La realtà storica dietro al mito celtico della fondazione di Milano, ovvero di come gli sconti alla Meravigli generano mostri.
La raffigurazione della Scrofa Semilanuta al Broletto Nuovo di Milano. |
Articolo pubblicato su Athame il 09/07/2015.
Ormai
da anni mi occupo (per studio e per passione) della storia milanese, e in
particolare delle sue leggende e delle sue tradizioni; e, per l’appunto, in
tutti questi anni mi sono ritrovato fra le mani una miriade di testi
sull’argomento, che parlano dei misteri della città: ne vengono pubblicati
diversi ogni anno, e il loro principale problema è quello che si copiano a
vicenda in maniera spudorata, aggiungendo (se va bene) una o due novità; in
casi più gravi, invece, si inventano tutto di sana pianta. In questo modo,
purtroppo, un errore qualsiasi (dalla nozione sbagliata per un refuso
all’ipotesi palesemente erronea) viene perpetrato nel corso degli anni, in
quanto nessuno degli autori in questione si prende la briga di indagare un
minimo su ciò di cui scrive[1]. Questa totale noncuranza
intrisa di sensazionalismo porta spesso e volentieri i lettori a voli pindarici
ancora più grandi, o anche solo a un nozionismo basato su dati storici non
veri.
Quello
che riporto di seguito è dunque l’esempio più eclatante di questo processo.
Qualche tempo fa, infatti, mi è capitato di parlare con un amico riguardo la
leggenda della scrofa semilanuta, l’animale la cui storia è collegata alla
fondazione di Milano, e che è sulla bocca di tutti coloro che, per fede o
semplice interesse, hanno a che fare con le leggende milanesi e gli antichi dèi
della città. Vediamo dunque come, parafrasando ironicamente Goya, gli sconti
alla Meravigli[2] generino mostri.
Il principe e la scrofa
La
vicenda, molto famosa, si può riassumere in poche righe nella versione in cui
viene tramandata oggi: “Si era più o meno
alla quarantacinquesima olimpiade, e cioè circa seicento anni prima della
nascita di Cristo. Un grave evento sconvolse la vita dei pacifici abitanti dei
pochi villaggi rurali dell’Italia settentrionale: la calata dei Galli, guidati
dal loro capitano Belloveso. Scacciati i pastori e i contadini che abitavano
quelle terre, i Galli si stabilirono nella zona. Anzi, Belloveso aveva
addirittura l’intenzione di fondare una città, simile a quelle del suo paese.
Prima di passare all’azione, decise di chiedere consiglio agli dèi sul da
farsi: i sacerdoti consultarono gli oracoli, e sentenziarono che il progetto
era realizzabile, ma solo a condizione che fosse stato scelto il luogo adatto:
quello in cui avrebbe trovato a pascolare una porca con il dorso per metà
coperto di lana. E da questa scrofa semilanuta la città avrebbe dovuto prendere
il nome. Partirono tutti alla ricerca della bestia e, dopo lunghe ed estenuanti
ricerche, la trovarono davvero. Nel punto in cui l’animale fu avvisato,
Belloveso tracciò il perimetro del nuovo insediamento, che fu poi battezzato
con il nome di Mediolanum (da in medio lanae).” [3]
Desideroso di leggere
la versione originale della storia, mi sono informato su quali fossero le fonti
della leggenda, scoprendo che la vicenda di Belloveso è narrata da Livio;
consultato il testo, sono però rimasto deluso. Ecco cosa riporta l’autore
latino in proposito: “E siccome
Ambigato era ormai avanti negli anni e desiderava alleviare il proprio regno da
quell’eccesso di presenze, annunciò che avrebbe inviato Belloveso e Segoveso, i
due intraprendenti figli di sua sorella, a trovare quelle sedi che gli dèi, per
mezzo degli augurii, avrebbero loro indicato come appropriate. […] Poi, dopo
aver sbaragliato in campo aperto gli Etruschi non lontano dal fiume Ticino, e
saputo che il punto in cui si erano accampati si chiamava ‘territorio degli
Insubri’ (nome identico a quello del cantone abitato dagli Edui), [le
truppe di Belloveso] considerarono questa
coincidenza un segno beneaugurale del destino e fondarono in quel luogo una
città che chiamarono Milano.” (Ab
Urbe condita V 34)
Nessuna menzione della
scrofa, dunque. Ma allora, da dove viene la leggenda?
In effetti tutti i
testi da me consultati riportano un particolare interessante, ovvero che la
storia in questione risalirebbe al III-IV secolo d.C., e dunque sarebbe ben
posteriore alla fondazione della città o anche solo al suo retaggio celtico. Su
vari siti che ne parlano vengono citate come fonti del mito Claudiano, Sidonio
Apollinare e Isidoro di Siviglia, ma solo quest’ultimo (inizio VII secolo) dice
davvero qualcosa in merito[4], poche righe
molto aride (ed è interessante notare che in questa versione Belloveso non
compare): “Galli che erano afflitti da lotte intestine e
continue controversie, andarono in Italia in cerca di nuovi luoghi ove
insediarsi a seguito di profezie, trovando gli insediamenti con l’espulsione
degli Etruschi, fondando Milano e altre città. Milano ricevette questo nome
perché venne lì rinvenuta una scrofa semilanuta.” (Etymologiarum
XV 57)
Possono
nascere diverse domande da tutto ciò: già il Fava ha dei dubbi in merito
all’etimologia del nome, in quanto “mai i galli avrebbero potuto dare a una
loro città un nome latino, derivato da una locuzione latina.”[5] E oltre a
questo, perché la storia nasce proprio nella tarda Antichità, ex abrupto?
Il Colombo già ne
intuiva la soluzione[6]: si
tratterebbe di un mito di fondazione creato a corte, all’epoca in cui Milano
divenne capitale dell’Impero d’Occidente (286-402). Sarebbe infatti una ripresa
della fondazione di Alba Longa narrata nel libro III dell’Eneide, allorquando l’eroe sogna che il figlio Ascanio troverà in
una radura una scrofa bianca (alba)
che ha appena dato alla luce trenta porcellini. Allo stesso modo Mediolanum
sarebbe stata fondata dopo aver trovato una scrofa dal pelo semilungo (in medio lanae, appunto).
Nessun collegamento
diretto con Belloveso, dunque, e di conseguenza nemmeno con la storia della
Milano celtica: la scrofa è un mito squisitamente romano, creato per celebrare
la nuova capitale attraverso un topos
virgiliano. Hanno un bel dire, dunque, tutti coloro che uniscono le due storie
di fondazione, o che fanno della scrofa un qualche spirito totemico della
Milano celtica il cui ricordo è stato tramandato fino a oggi. È però giusto
dire che, nell’immaginario popolare (e dei Neopagani nello specifico) l’animale
ha avuto più successo del principe celta, quello nessuno può discuterlo.
La dea e il biancospino
A questo punto mi
sembra doveroso fare una specifica sul biancospino: in quasi ogni libro moderno
sui misteri di Milano che riporta la storia “congiunta” di Belloveso e della
scrofa, quasi certamente troverete che l’animale stava in una radura con dei
biancospini, o tutt’al più troverete la nozione per la quale questa pianta
sarebbe sacra a Belisama. Ma in realtà di un collegamento fra la dea e
l’arbusto in questione non esiste alcuna traccia concreta: vediamo dunque la
genesi di quest’altro errore.
Il già citato Fava (forse il più “vecchio” degli attuali testi di
misteri milanesi) riprende quasi alla lettera la leggenda del Colombo, ma la
integra dicendo che a consultare gli oracoli furono sette confidenti di
Belloveso, e che l’animale venne trovato in una radura disabitata circondata da
fitte boscaglie. I vari altri libri pubblicati di seguito sull’argomento si
spingono persino oltre: i confidenti sarebbero stati addirittura dei druidi[7], e le
piante dei biancospini. Spesso si trova anche la nozione per la quale in centro
a Milano ci sarebbe stata una “via dei Biancospini”[8], oggi
via Andegari, a supportare la veridicità di questa storia. Ma dunque, la
nozione primaria della presenza di queste piante, da dove viene?
La suddetta via
Andegari sta in effetti in centro, molto vicina alla Scala; e a risolvere
l’enigma in questione è, a fine XIX secolo, il Brentari nella sua guida alla
toponomastica milanese, dicendo a riguardo: “Scrive
il Venosta: ‘Il nome di questa via deriva dalla voce celtica che in italiano
corrisponde al biancospino, del cui arboscello era formata una siepe che
serviva di prima cerchia della città celtica di Mayland.’ Altri vorrebbe far
derivare tal nome dalla voce dialettale andeghée, che significa gente all’antica, parrucconi. Notisi però che nel
secolo XVI questa via si chiamava degli Undegardi; e che una famiglia Undegardi
o Hondegardi, d’origine longobardica, viveva ancora a Milano nella prima metà
di quel secolo. È probabile dunque che la voce Andegari altro non sia che una
corruzione di Hondegardi.”[9]
Il testo del Venosta[10] è del 1867,
e non riporta nulla di più di quanto cita il Brentari, dunque recuperare questa
fantomatica parola celtica risulta difficoltoso; mi azzardo però a dire che, se
la spiegazione sugli Hondegardi non risultasse già più che convincente, si può
aggiungere che la reale conoscenza della lingua celtica insubre, nel XIX
secolo, era di poca sostanza: ne è un bell’esempio il Saggio di Vocabolario della Gallia Cisalpina e Celtico di Pietro
Monti (1856), dove in effetti si indagano le radici celtiche dei termini
attraverso il dialetto locale, e rifacendosi a vocabolari dell’epoca di lingua
gaelica e gallese[11]. Una
situazione, insomma, troppo confusionaria per avere un minimo di attendibilità,
e spesso condotta più dal desiderio di trovare ciò che si voleva, che da un
sano spirito di ricerca storica (e questo purtroppo vale per molti studi sui
Celti, anche posteriori all’Ottocento). Non solo: l’errata ipotesi del Venosta
ha indotto molti studiosi dilettanti a ritenere che il medhelan si trovasse appunto nei pressi della Scala, mentre è più
probabile che esso (il “tempio di Atena” citato da Polibio) si trovasse in
piazza Duomo, dunque adiacente all’area dei ritrovamenti celtici[12] (ma ciò
resta comunque una mera ipotesi purtroppo non verificabile).
La superficialità e la ricerca
Tirando le somme, con
la storia della scrofa semilanuta ci ritroviamo davanti a un falso mito che ha
letteralmente travalicato i secoli, che si è ingrossato (per pura cattiva informazione)
con altri errori fino a raggiungere il suo stato attuale, quello di una
leggenda sulla bocca di tutti, e tramandata con continuità, che però pretende
di avere solide basi storico-religiose (e risultare per questo “più vera” di
tante altre), quando in realtà nasce solo dall’illecito accorpamento di due
miti di fondazione di epoche molto diverse.
E certo, se di per sé e
per proprio credo continua a non esserci nulla di male nel ritenere che le due
storie possano andare assieme, proporle come le reali tradizioni della Milano
celtica (o, ancora peggio, del celtismo tout
court, come nel caso del biancospino) continua a essere sbagliato, indica
una conoscenza molto superficiale dell’argomento, e può portare a frasi
allucinanti come «In quest’area non sono stati trovati reperti celtici, dunque
doveva esserci il recinto sacro con gli alberi». Perché sì, mi è capitato di
leggere anche questo.
Quindi il mio consiglio
è: quando trovate riportata da qualche parte una presunta leggenda o tradizione
che non indica nessuna fonte, o che nomina autori difficilmente reperibili
senza citarli, o che semplicemente vi fa sorgere qualche dubbio, diffidate per
principio e andate a informarvi su testi seri (sono abbastanza facili da
riconoscere). Se la questione vi interessa, usare del tempo per fare una
ricerca seria non è mai un male, soprattutto quando si possono portare alla
luce, come in questo caso, tradizioni dimenticate per davvero.
[1] Per
fare un esempio, in uno di questi testi esiste l’ipotesi per la quale la chiesa
di San Giovanni in Conca sarebbe sorta sopra un mitreo, in quanto dedicata al
Battista in ricordo di una fonte battesimale mitraica; gli autori sembrano
ignorare totalmente che essa era invece dedicata all’Evangelista (di cui
abbiamo ancora la statua originale proveniente dal frontone), segno questo, a
parer mio, che essi hanno coniato questa ipotesi senza la minima documentazione
in merito (cfr. Ippolito E. Ferrario - Gianluca Padovan, Milano sotterranea e misteriosa, Mursia, Milano 2008, pp. 91-92).
[2] Per
tutti i non lombardi, la Libreria Milanese o Meravigli è una casa editrice (con
sede e vendita al pubblico appunto in via Meravigli 18) che si occupa di
pubblicare (e ripubblicare in versioni anastatiche) testi su Milano e la
Lombardia, spaziando dalla storia, al folklore, alla cucina, alla grammatica
dialettale, al turismo.
[3]
Alessandro Colombo, Milano romana,
Meravigli (Vimercate 1994), pp. 18-19; il testo originale è del 1928.
[4] Per Claudiano: http://www.intratext.com/Catalogo/Autori/AUT78.HTM;
per Sidonio Apollinare: http://www.documentacatholicaomnia.eu/30_10_0430-0489-_Sidonius_Apollinaris_Episcopus.html
[5]
Franco Fava, Milano magica e fantastica,
Meravigli (Milano 2007), pp. 120-121.
[6] A.
Colombo, Ibid., p. 17.
[7]
Ricordo qui che non abbiamo traccia alcuna di druidismo nell’Italia
settentrionale, come del resto in nessuna area celtica al di fuori di Irlanda,
Gran Bretagna e Francia centro-settentrionale (cfr. il mio articolo Il druidismo come fenomeno non pan-celtico).
[8] Da non
confondere con l’omonimo largo nel quartiere Giambellino, a più di 4 km in linea d'aria dal
centro: qui, infatti, molte vie hanno nomi di piante, in quanto l’intera zona
venne edificata solo negli Anni ’70-’80 del secolo scorso, in un’area che prima
era di aperta campagna (il centro abitato più vicino era Lorenteggio).
[9]
Ottone Brentari, Guida alla toponomastica
milanese di fine Ottocento, Meravigli (Milano 2008), 19; il testo originale
è del 1889.
[10]
Felice Venosta, Milano e le sue vie.
Studi storici, Milano 1867, volume I, p. 11.
[11] Pur
tralasciando che il gallese e il gaelico sono lingue celtiche di due rami ben
diversi (il primo Celtico-P, il secondo Celtico-Q), il gallico (e quindi la sua
variante insubre) è Celtico-P, ma non è affine al gallese più di quanto non lo
siano fra loro, ad esempio, l’italiano e il francese.
[12]
Donatella Caporusso - Maria Teresa Donati - Sara Masseroli - Thea Tibiletti, Immagini di Mediolanum. Archeologia e storia
di Milano dal V secolo a.C. al V secolo d.C., Civiche Raccolte
Archeologiche e Numismatiche di Milano, Truccazzano 2007, pp. 21-26; ricordo
qui peraltro che gli scavi sotto al Duomo hanno riportato alla luce le due
vecchie basiliche e il battistero, e di recente anche tracce di un tempio romano e di un ancora precedente sacello celtico (su cui però non sono ancora stati pubblicati articoli in merito).
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