista, ma semplicemente un
sistema di magia rituale molto minore che riprende ciò che gli serve da altri
sistemi, spesso senza preoccuparsi di celare la cosa o di rendere coerente il
proprio insieme di credenze.
[1]
Ciò derivava dal fatto che,
secondo la teologia cristiana, le anime appartengono unicamente a Dio, e dunque
non possono essere richiamate sulla terra con la magia: quando ciò accade (a
partire dal caso biblico della strega di Endor), è perché un demone rianima il
cadavere o compare con l’aspetto del defunto.
[2]
Richard Kieckhefer, La magia nel Medioevo, Laterza (2004),
pp. 197-230.
[3]
Luisa Muraro, La Signora del Gioco. Episodi della caccia
alle streghe, Feltrinelli (1977), pp. 165-170.
[4]
Anna Marcaccioli
Castiglioni, Streghe e roghi nel Ducato
di Milano. Processi per stregoneria a Venegono Superiore nel 1520, Thelema
(1999), p. 95.
[5]
Ibid. (1999), p. 135.
[6]
A tal proposito, su tale questione
socio-politica, si veda Giorgio Chittolini, La
formazione dello Stato regionale e le istituzioni del contado. Secoli XIV-XV,
Unicopli (1979)
[7]
Nel suo La strega infatti dice che “noi sappiamo che Diana stessa (il giuoco
della quale or noi scopriamo a onta e dispregio del Demonio) fu liberale della
virginità che fingeva d’amare, forse per incitar quelli ch’abborrivano la
lussuria.”
[8]
AA. VV., Processi di streghe in Lombardia,
Meravigli (2006), pp. 126-143
[9]
Carlo Ginzburg, I Benandanti. Stregoneria e culti agrari tra
Cinquecento e Seicento, Einaudi (1966), pp. 77-78.
[10]
Franco Cardini - Marina
Montesano, Arte gradita agli dèi
immortali. La magia tra mondo antico e Rinascimento, Yume (2015), pp.
119-120.
[11]
Ibid., pp. 119-124.
[12]
Franco Cardini (a cura di),
Gostanza, la strega di San Miniato,
Laterza (1989), p. 139.
[13]
Silvia Bertolin - Ezio
Emerico Gerbore, La stregoneria nella
Valle d’Aosta medievale, Musumeci (2013), pp. 149 segg.
[14]
Non è
questa la sede per fare una digressione in merito: basti comunque ricordare che
la figura della strega, particolarmente in Meridione, ha nella maggioranza dei
casi tratti in comune col popolo fatato, più che con la persona che pratica
magia; in altre parole, nel Nord Italia la strega poteva essere la propria
vicina di casa, al Sud era una figura vaga e dalle caratteristiche molto più
soprannaturali. Per uno studio a riguardo, si veda Cesare Bermani, Volare al sabba. Una ricerca sulla
stregoneria popolare, DeriveApprodi (2008).
[15]
Carlo Ginzburg, I Benandanti. Stregoneria e culti agrari tra
Cinquecento e Seicento, Einaudi (1966), pp. 47-51.
[16] Emma Wilby, Cunning folk and familiar spirits.
Shamanistic visionary traditions in early modern British Witchcraft and Magic,
Sussex Academic Press (2005), part. I.
[17]
Oscar Di Simplicio, Inquisizione, stregoneria, medicina. Siena e
il suo Stato (1580-1721), Il Leccio (2000), p. 119
[18]
Giuliana Zanelli, Diamantina e le altre. Streghe, fattucchiere
e inquisitori in Romagna (XVI-XVII secolo), MET (2001), pp. 35-77.
[19]
Per una più esaustiva
analisi sull’argomento, rimando a Robert Hutton, The triumph of the moon. A history of modern pagan witchcraft,
Oxford (1999), pp. 141-148.
[20]
Dinora Corsi, Diaboliche, maledette e disperate. Le donne
nei processi per stregoneria (secoli XIV-XVI), Firenze University Press
(2013), pp. 104-105.
[21]
Giuseppe Farinelli -
Ermanno Paccagnini, Processo per
stregoneria a Caterina De Medici (1616-1617), Book Time (2011), pp. 97-98.
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