"La fede è chiamata a spingere la ragione ad avere il coraggio della verità." (Benedetto XVI, in una citazione molto amata da Marta Sordi) |
Nel 2005, all’ultimo anno di liceo, la nostra professoressa di Religione, che per cinque anni ci aveva ammorbato coi suoi monologhi di etica cattolica su ingegneria genetica, omosessualità, aborto, terrorismo islamico e via dicendo, se ne uscì con l’unica frase che avrebbe potuto realmente urtare la mia sensibilità: “Dopo la conversione di Costantino, tutti gli abitanti dell’Impero Romano si convertirono al cristianesimo abbastanza velocemente.”
Decisi
dunque di rinunciare al mio record di un lustro di totale silenzio durante le
sue lezioni per scuotere la testa con fare deciso, destando la sua sorpresa; ne
è seguita un’intera ora di dibattito fra me e lei, riguardo ovviamente il
conflitto tra Pagani e Cristiani nel periodo tardoantico. Essendo che all’epoca
stavo studiando per conto mio proprio quell’epoca, mi sono ritrovato a
sommergerla letteralmente con citazioni dirette degli autori greci e latini
coinvolti, non solo pagani come Libanio, Eunapio, Zosimo e Ammiano Marcellino,
ma anche cristiani che evidentemente lei non aveva mai sentito nominare, come
Lattanzio, Eusebio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo, Socrate Scolastico,
Sozomeno e via dicendo. Lei continuava a ribattere usando sempre e solo la
stessa fonte: Marta Sordi, a suo dire la più grande storica italiana che abbia
mai studiato questo argomento, e che in tutta onestà io, che spesso e
volentieri leggevo direttamente le fonti, non avevo mai sentito nominare.
Morale
della favola, la campanella è suonata senza che si concludesse nulla, ma la
prof ci ha tenuto a far presente a quella di Matematica appena giunta (anche
lei molto cattolica) come era andato il dibattito: “Mi ha citato tipo uno o due
autori, gli ho detto di andare a informarsi su libri di storici seri prima di
parlare!”, con tanto di sguardo fintamente compatito nei miei confronti.
Dunque,
una volta a casa, sono andato a informarmi un po’ su questa fantomatica Marta
Sordi.
Leggendo
alcuni suoi articoli (pubblicati, neanche a dirlo, su Pagine Cattoliche) feci
all’epoca queste riflessioni (o per meglio dire contestazioni), senza sapere
che questa defunta studiosa non trova molti consensi nemmeno nel mondo
accademico extra-cattolico, come ebbe modo di esplicare Remo Cacitti, quello
che sarebbe stato il mio professore di Storia del Cristianesimo Antico. E
ancora oggi mi sembra veramente impossibile che in un mondo ove gruppi di
accademici si sbranano per decidere se una lettera antica è autentica o meno,
una persona come la Sordi abbia avuto piena facoltà di parlare senza che nessuno
le rispondesse, nonostante sia andata più volte contro la Storia stessa.
Le persecuzioni altoimperiali.
Il
primo argomento sono le persecuzioni ai Cristiani dei primi secoli. Non è mia
intenzione polemizzare contro esagerazioni di sorta, a livello storico, ma
semplicemente far notare come la professoressa semplifichi tutto (quando va
bene) o inventi le cose (quando va male) pur di giustificare la sua tesi, che
in realtà coincide con l’affermazione della totale innocenza della fede dei
Cristiani (che è poi anche la sua).
“Nei
tre secoli che dividono l’ingresso del cristianesimo nell’impero dalla
conversione di Costantino, il rapporto fra i Cristiani e il potere imperiale
appare articolato in modo complesso. Ogni generalizzazione è scorretta: sia
quella, ormai superata, che faceva dei tre secoli una persecuzione continuata,
sia quella che tende a minimizzare la portata delle persecuzioni, eliminandone
addirittura alcune, come quella di Domiziano. La persecuzione fu resa
legalmente possibile da un senatoconsulto del 35 d.C., con cui il Senato - l’organo
che in età giulio-claudia aveva il compito di accettare o respingere culti
nuovi nell’impero - aveva rifiutato una proposta di Tiberio (14-37),
interessato alla pacificazione della Giudea, di riconoscere la liceità del
culto di Cristo, sottraendolo al controllo del Sinedrio.”
Probabilmente la cosa che più sconcerta di un brano
simile non è il fatto in sé, quanto che esso (chiaramente una leggenda di
matrice cristiana) sia preso come buono a priori: la storia di Tiberio è stata
dibattuta in ambito accademico, ma mi pare di capire senza troppo “fervore”. In
realtà la questione è abbastanza semplice: Tiberio è un imperatore della prima
metà del I secolo d.C.; le testimonianze di questa storia ci vengono ovviamente
solo da parte cristiana, nella fattispecie da Giustino (metà del II secolo),
Tertulliano (III secolo) ed Eusebio (inizi del IV secolo). Tutto ciò implica
che da Tiberio a Giustino erano passati più di 100 anni, il tempo necessario
per cui nessuno potesse screditare una storia del genere (dubito ci fosse in
giro qualche senatore ultracentenario).
La prima notizia attendibile riguardo la presenza
di Cristiani a Roma ci viene da Svetonio: “Poiché i Giudei si sollevavano
continuamente su istigazione di un certo Cresto [Cristo?], [l’imperatore Claudio] li scacciò
da Roma.” Tutto ciò potrebbe
essere ambiguo, sennonché gli Atti degli Apostoli ci confermano l’avvenimento
quando il santo incontra un giudeo di Roma appunto esiliato (e dubito seriamente
che Svetonio conoscesse i testi evangelici). In ogni caso, anche volendo
ammettere che Cresto non sia Cristo, tutto questo ci permette di retrodatare la
presenza effettiva di una consistente setta cristiana a Roma: ci troveremmo
infatti a metà del I secolo, 30-40 anni dopo la presunta azione di Tiberio,
allorquando il culto di Gesù poteva essersi sviluppato in maniera maggiore (sia
a livello teologico che comunitario) piuttosto che pochi anni dopo la sua morte
(quando probabilmente gli apostoli altro non erano se non gli eccentrici
discepoli di un rabbino defunto).
La Sordi pretende che si creda a una storia creata ad
hoc dagli apologeti (e magistralmente, perché in un certo qual modo
indicava agli imperatori presenti che il loro predecessore Tiberio era stato
favorevole alla loro religione). Ma tutto ciò non ha alcun fondamento, poiché
ha contro l’inverosimiglianza (Tiberio non si era quasi mai occupato di
religione durante il suo regno, se non per osteggiare i culti ebraici e caldei,
e per giunta nel 35 si era da tempo ritirato a Capri) che la tarda epoca delle
(faziose) testimonianze.
Ma lei imperterrita prosegue: “La persecuzione
cominciò in realtà solo dopo il 62. Nerone (54-68) fu il primo ad applicare il
senatoconsulto che proclamava il cristianesimo superstitio illicita ed a
perseguitare spietatamente i Cristiani di Roma, incriminandoli per l’incendio
del 64 (Tacito, Ann XV, 44).”
Ora, sulla questione di Nerone vanno dette due cose
fondamentali: la prima è che l’unica testimonianza che abbiamo è appunto quella
di Tacito (“Allora, per soffocare ogni diceria, Nerone spacciò per colpevoli
e condannò a pene di crudeltà particolarmente ricercata quelli che il volgo,
detestandoli per le loro infamie, chiamava Cristiani.”), un personaggio che
ci ha descritto Nerone come un mostro condizionando tutta la storiografia
successiva (solo recentemente gli storici stanno appurando che la figura di
tale imperatore era probabilmente più complessa); la seconda cosa è che, con
estrema stranezza, i Cristiani non hanno mai parlato dell’incendio in nessuna
loro opera, anche nei secoli successivi.
L’errore della Sordi in questo caso è quello di
liquidare la faccenda in poche righe, attribuendo una colpa incondizionata a
Nerone e prendendo per buona la testimonianza (l’unica, in realtà) di un
oppositore dello stesso (il fatto che l’articolo in questione sia uno scritto
breve a mio avviso non la giustifica in alcun modo). Il tutto, ovviamente, per
dimostrare una persecuzione di cui in realtà non sapremo mai nulla (e lascio
perdere il suo grossolano errore di aver confuso le parole religio e superstitio).
Non
paga di ciò, la Sordi parla anche di Marco Aurelio: “La pronta reazione
della Grande Chiesa, con le numerose apologie degli anni 70 del II secolo
(Atenagora, Melitone, Apollinare) e la netta presa di distanza dal fanatismo
montanista, indusse Marco Aurelio, negli ultimi anni del suo regno, a cercare
una soluzione: da una parte, egli chiedeva ai Cristiani di uscire dalla
clandestinità (che peraltro non avevano scelto) [sic!] e di manifestare il lealismo che essi professavano verso lo
Stato con l’aperta collaborazione; dall’altra, egli minacciava la pena di morte
agli accusatori del Cristiani.”
La professoressa Sordi si dimentica di dire che
questo brano è una sua fantastica invenzione, o forse quella di un apologeta
tardo di cui non riporta il nome: questo perché Marco Aurelio non fece mai
leggi riguardo i Cristiani, anzi, in realtà probabilmente l’unica menzione che
ne fece fu “privata” e interna al suo libro di riflessioni (“Ma questa
prontezza [dell’anima] deve venire da un proprio giudizio individuale, e
non basarsi su una pura e semplice opposizione, come avviene tra i Cristiani...”);
sotto questo imperatore le leggi riguardo la religione in questione restarono
le stesse che erano in vigore all’epoca dei suoi predecessori (vedasi le famose
lettere di Plinio il Giovane a Traiano).
Peraltro va precisata una cosa: è molto probabile,
come faceva notare una volta Cacitti, che le apologie cristiane non venissero
mai lette dagli imperatori a cui erano indirizzate, ma che fossero unicamente
fatte dai Cristiani per i Cristiani (forse per avere una serie di “risposte
pronte” alle accuse?). Che fosse realmente così oppure no, riguardo ai seguaci
di Gesù Marco Aurelio non fece (né disse) pubblicamente mai nulla.
L’emerita professoressa fa poi una piccolissima
parentesi sull’imperatore Filippo (“Agli imperatori e alle imperatrici non
si dedicano più apologie, ma trattati di teologia: l’integrazione dei Cristiani
dell’impero è ben avviata e con Filippo l’Arabo (244-249) abbiamo forse il
primo imperatore cristiano.”), aggiungendo per la prima volta un timido “forse”
a una questione che è palesemente leggenda! La storia del Filippo
cristiano nasce con Eusebio, che ne parla nella prima metà del IV secolo (per inciso,
Filippo muore nella prima metà del III), circa 70 anni dopo i “fatti” e (lo
precisa anche) “per sentito dire”. Ovviamente nessun’altra fonte parla di tutto
ciò, ma del resto c’è quel bellissimo “forse” che salva...
Mi
fermo qui, perché dopo prosegue spiegando qual’era la visione dello Stato
presso i Cristiani (che erano i sudditi più fedeli di Roma tutta, nientemeno!),
e su Costantino ha scritto un intero articolo a parte... La sua conclusione è
che Costantino ha vinto perché aveva Dio dalla sua, avendo fatto le scelte
religiose (di “politica verso la divinità”)
giuste.
Il carteggio tra Seneca e Paolo.
Un
altro interessante spunto di riflessione riguardo il metodo storico della Sordi
lo si ritrova in una specifica parte del suo articolo sulla vita di san Paolo.
“Poi [Paolo] venne assolto,
verosimilmente da Burro, nella primavera del 58, e qui ha inizio il celebre
epistolario con Seneca. Generalmente ritenuto un falso costruito nei secoli
seguenti.”
Ora,
l’epistolario in questione è alla base della credenza medievale che faceva di
Seneca un cristiano (per primo ne parlerà Colonna nel De Viris Illustribus), e a quanto mi risulta viene datato al IV
secolo: tuttavia agli inizi di quest’epoca Lattanzio dice che il filosofo era “uomo ignaro della vera religione, che
avrebbe potuto appartenere al cristianesimo se qualcuno glielo avesse fatto
conoscere” (questo parrebbe indicare che il carteggio non fu scritto prima
del 324); a fine secolo (392) Girolamo invece dimostra (seppur in maniera non
esplicitata e quindi piuttosto dubbia) di conoscere il carteggio in questione.
La data entro la quale si ha la certezza assoluta dell’esistenza dell’epistolario
è quando Agostino, nel 413, parla di “Seneca,
che visse ai tempi apostolici, del quale si leggono anche alcune lettere a
Paolo”.
Ecco
di seguito cosa dice la Sordi.
“Anch’io all’inizio ero convinta che
fosse falso. Ma studiandolo con attenzione, e inserendolo nella nuova
cronologia, ho cambiato parere. Due lettere sono sicuramente aggiunte a
posteriori, diverse dalle altre per stile e lessico, e hanno per così dire
trascinato con sé il giudizio sull’intera opera. Ma se eliminiamo queste due il
resto io credo sia autentico.”
L’esimia
professoressa tuttavia dimentica di dire quale siano queste due lettere, contando
che in totale il loro numero ammonta a 14. Presumiamo dunque che siano le
ultime due (per estensione anche le ultime tre), che in effetti risultano le
più discusse, disgiunte dalla cronologia seguita dalle altre, e in effetti
anche a una lettura per così dire “profana” appare stridente il contenuto di
queste rispetto alle altre (Seneca dichiara tramite Paolo di aver abbandonato
il paganesimo, e questi lo esorta a convertire al cristianesimo la corte
imperiale e il sovrano stesso).
“Si tratta di una corrispondenza
amichevole, sovente poco più che biglietti, con allusioni a vicende quotidiane,
a conoscenti comuni: se un falsario avesse voluto inventarsi un carteggio fra
due personaggi del genere avrebbe scelto temi più impegnativi…”
In
realtà i temi impegnativi ci sono eccome: tanto per fare un esempio, basti
pensare che Seneca dichiara di aver fatto leggere le lettere paoline a Nerone,
e l’autore rimane sconcertato da tutto ciò (“Ritengo
che tu abbia commesso un grave errore volendo portare alla sua conoscenza ciò
che è contrario alla sua religione e alla sua educazione. Infatti, dato che
egli venera gli dèi dei Gentili, non capisco come ti sia potuto venire in mente
di volergli far sapere questo, a meno che io non pensi che tu l’abbia fatto per
troppo amore nei miei confronti. Ti prego di non farlo più, in futuro.”).
Solo questa faccenda mi risulta tutt’altro che catalogabile come “vicenda
quotidiana”.
“Poi c’è la questione dello stile: è un
cattivo latino, si osserva, pieno di grecismi, segno che la lingua madre di chi
le ha scritte era il greco. Ma, attenzione: i grecismi compaiono soltanto nelle
lettere di Paolo, non in quelle di Seneca, che anzi in una gli rimprovera
bonariamente il suo latino scadente e gli dà qualche consiglio su come
migliorarlo.”
Secondo
il mio modesto parere è un po’ esagerato, dato che Seneca dice solamente: “Vorrei, perciò, dato che annunci cose
straordinarie, che all’elevatezza del loro contenuto non mancasse la
ricercatezza del linguaggio.” Non si dice altro a riguardo dello stile letterario,
a meno che non si consideri la lettera XIII, interamente su quello, ma essendo
una delle ultime due non dovremmo rigettarla, a detta della Sordi, come falso?
O le due apocrife sarebbero a suo avviso altre?
“Ci sono poi un riferimento alla ‘lunga
lontananza’ di Paolo e una conoscenza diciamo dall’interno della situazione
politica, e una circospezione nel trattarla, che non potevano essere opera di
un eventuale falsario.”
Perché
no? Se effettivamente il testo fu scritto nel IV secolo, i libri che trattavano
della vita di Nerone, come ad esempio Svetonio, Giuseppe e soprattutto Tacito,
avevano avuto tutto il tempo di diffondersi, risalendo infatti al I-II secolo.
In realtà questa “conoscenza diciamo dall’interno
della situazione politica” è un escamotage
della Sordi che sembra voler celare chissà quali conoscenze dettagliate: ciò a
cui la professoressa fa riferimento è unicamente l’avversione dell’imperatrice
nei confronti dei Cristiani, dovuta per lo più (si suppone) al suo
filogiudaismo. Ma questa non è una conoscenza segreta, dato che la ritroviamo tranquillamente
sia in Giuseppe che in Tacito; altra cosa a cui può voler far riferimento è la
fantomatica persecuzione neroniana (dice Seneca: “È ben noto donde abbiano avuto origine gli incendi di cui spesso Roma
fu vittima. Ma, se la povera gente avesse potuto dire quale fosse la causa e le
fosse stato consentito di parlare senza incorrere in punizioni in questi tempi
bui, ormai tutti vedrebbero tutto chiaramente. Cristiani e Giudei artefici dell’incendio,
ahimè, messi a morte, come accade di solito.”). Ma non si capisce perché
questa dovrebbe essere un’informazione di prima mano, dato che è riportata per
la prima (e unica volta prima del IV secolo) sempre da Tacito, e soprattutto da
nessun cristiano prima di quell’epoca. Forse ad avviso della Sordi questo
autore rimase sempre sconosciuto ai Cristiani dell’Antichità?
“Secondo la mia ricostruzione, Paolo
rimase agli arresti domiciliari tra il 56 e il 58, venne quindi assolto, e qui
si collocano le prime lettere con Seneca. Quindi, dal 59 al 62, c’è un vuoto,
durante il quale Paolo si recò in Spagna. Tornò giusto in tempo per subire gli
effetti nella svolta di Nerone: proprio in quell’anno morì Burro e Seneca perse
il suo ascendente sull’imperatore, sostituito da quello della nuova moglie di
lui, Poppea. E in una lettera di Seneca di questo periodo si fa cenno all’ostilità
della ‘domina’ nei confronti di Paolo, perché ha ‘abbandonato la religione dei padri’.
È un dettaglio fondamentale, perché Poppea effettivamente era giudaizzante, e
quindi non guardava di buon occhio i cristiani, ma questo lo sappiamo da Flavio
Giuseppe e da Tacito, i cristiani del secondo e del terzo secolo non lo
sapevano [sic!]. Inoltre tutto quel
che riguarda gli ambienti di corte viene accennato con grande circospezione,
come se i corrispondenti temessero che le loro lettere potessero cadere in mani
sbagliate. Un falsario non avrebbe mai potuto avere questi riguardi.”
Si
veda quanto detto sopra: non si capisce perché i Cristiani del II-III secolo
non potessero saperlo, ma in ogni caso quelli del IV sì (guarda caso l’epistolario
compare proprio, stando alle testimonianze, a quell’epoca). Che si tratti di
falsi apocrifi o di mere esercitazioni retoriche, l’autore avrebbe dovuto assolutamente avere certi riguardi per
renderle verosimili; mi permetto di pensare che, avendo sottomano Tacito e gli Atti degli Apostoli (testi peraltro
diffusissimi), e magari con una certa conoscenza dello stile e del pensiero di
Seneca, qualunque personaggio dell’epoca di una certa cultura avrebbe potuto
scrivere qualcosa del genere. Del resto, se si trattava realmente di un
falsario (dunque di uno scrittore intento a creare un apocrifo del Nuovo Testamento), difficilmente si
sarebbe imbarcato in un’opera simile se avesse ritenuto di non avere le
capacità di creare qualcosa di credibile e difficile da smascherare!
Giuliano e l’educazione classica.
Ecco
ancora un branetto della Sordi che riporto, e che ha sempre suscitato in me
diversi sentimenti (mai buoni): “È
probabile pertanto che il divieto [ai maestri cristiani di insegnare le
discipline classiche] riguardasse
veramente non solo il ‘docere’, ma
anche il ‘discere’: esso nasceva dall’ideologia
di Giuliano, per il quale il termine stesso di ellenismo aveva assunto un
significato in prevalenza religioso (anche nel greco degli ebrei e del Nuovo
Testamento ‘Ellenes’ indica i pagani,
ciò che mai avvenne per il concetto di Romani); neoplatonismo e oracoli
caldaici avevano contribuito a far crescere in lui la certezza che la cultura
greca fosse frutto di ispirazione divina e, per questo, sacra. Ma quando, nell’«Ep.»
61, egli accomuna sotto il segno della religione scrittori come Tucidide, come
Lisia, Demostene, autori di chiara impronta ‘laica’, Giuliano mostra di non
aver capito niente, nel suo misticismo orientalizzante, della lucida
razionalità della vera cultura greca, che certo fu aperta all’esigenza
religiosa come ad una esigenza umana fondamentale, ma non diede origine ad una
letteratura sacra. Rivendicando a tutti gli uomini, compresi i cristiani, il
patrimonio comune della lingua della letteratura greca, Gregorio di Nazianzio
si rivela, assai più di Giuliano, consapevole dei valori della cultura classica
e predecessore di quei cristiani che, in Oriente e in Occidente, avrebbero
salvato dalla distruzione quella stessa cultura.”
La
cosa che più mi piace di questo passo è la sottile contraddizione della Sordi:
da un lato dice che Tucidide, Lisia e Demostene erano autori laici, dall’altro
che non c’era una letteratura greca religiosa. Ma come può essere definita
laica una cosa se non esiste il suo corrispettivo?
Al
di là di questo, la Sordi dimentica fondamentalmente che il considerare “ispirati
dagli dèi” (e non “religiosi”) i testi classici non era una bizzarra idea di un
altrettanto bizzarro imperatore, ma una tradizione consolidata sin da tempi ben
più antichi; che poi sbaglia ancora di più nel voler dire che Giuliano li
poneva come dei testi sacri, quando lui stesso afferma che “Omero, Esiodo, Demostene, Erodoto, Tucidide, Isocrate e Lisia non
ebbero gli dèi maestri di ogni cultura? Non si credettero gli uni sacri a Ermes
e gli altri alle Muse?” Gli autori in questione non erano degli evangelisti
o dei Padri della Chiesa, erano uomini che avevano scritto opere (di vario
genere) ispirati dagli dèi, ma non
dei testi sacri o che insegnavano la natura degli dèi e come onorarli (a parte,
in una certa qual maniera, Omero ed Esiodo). Se non si comprende questo
semplice presupposto, è logico che si sparano castronerie.
Giuliano
prosegue dicendo: “Io credo che sia
strano che chi spiega le opere di questi autori neghi onore agli dèi che essi
hanno onorati.” E questa non era una sua invenzione o una sua idea
bislacca, ma un problema che tormentava i Cristiani sin dalla loro origine,
ovvero il conciliare la cultura scolastica (che loro stessi avvertivano come
pagana, checché ne dica la Sordi!) con la nuova fede (opposta al paganesimo).
Basti pensare a Girolamo, che avendo dichiarato in sogno a Dio: “Sono cristiano!”, si sente rispondere: “Sei ciceroniano, non cristiano!”
Senza
volermi qui dilungare in una trattazione completa per smentire questo brano, l’ultimo
punto su cui mi vorrei soffermare è l’ultima frase, un delirio totale con il
quale l’articolo si conclude, lasciando in sospeso praticamente tutto (o
meglio, introducendo un nuovo argomento che non viene sviluppato, stranamente).
Io mi chiedo: in che modo un Dottore della Chiesa sarebbe consapevole dei
valori della cultura classica? Gregorio di Nazianzo è colui che, nelle
invettive contro Giuliano, chiama l’ellenismo “culto dei demoni” e in altri modi simili; ma soprattutto, quali
erano, di grazia, questi valori della cultura classica che Giuliano non aveva
capito e Gregorio sì?
E
in ultimo, senza voler essere troppo polemico, in che modo i Cristiani
avrebbero salvato la cultura classica dalla distruzione? Ma soprattutto,
distruzione a opera di chi? Dei Persiani Sassanidi, i cui re erano di
norma estimatori massimi della cultura greca (basti pensare a Sapore o a
Cosroe)? Dei Barbari (e di che religione erano i Barbari, se non cristiani)? I
Cristiani si sono impiantati sulla società preesistente (come detto sopra a
proposito della loro formazione classica), non sono discesi dal cielo salvando
i libri (e qui preciso che evidentemente, per la Sordi, la cultura classica
sono solo i libri, le credenze e i
pensieri degli uomini vivi, che i Cristiani hanno continuato a ostracizzare e
perseguitare per secoli, non contano nulla).
Io
mi meraviglio di come una persona, anzi una storica, possa arrivare a fare
simili affermazioni. E tutto per cosa, per dimostrare che Giuliano era un
povero idiota preda delle superstizioni orientali (peraltro, come detto sopra,
travisandone o ancora peggio falsificandone, se fatto in mala fede, il
pensiero), mentre Gregorio Nazianzeno uno che aveva capito tutto del mondo in
quanto cristiano? Lo stesso Gregorio che disprezzava l’ellenismo e che ha
donato al mondo fantastiche lezioni di etica come “non dare tanto al povero, perché il poco per lui è tanto”? Questo
cos’è, un valore classico o un valore cristiano?
Mai
fare l’apologia dei Padri della Chiesa, si finisce subito sommersi di pessimi
esempi!
Appianiamo
i dibattiti accademici, fidiamoci degli Apologeti e dei Padri della Chiesa
senza stare a questionare, e scriviamo infine una nuova Storia Ecclesiastica! Una meravigliosa cronologia dove i poveri
Cristiani fedeli a Roma vengono maltrattati dagli imperatori pagani che non li
capiscono, dove Dio si manifesta concretamente nel mondo con segni celesti e
sogni mettendo sul trono i suoi campioni, e dove ogni invenzione o chiacchiera
uscita dalla bocca di un uomo (purché sia cristiano!), come per incanto,
diventa realtà indiscutibile, verità inoppugnabile e, alla fine del percorso,
dogma storico!
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