La lastra commemorativa per il marchese Federico III Fagnani nella chiesa parrocchiale di Gerenzano. |
FEDERICO
(I) FAGNANI (19 novembre 1633 - 6 agosto 1693), capitano di
fanteria (1654), signore di Robecchetto (investito il 20 luglio 1690 dal notaio
Giuseppe Benaglio per 55 lire per fuoco, poi corretto in 47, e 100 ogni 3 lire
di reddito feudale) e primo marchese di Gerenzano (1691) grazie a un diploma di
Carlo II, ove veniva confermato nel possesso del feudo appoggiato al titolo
marchionale, trasmissibile ai figli primogeniti maschi (A. Banfi giustifica la
cosa col fatto che la famiglia “fu
illustre nel campo della storia, delle arti e delle lettere, e non meno
benemerita nelle opere di pietà e carità, e incontrò lodi e plausi unanimi”).
Si sposò nel 1675 con Clara Clerici (13 ottobre 1653 - 9 gennaio 1734), figlia
di Carlo Clerici, senatore e marchese di Cavenago, e di Eufemia Bonetti, figlia
del senatore Giovanni Battista Bonetti. Ebbero 9 figli.
1. Margherita (28 giugno 1676 - 13
luglio 1684).
2. Maria Anna
Francesca (7 maggio 1677 - 17 agosto 1677).
3. Gerolama (7 agosto 1678).
4. Giacomo (vedi sotto).
5. Carlo Antonio (21 ottobre 1681 -
prima del 1693).
6. Ippolita Teresa (8 ottobre 1682 - 23
marzo 1754), sorella del monastero di San Lazzaro col nome di Chiara
Margherita.
7. Muzio Giuseppe (17 ottobre 1683 - 24
settembre 1693).
8. Teresa Maria Rosa (15 gennaio 1685 -
prima del 1701).
9. Maria Antonia (13 luglio 1687 - 1
febbraio 1749), sorella del monastero di San Lazzaro col nome di Chiara
Marianna.
GIACOMO (I) FAGNANI (2 novembre 1680 - 6
maggio 1755), secondo marchese di Gerenzano (1693), membro dei LX decurioni, giudice
delle strade, membro dei XII di provvisione, conservatore del patrimonio e
magistrato milanese (il suo stemma, un’aquila argentata in campo azzurro, si
trova ancora oggi in un’affresco al piano superiore del Palazzo della Ragione).
Si sposò (15 ottobre 1701) con Marianna Stampa (19 novembre 1683 - 15 gennaio 1756),
figlia di Cristierno Stampa, conte di Montecastello, e di Giustina Borromeo dei
conti di Arona. Ebbero 8 figli.
1. Federico (vedi sotto).
2. Cristierno (9 marzo 1704 - 13
giugno 1751), si dice fosse zoppo.
3. Ambrogio (27 gennaio 1706 - 28
ottobre 1775), marchese e arciprete del Duomo di Milano (1743-1775), laureatosi
alla Pontificia Accademia Ecclesiastica di Roma nel 1728, lasciò parte dei suoi
beni all’Ospedale Maggiore di Milano.
4. Maria Giustina (9 novembre 1707 - †
?).
5. Giovanni Battista (10 agosto 1709 - 11
ottobre 1710).
6. figlia (27 settembre 1710).
7. Carlo Maria (5 settembre 1711 - 20
ottobre 1716).
8. Clara (7 febbraio 1714 - 29
aprile 1784). Si sposò a Robecchetto (1 ottobre 1731 o 17 novembre 1731, con
dote) con Giovanni Alimento Della Porta Modignani (1690 - 23 gennaio 1762), marchese
di Ghemme (1727), decurione di Novara, figlio del conte Ardicino Della Porta e
di Ippolita Modignani.
Oltre che alle tradizionali proprietà di Robecchetto (ove
possedeva un aratorio vitato con moroni di 143 pertiche) e Gerenzano, stando a
un documento del 1722 del Catasto Teresiano, il marchese possedeva anche 79 (poi
100) pertiche di terreno coltivato a vite e 294 a cereali, oltre che a 3
edifici (per un valore di 277 scudi) presso la Cascina Fagnana (oggi frazione
di Turate). Sempre a Robecchetto, è testimoniato che contribuisse alle spese
per la chiesa di Santa Maria della Purificazione, sovvenzionata dal popolo.
Merita una citazione la “vicenda della lapide
sepolcrale”, avvenuta nel suddetto paese. La famiglia Lampugnani, per quanto
proprietaria di gran parte di Robecchetto nel XVIII secolo, non volle radicarsi
nel paese e nel cuore degli abitanti: nel 1736 Francesco Lampugnani, per quanto
gravemente malato, giunse in villeggiatura a Robecchetto, convinto che la
salubre aria del paese gli sarebbe stata di grande giovamento. Nel settembre,
invece, morì e fu sepolto in Santa Maria della Purificazione. I tre figli,
Giovanni Domenico, Antonio e Giuseppe, decisero di dedicargli una bella lapide
sepolcrale, con tanto di stemma gentilizio. Il giorno 28 ottobre, col maestro da
muro, si recarono in chiesa nonostante il divieto del parroco e della
Confraternita del Santissimo Sacramento, responsabili della gestione e del
mantenimento del luogo.
I Lampugnani nulla davano alla chiesa, per cui erano
malvisti dai paesani che si opposero alla messa in opera della lapide. Sconfitti
ma non domi, si rintanarono nel proprio palazzotto, portando con sé il
manufatto, ma poi incaricarono il marchese Corio, avvocato, perché difendesse
la loro causa e coinvolsero nella vicenda il marchese Giacomo Fagnani. Dai
documenti riguardanti la controversia, appare chiaro che fra le due famiglie,
che stavano su diversi gradini della scala sociale, non vi erano rapporti: il Fagnani
neppure sapeva dove fosse “Casa Lampugnani” a Milano. Pur essendo impegnato
negli sponsali del figlio Federico, promise di risolvere la vertenza, usando il
suo potere, prima che la sposa giungesse a Robecchetto. La controversia durò a
lungo, ma alla fine la popolazione dovette cedere e permettere la posa della
lapide.
Il marchese viene citato anche in un atto plebano del
1747 riguardante la chiesa di San Giacomo in Gerenzano, ove si riferisce che
continuava a sovvenzionare le messe predisposte dal suo omonimo antenato,
committente della chiesa: “Ill.mus
Dominus Marchio D. Jacobus Fagnanus curat dictae Missae celebrationem per Rev.
Presbyterum Honoratum Oragum, eam erogando elemosynam, quae huic Missae
quotidianae correspondet.”
FEDERICO (II) FAGNANI (Milano?, 14 ottobre 1702
- Robecchetto?, 18 maggio 1782), terzo marchese di Gerenzano (1755),
ciambellano, membro dei XII di provvisione, membro dei LX decurioni e
conservatore del patrimonio. Si sposò (21 ottobre 1737) con Rosa Clerici (15 aprile 1722
- 29 luglio 1807), figlia di Giorgio II Clerici, marchese di Cavenago, presidente
del Senato, uomo potentissimo e molto ricco, proprietario di numerose ville e
palazzi, e di Barbara dei conti Barbavara. Ebbero 3 figli.
1. Marianna (3 luglio 1739 - 15
gennaio 1814). Si sposò (20 ottobre 1755, con dote) con Francesco Antonio Visconti
Pirovano (27 luglio 1729 - 19 luglio 1792), primo marchese di Vimodrone (1778),
figlio di Carlo Pirovano e di Laura Seccoborella dei conti di Vimercate.
2. Giacomo (vedi sotto).
3. Giorgio (dicembre 1741 - 2
ottobre 1742).
Le fonti ci tramandano Federico e Rosa come persone
dal carattere austero e aspro, molto consce della propria nobiltà e dignità,
nonché del proprio potere (d’altra parte, i Fagnani erano tra le maggiori
famiglie milanesi per nobiltà e censo); in particolare descrivono la marchesa
Clerici come donna di aspro carattere, chiusa e austera: in un documento
conservato presso l’archivio parrocchiale di Robecchetto viene immortalata
mentre passeggia sotto il portico della sua villa nel periodo della
villeggiatura, altera ed inaccessibile per i suoi contadini. Sempre nell’archivio
in questione sono conservati molti documenti che menzionano il marchese
Federico, spesso in lite con l’allora parroco del paese, Giovanni Battista
Ferrario. Pare che il marchese fosse molto presente nella vita del paese e che
avesse una sorta di giuspatronato
sulla chiesa parrocchiale; sicuramente era priore della locale Confraternita
del Santissimo Sacramento.
Delle questioni fra il marchese Federico e don Ferrario
venne investito persino l’imperatore
Giuseppe II, al quale il prete consegnò tutti i suoi ricorsi perchè
venissero giudicati a Vienna. Proprio alla penna del sacerdote dobbiamo il ricordo
di alcuni fatti che videro protagonisti il marchese. Nell’ottobre del 1765,
dopo che il Ferrario ebbe rimandato a mani vuote la “cappa nera” (un cameriere
di particolare fiducia) del marchese, che, secondo gli ordini ricevuti dal
padrone, gli chiedeva la consegna delle cassette per l’elemosina alla chiesa,
il Fagnani, che considerava don Ferrario “torbido ed inquieto, che aveva il
solo scopo di romperla col suo feudatario” (testuali parole del nobile, che
riteneva altresì che le cassette dell’elemosina dovessero essere gestite dalla
Scuola), decise di procedere all’inventario delle suppellettili del sacro luogo
(evidentemente aveva dei dubbi sulla “gestione” del sacerdote).
Quando il prete si asserragliò in chiesa, suonando a
distesa le campane, il marchese - a dire del Ferrario - perse le staffe,
insultò il parroco, gli diede del birbante
e disse che l’avrebbe fatto bastonare. Gridava il marchese: “Dal duca, dal duca
di Modena voglio andare e farti cacciare via da Robecchetto!”; gli
rispondeva il parroco: “E io andrò a Vienna dalla regina d’Ungheria!”;
nel frattempo il nobile Lampugnani, che accompagnava il marchese, cercava di
picchiare il sacerdote con il bastone della croce dei funerali. Don Ferrario si
rivolse al Tribunale Civile contro l’asserita violazione dei suoi diritti, ma venne
arrestato. Non si conoscono ulteriori sviluppi della vicenda, ma
una
lettera inviata dal marchese pochi mesi prima della sua morte ci fa intravedere
un don Ferrario gentile e ossequioso nei confronti del feudatario. Un parroco,
suo successore, scrive: “... lui [don Ferrario] che tanto
aveva lottato e sofferto per le angherie ed i soprusi dei signori feudatari,
non aveva avuto la consolazione [...]
di far riposare le sue stanche ossa presso San Vittore.”
Il marchese Federico partecipò probabilmente anche all’opera
di bonifica e rimboschimento dei territori del Bozzente (assieme ad altri
nobili quali Borromeo, Castelbarco e Villani), in seguito alla “grande
piena accaduta nell’anno 1756, quando il Bozzente, accresciuto dal torrente
Gardaluso e dal torrente di Tradate, interamente introdottovi contro ogni
equità, dopo il taglio dei loro medesimi argini, portò quasi l’eccidio delle
Comunità di Cislago, di Gerenzano, d’Uboldo, d’Origgio e di Rho, con quella
lacrimevole inondazione accorsa nel primo luglio, quale atterrò case, disertò
immense campagne, affogò armenti e diede la morte a molti abitatori.”
GIACOMO (II) FAGNANI (Milano, 1 settembre 1740
- Milano?, 17 luglio 1785), quarto marchese di Gerenzano (1782) e primo
impresario del Teatro alla Scala di Milano, dove i Fagnani avevano due
balconate. Si sposò (14 gennaio 1767) con Costanza Brusati (6 dicembre 1747 - 24
gennaio 1805), figlia di Pietro Brusati, marchese di Settala, e di Antonia
Solari. Ebbero 3 figli.
1.
Maria Emily “Mie Mie” (vedi sotto)
2.
Federico (vedi sotto)
3.
Antonia Barbara Giulia
Angiola Faustina Lucia (vedi sotto)
Giacomo, giovane dalla natura impetuosa e leggera, si
fece conoscere da tutta Milano nel 1763 quando, all’età di 23 anni, cercò di
sposare la cantante Caterina Gabrielli (che allora si esibiva al Teatro Regio
Ducale) e fu per questo incarcerato, come racconta la Cronaca di Cola de li Piccirilli (personaggio fittizzio dietro al
quale si nasconde probabilmente Pietro Verri): “Lo jorno vente de Marzo lo Marchese Fagnani fu
condotto in Castello da lo Si Capetano de Justizia, peché se dicia che volisse
sposare na cierta Cantarina Gabrieli, peché è verissimo che lo matrimonio è
libero et che le Teologi scommunicano chi decesse lo contrario, ma chi avenno
Padre volisse ascoltar la Teologia su chisso ponto saria posto in carcere in
prova de libertà, come apponto avinne de lo Marchese Fagnani, che ve fue pe’
quaranta nove giorni sino allo diece de lo mese de Majo, et chisso pure se
dimenticaria se io Cola de li Picirilli non lo avisse scritto de mia mano et pe’
mio devertimiento.” Sicuramente la
prigionia gli fece sbollire gli ardori per la famosa cantante; parimenti
Caterina venne allontanata da Milano per la sua tresca amorosa col marchesino.
All’età di un anno, Costanza Brusati perse il padre;
la madre quindi si risposò col conte Barton, comandante del Castello di Milano.
Diventata adulta, ebbe successo come cantante e ballerina all’Opera Italiana;
tuttavia, probabilmente per sfuggire alla gravità di un patrigno indesiderato,
si sposò con Giacomo Fagnani.
I genitori di questo non erano contenti di vedere il
figlio sposare una ragazza di stirpe troppo poco nobile rispetto alla loro. Non
sentendosi a proprio agio con la nuova famiglia, i due presero a viaggiare di
città in città. Passarono nella storia
di Milano per essere due personaggi dissoluti ed eccentrici: appena sposati,
nel 1767, intrapresero come di consueto il grand
tour a Firenze, Roma e Napoli. Ritornati a Milano nel 1769, attirarono l’attenzione
pubblica lui per la frenesia che mostrava nel dilapidare le cospicue fortune
paterne come giocatore d’azzardo, lei per le sue civetterie e stravaganze nel
vestire all’ultima moda, con acconciature monumentali (alcune pettinature si
alzavano quasi di un metro e avevano alla sommità fiori, frutta e tortore
svolazzanti, come nel caso del famoso puff
di sentimento). Era un tale personaggio che Laurence Sterne la citò nel cap.
XXXV del suo Viaggio Sentimentale
(1768). Il marchese la lasciò poi temporaneamente per viaggiare in Corsica,
ove conobbe Pasquale Paoli, famoso patriota corso.
Quando
in Inghilterra Costanza ebbe una figlia adulterina dal loro comune amico, il
conte di March, Giacomo, fingendo di non vedere il comportamento della moglie,
dissipò la sua fortuna nel gioco d’azzardo; venne salvato proprio da costui, e
infine adottò la bambina come figlia sua.
Fu
probabilmente durante la vita del quarto marchese che si diffuse una storia
particolare riguardante Palazzo Fagnani a Milano, attualmente in via Santa
Maria Fulcorina. Un tempo tale costruzione aveva un grazioso e raccolto
cortile, circondato da un ricco fogliame che creava una lunga e fresca
muraglia, isolandolo completamente. “Qui
si raccoglievano [...] alcuni
patrizi, forse affiliati ad una accademia letteraria, a recitare madrigali, ad
ascoltare musiche pastorali, e fors’anche a ballare minuetti nel prato.
Immaginiamo una ventina di dame vestite da contadinelle e di cicisbei in
costume di pastori: come dovevano sentirsi a disagio, in quelle rozze vesti, i
galanti cavalieri avvezzi alla parrucca bianca, alle calze di seta, allo
spadino! E c’è da giurare, invece, che le gentildonne saranno riuscite ad
essere eleganti e graziose anche negli abiti rusticani...” (G. C. Bascapè, I Palazzi della Vecchia Milano) Inoltre
ogni “arcade” portava con sé un agnello o una capretta abbellita e profumata
con ornamenti e cocche. Passavano così ore e ore in piacevoli conversazioni,
recitando poesie e melodrammi pastorali. Alcune volte il banchetto era
preparato in giardino, su rustici tavoli ma con cibi molto raffinati o in
graziose capanne che forse avranno nascosto qualche furtivo incontro d’amore e
qualche dolce promessa.
Giacomo
Fagnani assunse nel gennaio 1776, con altri due gentiluomini, la gestione del
ridotto dell’erigendo Teatro alla Scala, relativamente al gioco d’azzardo che
vi si teneva; tuttavia, a causa della
sua vita dissoluta, il marchese era divenuto cieco, pazzo e sifilitico: venne bandito
il 1 giugno 1781 e si stabilì in una sua proprietà (probabilmente Gerenzano),
anche se venne portato a Milano poco prima della morte, il 17 luglio 1785; c’è
una sua ironica descrizione in un Avviso
di Milano, una sorta di gazzettino del tempo: “Trovasi alla campagna il
cieco mentecatto Fagnani. L’amorosa sua moglie vi si porta a visitarlo
regolarmente una volta alla settimana in compagnia del professor antiprolifico [Pietro] Moscati. Vanno ambi vestiti a la
Levite color carne con fasce celesti, cappelli e scarpe bianche, in un
magnifico carrettino con livree e postiglioni che non volgonsi indietro, infine
un equipaggio che tutta spira asiatica galanteria.” Durante questo periodo, infatti, la moglie
Costanza dimostrò un “approccio
comprensivo e devoto”. Dopo la scomparsa del marito, Costanza ebbe una
serie di amanti (nessuno molto ricco), e infine morì a Misinto, il 24 gennaio
1805.
FEDERICO (III) FAGNANI (Milano, 8 novembre
1775 - Milano, 8 ottobre 1840)
Fu il quinto marchese di Gerenzano e Robecchetto
(1785), dottore in legge (1794), tesoriere del Regno d’Italia (1805), conte del
Regno d’Italia (1807), cavaliere della Corona di Ferro (1807), membro del
Consiglio di Olona (1808), consigliere del Comune di Milano (1816-1840), devoto
cavaliere dell’Ordine di Malta (1824) e membro onorario del Reale Istituto di
Scienze, Lettere e Arti (1840).
Primogenito
maschio di Giacomo II Fagnani e di Costanza Brusati, nacque a Milano l’8 novembre
1775. Studiò nel Collegio dei Nobili di Siena, laureandosi in Legge nel 1794: suo maestro fu il
senese Angelo Maria dei conti d’Elci, grande bibliofilo, scrittore ed erudito, che
trasmise al giovane l’amore per la cultura. Nella Milano napoleonica il marchese ricoprì varie e importanti
cariche: nel 1805 fu ciambellano, poi consigliere di Stato, nel 1807 cavaliere
della Corona Ferrea, istituito da Napoleone Bonaparte quale re d’Italia con il
Terzo Statuto Costituzionale del 5 giugno del 1805 (al fine di assicurare con
dei contrassegni d’onore una degna ricompensa ai servizi resi alla Corona tanto
nella carriera delle armi, che in quella dell’amministrazione, della
magistratura, delle lettere e delle arti), e infine, nel 1810, uditore del
Consiglio di Stato.
Nel 1809 fu nominato dall’imperatore Napoleone conte del Regno d’Italia; Flavio Fagnani, uno dei discendenti
collaterali del marchese, possiede una lettera originale del suo avo, datata 11
novembre 1809 e indirizzata al Consigliere Segretario di Stato Antonio
Strigelli, in cui il Fagnani lo ringrazia per l’onorificenza
ricevuta con decreto del 10 ottobre 1809, a firma dell’imperatore Napoleone, e recapitatogli il 26
ottobre 1809 per ordine del Cancelliere Guardasigilli della Corona Francesco
Melzi d’Eril, di
cui riportiamo la trascrizione: “Fagnani
Conte/Sig.r Segretario/Sono sollecito di significarLe che mi è pervenuta alle mani il di Lei pregiatissimo
foglio dato in Milano il giorno 26 Ottobre per il quale in esecuzione degli
ordini di Sua Eccellenza il Cancelliere Guardasigilli della Corona mi partecipa
come La Maestà del Re
d’Italia
si è degnata
nominarmi Conte del Regno, e nel tempo stesso m’informa di ciò che io debba fare a tenore delle Sovrane
disposizioni in tale circostanza./Nell’adempiere questo mio preciso dovere mi reputo
fortunato di trovare l’opportunità di farLe conoscere i sentimenti della mia
verace stima per la sua degna Persona./Parigi 11 novenbre 1809/ Federigo
Fagnani” (Ill.
3). La
lettera, indirizzata all’allora
Segretario di Stato, è l’unico autografo del Fagnani; il resto dell’archivio di famiglia, confluito in quello dei
Clerici, è andato
distrutto durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, che non
risparmiarono il palazzo di Milano di corso Venezia, di proprietà della famiglia Arese.
L’anno
successivo partì per la Russia degli zar, dove rimase circa 6 mesi, accompagnato
dal suo servitore Angelo Cetti e
alloggiando nell’albergo De Bordeau; scrisse un resoconto del suo viaggio,
intitolandolo Lettere Scritte di
Pietroburgo Correndo gli Anni 1810 e 1811 dal Marchese Federigo Fagnani. La prima edizione del libro venne pubblicata nel 1812,
mentre la seconda, rivista e annotata nel 1815, venne preparata nella stamperia
di Giovanni Bernardoni di Milano. Egli descrive San Pietroburgo dal punto di
vista architettonico, le cautele che si praticano nella Russia per difendersi
dal freddo, il bagno russo, i teatri e le conversazioni, l’ospedale dei
dementi, i collegi di educazione, i luoghi pii, la zecca e la banca imperiale.
Da funzionario di Napoleone, il Fagnani fu un attento
osservatore del sistema legislativo;
egli considera i codici e le leggi di uno Stato il mezzo attraverso il quale è
possibile misurare il grado di sviluppo civile e morale raggiunto dalla società
(“Il
primo passo, che l’uomo fa verso il vivere civile, è l’aggregazione in società,
e non vi è società senza patti, e senza convenzioni reciproche tra quelli che
si ristringono a vivere insieme. Quindi è, che la prima norma per giudicare de’
progressi dello spirito umano, è lo stato della giurisprudenza.” [1]); ha una concezione
del diritto ancora legata alle teorie di Hobbes, per cui l’origine del diritto
è naturale e l’unico garante del bene dei cittadini è il sovrano.
Il nobile milanese riconosce nel libero arbitrio e nella magnanimità
dello zar il miglior modo di governare i Russi; accenna inoltre all’arrivo di
alcuni giureconsulti dalla Germania, chiamati da Alessandro I per “ammodernare”
le leggi russe e il Codice civile (“La Russia ha un Codice civile come ogni
altra più colta nazione.” [2]). Il ruolo del Senato nella Russia di inizio
Ottocento è marginale e “le cose della pace e della guerra dipendono
assolutamente dal libero arbitrio del Sovrano” [3], che si avvale del
parere consultivo del Consiglio di
Stato, dove “si discutono i più gravi affari concernenti
specialmente l’amministrazione pubblica.” [4]
Sempre in questo libro,
inoltre, l’autore predisse con sorprendente esattezza il disastroso esito della
spedizione di Napoleone in Russia nel 1812: “Il
vostro sovrano sconfiggerà i nostri eserciti [...] Costretti a retrocedere, noi daremo il guasto ai paesi che
abbandoneremo e li trasformeremo in deserti. Le piogge autunnali convertono le
strade in pantani [...] succedono da
vicino le nevi ed i ghiacci che rendono poco meno che impossibile ogni militare
intraprendimento.”
Il marchese era vicino
ideologicamente alle posizioni degli Italici (formatosi a Milano dopo l’abdicazione di Napoleone), di cui faceva parte anche Federico Confalonieri, e che puntava all’indipendenza del Regno,
affrancato dalla dominazione straniera e senza il principe Eugenio come
sovrano. Le fonti scritte dell’epoca confermano tuttavia
che non ci sia stato nessun coinvolgimento diretto del Fagnani nell’omicidio di
Giuseppe Prina; il marchese risulta da più parti essere firmatario della
richiesta di convocazione dei Collegi elettorali e vicino alle posizioni di
Confalonieri, ma estraneo ai fatti di sangue del 20 aprile 1814.
Carlo Botta lo include
comunque tra i partecipanti alla protesta davanti al Senato: “Era il venti aprile quando, essendo il senato
raccolto nelle sua solita sede, una gran massa di gente, gridando a lui traeva:
era il cielo nuvoloso e scuro, un’apparenza tranquilla spaventava gli spiriti
tranquilli. I commossi non si ristavano. Eranvi ogni genere di uomini, plebe,
popolo, nobili, operaj, benestanti, facoltosi. Notavansi principalmente fra l’accolta
moltitudine Federigo Gonfalonieri, i due fratelli Cicogna, Iacopo Ciani,
Federigo Fagnani, Benigno Bossi, i Conti Silva, Serbeloni, Durini e
Castiglioni.” [5]
Non contrasse mai
matrimonio, né sono noti i nomi di sue amate, se non quello di Angela
Pietragrua. L’unico nota a riguardo, datata 26 dicembre 1814, si trova a
margine di una copia in possesso di Stendhal dell’opera di Luigi Lanzi, Historia
Pittorica dell’Italia, in cui lo scrittore francese lamenta di essere stato
abbandonato dalla sua amante Angela per il marchese Fagnani: “Quand je vois ma
maîtresse prête à m’abandonner pour M. Fagnani parce qu’il est Marquis, parce
qu’il a imprimé pour des raisons viles, ce qui me tue, c’est la mort de mes
illusions les plus chères. La vie perd son prix à mes yeux. Voilà exactement ce
qui m’arrivait le 26 décembre 1814.” [6]. Stendhal descrive inoltre la sorella minore di Federico,
Antonietta (1778-1847), moglie di Marco Arese Lucini, nella Chartreuse
(alla fine del V capitolo del 1. libro) come una delle donne più belle di Milano
insieme all’amata Angelina.
Le Lettere di
Pietroburgo, comunque, sono
l’unico saggio a sfondo politico-sociale che il Fagnani abbia scritto: infatti, dopo il breve periodo
politico che lo amareggiò, si dedicò totalmente alla conduzione delle sue
aziende agricole e ai libri. Visse isolato nella sua villa di Gerenzano,
continuando a raccogliere libri e scrivere saggi, per lo più trattati d’economia campestre o allevamento di bachi
da seta (La Notizia della Bigattaia Padronale della
Fagnana, Buon Governo dei Filugelli e delle Bigattaje, Osservazioni di Economia Campestre Fatte
nello Stato di Milano), insieme alle Riflessioni Morali e Politiche Intorno ad
Alcune Opinioni e Teorie dei Nostri Tempi (1822) e a una traduzione degli Epigrammi di Marziale (Epigrammi di
M. Val. Marziale Volgarizzati in Rima e in Altrettanti Versi da Federico
Fagnani, Milano, Bernardoni, 1827). I libri
scritti in quegli anni (1816-1820), pur essendo trattati economici, sono la
testimonianza della volontà dell’autore di continuare a perseguire la causa
dell’unità d’Italia attraverso la scrittura, come i vari riferimenti e le
metafore all’interno dei testi dimostrano.
Il
marchese parla spesso di una “comune Patria”, l’Italia e, sorprendentemente,
alla fine di uno dei suoi trattati, fa delle considerazioni di carattere
politico e invoca il “bene dell’Italia”. Ha rispetto e considerazione dei suoi
contadini, e si schiera contro il latifondo e la riduzione dei contadini a mera
forza lavoro. Il marchese propone due metodi di coltivazione e allevamento in
cui i contadini partecipano agli utili: uno in cui vige un sistema di assoluta
comunione di danni e profitti tra i contadini e il padrone, che il Fagnani
preferiva, l’altro basato sull’identificazione e la proprietà per ogni singolo
contadino all’interno di una coltivazione comune. Nei suoi scritti si dichiara
favorevole al conferimento di denaro ai contadini creditori; al momento della
sua morte si è rivelato un possidente generoso con i suoi lavoratori,
predisponendo nel testamento rendite vitalizie per i suoi contadini.
In Osservazioni di Economia Campestre del
1820 parla infatti della difficile condizione dei contadini: “I contadini costituiscono, a detta d’ogni uomo
sensato, la classe più laboriosa, la meno proclive al vizio, e la più utile
della società, eppure con singole contraddizioni e ributtante ingiustizia gente
tanto benemerita e negletta, vilipesa, ed anco trattata con maggiore asprezza
d’ogni altro ordine della società.” [7]
Il “bene
dell’Italia” ancora si ritrova tra le pagine di Notizia della Bigattaja, che si conclude con una interessante
riflessione di carattere politico-sociale, quasi un incoraggiamento alla lotta
per l’indipendenza: “Molti
già non si reggono più co’ suggerimenti de’ loro ministri; e quasi emancipati
da questa specie di servitù, vogliono vedere co’ propri occhi, pensare colla
propria mente, e governarsi secondo la propria e non l’altrui volontà. Almeno
potessimo dire in nostra discolpa, che noi segnendo, benché assai da lontano,
le pedate dei Cincinnati, abbandoniamo i nostri campi e le cure domestiche, per
pagare alla patria il debito più sacro de’ nostri servigi, sia nelle cose della
milizia, sia nell’esercizio de’ pubblici uffici.” [8]
Il marchese
tornò a ricoprire un incarico politico solo nel 1831, allorché divenne
segretario particolare di Franz Josef,
conte di Saurau, ambasciatore
austriaco a Firenze presso la corte di Toscana, una sorta di protettorato degli
Asburgo.
Don Federico morì il mattino dell’8 ottobre 1840;
queste furono le sue disposizioni per il funerale: “Proibisco qualunque specie di pompa funeraria
in Chiesa sia fora di Chiesa sia in Milano come in qualunque altro luogo. Nella
solita cartella che si pone sulla porta della Chiesa il dì delle esequie sarà
scritto soltanto il mio nome e cognome con la parola ‘Requiem’. Che se al mio
erede in occasione della mia morte paresse di dare un segno dei suoi sentimenti
religiosi, lo prego di non farlo in altro modo [...] mia
con la distribuzione di elemosine e col provvedere ad infermi
incurabili ed ai poveri vergognosi indicati dai Parroci della mia e
della sua parrocchia di città. Ordino che le mie spoglie mortali siano
sepolte nel cimitero di Gerenzano, [...] che ciò non incontri grave ostacolo, nel quale sarà messa la sola
lapide sulla quale si leggerà: ‘Federici Fagnani mortales [...] Orate pro eo.’ Il mio desiderio sarebbe che
il mio corpo fosse sepolto nella cappelletta del camposanto, ma se ciò non
potrà farsi si ponga più vicino che sarà possibile alla suddetta cappelletta. [...] Desidero
che le mie spoglie mortali rimangano sopra terra tutto quello spazio di tempo
che si potrà anche in via di grazia, salvo il caso della generale putrefazione,
non per superchio amore della vita, ma per orrore del seppellimento prima della
morte.” [9] Allo stato attuale, l’ubicazione della tomba del
marchese (come anche la sua esistenza) rimane ignota.
Come che sia, il Fagnani lasciò tutti i suoi libri,
disegni e stampe alla Biblioteca Ambrosiana: il materiale lì giunto è
costituito da 23.216 volumi, 16.015 carte geografiche ed incisioni, e 4.320
disegni e oggetti, tanto che gli venne dedicata un’intera sala. Una valutazione
artistica del materiale donato all’Ambrosiana ci è offerta dalla relazione
stesa dall’ingegnere Carlo Berra, già amministratore del marchese e incaricato
dagli esecutori testamentari di provvedere materialmente alla consegna: “In quanto alle incisioni in rame il loro
numero oltrepassa le 16.000, che incorporate alle 44.000 già possedute dall’Ambrosiana
presentano un insieme ragguardevole ed importante, e sommamente utili agli
studiosi di belle arti. I disegni consegnati sommano a 4.320, e tanto tra le
prime, quanto tra i secondi riscontransi non pochi prezzi rari, di ottima conservazione,
e originali. Una piccola collezione di medaglie, in metalli diversi, ed altri
in piombi, alcuni capi d’arte, e tra diversi reputati quadri una testa
rappresentante un antico filosofo d’incomparabile pregio, ritenuta di Tiziano,
ed un bellissimo Salvatore coronato di spine, in mosaico, con elegante
corniciatura in bronzo di buon gitto (dono di un pontefice ad una allor
regnante famiglia) passò con gli scaffali di ogni maniera ad impinguare le
preziose raccolte che già possedeva in questi rami l’Alma Biblioteca
Ambrosiana.” I libri riguardavano di tutto, dai classici greci e latini in
svariate traduzioni ai testi moderni, anche con tematiche per l’epoca bizzarre
(ad esempio l’elettricità); fra i pezzi rari compaiono alcuni disegni di
Leonardo e di Raffaello. È comunque probabile che un gran numero di disegni
veneziani e tedeschi non siano stati inclusi nella raccolta.
Destinò inoltre molti
dei suoi beni alla popolazione di Gerenzano e agli istituti religiosi (principalmente
alla Compagnia dei Gesuiti); commissionò prima della sua morte all’architetto
Giulio Aluisetti il progetto della chiesa di Santa Maria delle Grazie di
Robecchetto[10].
Parte del testamento
del Fagnani, conservato nell’archivio storico parrocchiale di Robecchetto, è
stato trascritto in Giampaolo Cisotto, Giuseppe Leoni e Luisa Vignati, Induno,
Malvaglio, cit., p. 34-36, per questo motivo a lui è dedicata una
sala della biblioteca. L’ingegner Carlo Berra, amministratore del marchese,
ricevette l’incarico dagli esecutori testamentari, di cui primo esecutore fu
nominato il conte Giacomo Mellerio, di provvedere alla consegna del materiale
alla biblioteca.
Nella copia del
testamento del 1938 e codicillo 1940, in possesso di Luisa Vignati, consigliere
comunale di Robecchetto, all’art. 53, sono citati come esecutori testamentari
il conte Giacomo Mellerio e il conte Antonio Greppi, che fu impossibilitato o
non volle accettare l’incarico e fu quindi sostituito dal conte Monticelli
Strada, cancelliere imperiale, come indicato nell’atto notarile in possesso di
Luisa Vignati. Con tale atto è inoltre possibile ricostruire le vicende dell’eredità
Fagnani, con riferimento soprattutto alla lite tra Antonietta Fagnani Arese e
sua sorella Maria Emilia Fagnani Hertfort. Il contenzioso durò 44 anni, e si
risolse solo nel 1884 con l’assegnazione dei beni immobili, con la cessazione
del diritto d’albinaggio del 1815, confermata dall’art. 3 del Codice Italiano
del 1865, ad Antonia, mentre i beni mobili furono divisi equamente tra gli
eredi di Maria Emily e quelli di Antonia (nell’Archivio Storico Parrocchiale di
Robecchetto sono conservate delle lettere del conte Mellerio in veste di
esecutore testamentario).
Del suo testamento
scrive Vincenzo Gioberti in Il Gesuita Moderno: “Notissimo è il fatto del Marchese Fagnani avaro, ambizioso, astuto,
pizzicante dell’incredulo e dell’ateista, epicureo in morale e politica;
[…] Costui, venuto in fine di morte, fece
per indotta del Conte Mellerio un lascito di cinque sei milioni di lire da
rassegnarsi ai Gesuiti per fondare loro case e collegi con grave danno degli
eredi naturali.” [11]
In seguito alla sua
morte, i cittadini di Gerenzano gli dedicarono una lastra nera con scritte
dorate, che venne posta nel muro all’ingresso principale della chiesa dei Santi
Pietro e Paolo; il testo recita: “Honori
et memoriae Friderici Iacobi fil. Fagnani march. patrici nobiltate, plurimis
equitum insignibus exornati ab admissionibus et a consiliis Napoleoni aug.,
viri pientissimi, ingenio doctrina scripsit editis, eruditorum laudes promeritis
eoque nomine in collegia pleraque litteratorum adlecti quem doli nescio vitae
integrum, religio atque pietas composuerunt, vixit ann. LXV, dies XXXV, ingenti
pecunia in Dei culto et in solatium miserae plebis testamento legata, placide
quievit Mediolani, VIII id. october an. MDCCCXL, Gerenzanienses liberalitatibus
eius recreati, patrono optimo benemeriti fac. cua.”
A Milano l’unico
palazzo ancora esistente appartenuto ai Fagnani si trova in via Santa Maria
Fulcorina (vicino all’Ambrosiana e ai resti di Palazzo Gorani) e lo si
identifica per lo stile barocchetto lombardo e perché è adiacente a un ex
oratorio, San Matteo alla Banchetta, un tempo chiesa di famiglia. Dopo l’unità
d’Italia il patrimonio della famiglia Fagnani, tranne la donazione fatta alla
Biblioteca Ambrosiana, fu acquisito dal neo Stato Italiano, che lo mise già nel
1867 all’asta. Luigi Canzi acquistò per una cifra irrisoria le terre del paese
di Gerenzano (di cui divenne sindaco), dove i Fagnani avevano estese proprietà,
come documentato dall’incartamento del 1867 depositato nell’Archivio di Stato
di via del Senato a Milano.
MARIA EMILIA FAGNANI
SEYMOUR-CONWAY detta “MIE MIE” (Londra, 25 agosto 1771
- Parigi, 2 marzo 1856)
Era figlia di Costanza Brusati e di William Douglas (16 dicembre 1725 - Londra, 23 dicembre 1810, sepolto in Saint James, Westminster), quarto duca di Queensberry; secondo altre ipotesi suo padre potrebbe essere stato il parlamentare George Selwyn (11 agosto 1719 - 25 gennaio 1791), o un servo dello stesso.
Era figlia di Costanza Brusati e di William Douglas (16 dicembre 1725 - Londra, 23 dicembre 1810, sepolto in Saint James, Westminster), quarto duca di Queensberry; secondo altre ipotesi suo padre potrebbe essere stato il parlamentare George Selwyn (11 agosto 1719 - 25 gennaio 1791), o un servo dello stesso.
Durante le loro peregrinazioni, Giacomo II Fagnani e
la moglie Costanza Brusati incontrarono in Inghilterra Henry Herbert
(Whitehall, 3 luglio 1734 - 26 gennaio 1794), decimo conte di Pembroke e
settimo di Montgomery, che amava le avventure italiane; era figlio di Henry
Herbert e di Mary Fitzwilliam. Iniziarono a viaggiare assieme, e il conte
divenne l’amante di Costanza. Una volta, giustificandosi con un interlocutore,
asserì che la vita è troppo breve per essere limitata dalle convenzioni. Nell’inverno
1769 Costanza giunse a Londra
assieme a Lord Pembroke; tuttavia questi, dopo aver perso interesse per lei, la
consegnò ad una amico, il conte di March, poi quarto duca di Queensbarry,
William Douglas, figlio di
William Douglas, secondo conte di March, e di Lady Anne Hamilton, contessa di
Ruglen.
Durante
il regno di Giorgio III, in cui molti ricchi vivevano in maniera dissoluta, il
più noto dei bon vivants era proprio
il duca di Queensbarry, conosciuto come “Old Q”, perché tale lettera era
dipinta sulla portiera della sua carrozza. Molto ricco e solitario, si dice
mantenesse un harem nella sua villa di Piccadilly; la sua salute si mantenne
impeccabile fino all’ultima decade di vita, un periodo nel quale la sua
specialità erano le giovani cantanti liriche, di solito italiane, dai quindici
anni in su. Tra coloro che riuscirono a prendere il suo cuore e il suo
portafogli (almeno temporaneamente) ci furono la contessa Rena e la marchesa
Fagnani.
Il 25
agosto 1771, dal club White’s di Saint James, il conte fece sapere al suo amico
George Selwyn che la notte prima Costanza aveva avuto una bambina, Maria Emily,
e che questa era sua figlia. La piccola venne affidata proprio a Selwyn, che la
allevò come fosse figlia sua. Dopo circa sei anni Costanza, per compiacere i
nonni (i quali non capivano perché la bambina era stata fino ad allora all’estero,
fra persone estranee alla famiglia), chiese il suo ritorno. Tuttavia, Lord
March rifiutò di intercedere per Selwyn, che fu costretto a consegnare Mie-Mie
(questo il soprannome della bambina) a Parigi. Costanza e Maria Emily tornarono
quindi a Milano.
Dopo un
anno dalla morte di Giacomo Fagnani, George Selwyn giunse in Italia. L’inglese
convinse la donna ad affidargli nuovamente Mie-Mie, ora che aveva un’altra
figlia (Antonia). Mossa da considerazioni di carattere materiale, Costanza
accettò, e permise a Selwyn di rendere Maria Emily sua erede.
Si sposò
(Southampton,
18 maggio 1798), su imposizione paterna e ancora adolescente, con Charles
Francis Seymour-Conway (11 marzo 1777 - Londra, 1 marzo 1842), conte di
Yarmouth, terzo marchese di Hertford (1822), figlio di Francis Ingram
Seymour-Conway, secondo marchese di Hertford e di Isabella Anna Ingram-Shepherd dei conti di Irvine. Questi fu
cavaliere dell’Ordine della Giarrettiera (1822). Il matrimonio fu conveniente
per entrambi, ma la famiglia Seymour non dimostrò subito di accettare la
ragazza. La coppia ebbe 3 figli.
·
Francis Maria Seymour-Conway († 1822)
·
Richard
Seymour-Conway (1800-1870), capitano e quarto marchese di Hertford.
·
Henry
Seymour-Conway (1805-1859).
Nel 1802
entrambi vennero allontanati, e si trasferirono a Parigi, dove Maria Emilia si
diede alla vita dissoluta; nel 1822 ricevette il titolo di marchesa di
Hertford. Morì, sempre a Parigi, nel 1856.
ANTONIA BARBARA GIULIA FAUSTINA ANGIOLA
LUCIA FAGNANI detta “ANTONIETTA” (Milano, 19 novembre 1778
- Genova, 11 dicembre 1847), dama dell’Ordine della Croce Stellata (1818,
premio riservato all’aristocrazia austriaca).
Antonietta sposa il 20 febbraio 1798 in Santa Maria
alla Porta il conte Marco Arese Lucini (Milano, 9 febbraio 1770 - 16 gennaio 1852), sesto conte di
Barlassina, figlio del conte Benedetto Arese Lucini e di Margherita Lucini dei
marchesi di Besate. Ancora giovanissimo, entrò a far parte del collegio
milanese di giureconsulti. All’arrivo dei Francesi era stato chiamato da
Napoleone a partecipare all’amministrazione centrale del Dipartimento dell’Olona
(22 luglio 1797) e, in novembre, era stato eletto a far parte del Consiglio
degli Juniori per il Dipartimento della Montagna. Un austero magistrato,
quindi, sposò la frivola Antonietta.
Dopo il grand
tour d’obbligo, l’Arese viene nominato nella Consulta di Lione deputato dei
notabili per il Dipartimento dell’Olona al posto dell’anziano padre; era deciso
a battersi per la proporzionalità dei tributi, l’abolizione della libertà di
stampa e la restaurazione della religione, interpretando i sentimenti della
nuova politica napoleonica, da vero conservatore. Venne inviato con incarichi
speciali presso Napoleone a Parigi nel 1805 e nel 1811, e nel 1812 venne creato
barone del Regno.
La moglie Antonietta è considerata una delle figure di
maggior spicco della brillante società milanese del Consolato e dell’Impero,
venendo ammessa alla corte del vicerè Eugenio e legandosi con un caldo rapporto
d’amicizia alla regina d’Olanda, Ortensia Beauharnais, il cui figlio passò alla
Storia col nome di Napoleone III. La contessa conosceva il francese, l’inglese
e il tedesco, tanto che aiutò il Foscolo nella revisione della prima stesura
del 1798 delle Ultime Lettere di Jacopo Ortis (1802), traducendogli letterariamente I Dolori del Giovane
Werther di Goethe. La sua passione per Ugo Foscolo fu breve ma intensa,
e si snodò sullo sfondo del palco della Scala F n° 14 del 1° ordine. Ci è noto
attraverso le sole lettere del Foscolo, e sembra aver avuto inizio nel torrido
luglio 1801. A lei l’esuberante poeta dedicò All’amica risanata (“E com’eri tu bella questa sera! Quante volte ho ritirati i miei occhi
pieni di spavento! Sì, la mia fantasia e il mio cuore cominciano a crearsi di
te una divinità.”). “La contessa in sul principio sentì l’orgoglio di
avere nel proprio dominio quella fiera generosa e indomita”, ma si stancò
ben presto, suscitando la gelosia del poeta che arrivò a somministrarle una
scudisciata quando la colse in atteggiamento inequivocabile con un giovane
graduato. Il 4 marzo 1803 l’avventura amorosa era già conclusa, con uno
strascico di malattie veneree di cui i due si palleggiavano la responsabilità
del contagio. Foscolo scrisse al Pecchio che Antonietta “aveva il cuore fatto di cervello”, e come tale la contessa passò
alla storia.
La sua immagine è in ogni caso molto controversa:
Stendhal la definì “femme de génie”,
Monti la stimava moltissimo, e più psicologico fu il giudizio di Giuseppe
Pecchio, che disse di lei: “Si fa gioco degli uomini perché li crede nati
come i galli per amare, ingelosirsi e azzuffarsi.” Colui che meglio
la descrisse, però, fu Rovani nel cap. XV del suo romanzo Cent’anni: “La
contessa A..., bellissima fra le belle, aveva molto spirito, molto ingegno,
molta coltura (parlava quattro lingue); era buona, generosa e affabile;
costituiva insomma il complesso rarissimo di egrege qualità; ma tutte parevano
sfasciarsi sotto l’uragano di un difetto solo. Ella faceva dell’amore l’unico
passatempo; ma un passatempo tumultuoso, fremebondo, irrequieto; né occorre il
dire che quell’amore era parente di quello rimasto nudo in Grecia, come disse
Foscolo. Ma lo stesso Foscolo si trovò un bel giorno avvolto e impigliato nell’ampia
rete che la contessa teneva sempre immersa nella grande peschiera della
capitale lombarda. Il lettore non
può immaginarsi quanti belli e cari giovinetti si trovarono a sbatter le pinne
convulse in quella rete ognora protesa: giovani cari e belli, e, ciò che fu il
danno, senza punto d’esperienza, che pigliando fieramente in sul serio le care
lusinghe di quella sirena, ebbero poi a subire disinganni orridi. Ma non solo i
giovinetti di prima cottura, non solo i paperi innocenti del ruscelletto, ma
frolli don Giovanni e grossi topi veterani del Seveso, dovettero sovente parer
novizi al contatto maliardo di quella donna. Colei, lo ripetiamo, non era
cattiva, ma nel suo intelletto e nel suo cuore non era mai penetrata l’idea
della costanza in amore. Né è a credere che non amasse; amava assai, amava
ardentemente; e nei primi istanti che le entrava nel sangue la scintilla
incendiaria, ella non aveva pace e si struggeva finché non avesse potuto
accostare l’oggetto dei suoi desideri. Ma un amante nelle sue mani non era né
più né meno di un cappone messo in sul piatto di un ghiotto. In pochi momenti
non rimanevano che le ossa, e la fame chiedeva tosto altro cibo. Ella era tanto
bella e cara e seducente, e nel periodo acuto del suo innamoramento faceva
provare tali estasi a chi ne era il passeggero oggetto, che questi subiva tosto
quella passione acuta che non soffre commensali alla medesima tavola. Ognuno
voleva essere il solo possessore di quel caro bene. Ma il caro bene non volendo
vincoli di sorta, e dando accademia d’amore, metteva tosto alla porta i
pretendenti che ambivano un trono assoluto, ed erano avversissimi alla
monarchia mista.”
Il conte Arese finse di non accorgersi di questo
trambusto sentimentale della moglie. Ebbero cinque figli, dei quali solo tre
sopravvissero: Margherita (30 dicembre 1798 - 26 marzo 1828), Maria
Costanza (1803 - 1822) e Francesco Benedetto (12 agosto 1805 - 1881).
Antonietta ereditò il patrimonio immobiliare che i
Fagnani possedevano in Robecchetto e dintorni, che così entrò nella “Casa Arese”
(o Caresa, in dialetto locale), ove tra l’altro iniziò i lavori dell’attuale
Cascina Grande nel 1841. Molte sono le storie e leggende che circondano il
personaggio: si racconta che quando la contessa arrivava in paese, i
capifamiglia, in segno di sottomissione, stendessero il tabarro (il grande mantello dei contadini lombardi) sotto la
carrozza. Si dice anche che le campane della chiesa avessero un
suono così argentino perchè Antonietta aveva personalmente versato mezzo
secchio di argento fuso nello stampo. Si tramanda inoltre che la contessa,
donna di grande fascino, arrivasse al palazzo di Robecchetto in compagnia di nobili
ospiti; in una famiglia del paese si conserva ancora la lanterna della sua
carrozza. Durante il periodo natalizio si svolgeva la processione degli uomini di Caresa, il cui ricordo viene
oralmente tramandato presso i Robecchettesi: la sera della vigilia, prima della
mezzanotte, tutti gli uomini di Casa Arese (guardiacaccia, campari, massari e
pigionanti) si riunivano nel cortile nobile del palazzo, chiusi nei loro
ampi mantelli, portando ciascuno una lanterna. Poi, in solenne processione e
cantando un particolare inno natalizio (che la prof.ssa Carla Gennaro ha
cercato di ricostruire), questa processione esclusivamente maschile usciva dal
cortile attraverso l’imponente cancellata e si avviava alla chiesa. Pare fosse
una cerimonia emozionante nella sua solennità e per questo resta ancora il
ricordo, dopo quasi cento anni.
Alla caduta di Napoleone, il conte Arese si ritirò a
vita privata. Il Comune di Milano lo mandò quale inviato speciale presso
Francesco I d’Austria, ma non entrò mai a far parte del governo cittadino,
preferendo appartarsi. Non così fecero, con suo grande disappunto, suo fratello
Francesco Teodoro e suo figlio Francesco Benedetto. Nel frattempo Antonietta, a
causa di una grave malattia venerea, nell’ottobre 1847 fu spostata a Genova,
dove si spense l’11 dicembre 1847 e venne sepolta nel convento dei Cappuccini,
accanto alla nuora Carolina Fontanelli, di cui aveva patrocinato il matrimonio
col figlio; sulla sua lapide sta scritto: “Qui
piamente composta dalla reverenza filiale aspetta il giorno di Dio la spoglia
della gentildonna milanese Antonia Arese de’ marchesi Fagnani, che ai doni
della natura e della fortuna aggiunse i pregi della bontà e ottenne lode d’opere
benefiche e sante. Visse anni LXIX, moriva in Genova nel MDCCCXLVII.” A suo
ricordo rimase il balconcino di casa Arese in corso Venezia a Milano, e la
leggenda del suo fantasma, che si affacciava con in testa il cappello di paglia
forse a scrutare i bei giovanotti che si attardavano lungo il corso nelle notti
di Luna piena; il palazzo venne distrutto dalle bombe e completamente rifatto
in tempi recenti, ma per qualche motivo il balcone è stato salvato e rimesso al
suo porto originario. Marco Arese la seguì il 16 gennaio 1852, e Francesco
continuerà la sua carriera politica nel governo del Regno dell’Italia unita.
Nel 1911 i campi, le vigne, i boschi, gli orti e le
case contadine in Robecchetto e nei paesi vicini che già furono del marchese
Federico Fagnani, poi della Casa Arese, vennero venduti in blocco all’ex
fattore e ai borghesi (ing. Airoldi, Gennaro, Varzi e Alberio), che si erano
nel frattempo arricchiti. Restava solo il palazzo, costruito nel XVII secolo e
modificato alla fine del secolo successivo, imponente e solitario dietro la
bellissima cancellata in ferro battuto che segnava il “giro delle carrozze” e con molte comodità, come un pozzo privato
di acqua potabile, una pompa idraulica e una ghiacciaia. O meglio, del palazzo
restava agli Arese solo la parte
nobile, perchè l’ex fattore e l’ingegner Airoldi si erano assicurati le
altre porzioni del complesso (l’ala del torchio e quella delle abitazioni dei
sottoposti). Nel 1915 gli amministratori comunali misero gli occhi
sul palazzo per adibirlo a municipio e scuola e, dopo lunga contrattazione con
gli Arese, riuscirono ad acquistarlo.
[5]
Carlo Botta, Storia d’Italia dal 1789 al 1814, Italia, [s.n.], 1834, p.
564.
[6]
Luigi Lanzi, Storia Pittorica della
Italia dell’ab. Luigi Lanzi Antiquario della R. Corte di Toscana, Bassano,
a spese Remondini di Venezia, 1795-1796, pag. 23.
[7]
Federico Fagnani, Osservazioni di
Economia Campestre Fatte nello Stato di Milano, Milano, Giunti, 1820, p.
204
[8]
Federico Fagnani, Notizia della Bigattaja Padronale della Fagnana Seguita da Alcuni Cenni
sui Vantaggi di Tali Bigattaje, Milano, Bernardoni, 1816, p. 56
[9]
Dal testamento del marchese Fagnani (archivio di Robecchetto).
[10]
Laura e Angelo Vittorio Mira Bonomi, La
Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Robecchetto, Milano, Fondazione Primo
Candiani, 2003, p. 4
[11]
Vincenzo Gioberti, Il Gesuita Moderno,
Losanna, Bonamici, 1847, t. 4., p. 466.
Nessun commento:
Posta un commento