giovedì 20 ottobre 2016

Storia della Magia 04 - La magia nel Medioevo



LA NEGROMANZIA
 
Il Dottor Faust evoca il demone Mefistofele secondo un rito negromantico.

Per “negromanzia” (dal greco nekros, morto, e manteia, divinazione) si intendeva in origine, come visto, l’arte di comprendere il futuro attraverso l’evocazione dei morti; nel Medioevo però, dato che si pensava che le anime appartenessero solo a Dio, e che dunque gli spiriti evocati dai maghi non potessero essere altro che demoni, il termine andò a indicare la magia ritualistica di tipo evocatorio. Il mago dell’immaginario popolare trae dunque origine dalla figura dei negromanti medievali: essi, per la maggior parte uomini di Chiesa (che sapevano leggere e avevano più tempo libero rispetto a una persona comune), imparavano dai libri numerose forme di magia e, secondo gli inquisitori, promettevano obbedienza ai demoni e si consacravano a loro; nell’esercizio dell’arte magica praticavano ogni genere di ascetismo: digiunavano, si lavavano, si rasavo, si mantenevano casti e si vestivano di nero o di bianco (secondo alcuni per attirare i demoni, secondo altri per proteggersi). Alcuni libri di negromanzia sono giunti fino a noi, come il Manuale di Monaco tedesco, il Libro di Oberon inglese, il Liber Juratus francese, la Chiave di Salomone italiano e il Libro del Comando dello pseudo-Agrippa; parimenti, sebbene la maggior parte dei negromanti fossero anonimi, alcuni divennero celebri soprattutto nel Rinascimento, come John Dee (1527-1608) e il già citato Cornelio Agrippa (1486-1535).
In generale, gli scopi di questa magia rituale rientrano in tre categorie principali: influire sul corpo e sulla volontà altrui, creare illusioni, e discernere le cose segrete, passate, presenti e future. Le tecniche negromantiche possono essere molto complesse, ma si basano su pochi elementi principali: cerchi magici, scongiuri e sacrifici. Il cerchio si può tracciare a terra con un pugnale o una spada, o disegnare su una pergamena o un panno; a volte è semplice, poco più di una forma geometrica, altre molto complicato, con all’interno scritte e simboli di vario genere, siti per gli oggetti magici (spade, scettri, coppe, amuleti e altro) e un posto per il negromante stesso; persino i vari materiali vengono a volte specificati (ad esempio sangue di gatto, upupa o pipistrello per le scritte, pergamena vergine o pelle di leone per il piano su cui tracciare,…), e questo perché uno stesso cerchio può avere effetti diversi in base al materiale utilizzato nel crearlo. Lo scongiuro è la principale componente orale dell’atto magico: esso si impernia su un verbo di comando, come “io vi ordino” o “io vi impongo” di apparire e obbedire; in genere esso riprende parti dei salmi o delle preghiere cristiane, e su alcuni libri è detto di inginocchiarsi a mani giunte e col volto al cielo, e di ripeterlo un dato numero di volte. Importante era anche il sacrificio: in genere si trattava di animali, ed era credenza diffusa che i demoni fossero attirati dal sangue, specialmente da quello umano, tanto che i negromanti sacrificavano anche parti di cadaveri o di sé stessi.
Si può in genere ritenere che questa forma di magia medievale derivi in parte dalla tradizione pagana tardoantica (soprattutto quella astrale e goetica), e in parte da quella esorcistica giudeo-cristiana: i rituali infatti hanno sempre, come visto, uno sfondo cristiano, e i vari manuali spiegano quando devono essere officiati (il sabato prima dell’alba con la luna calante, il giovedì con la luna crescente, e via dicendo); lo stesso confine tra spiriti astrali o elementali e angeli caduti è piuttosto confuso, e i negromanti si appellano ora agli uni, ora agli altri. In effetti, il più delle volte i negromanti sono espliciti riguardo i nomi di coloro che vogliono chiamare, non solo Satana ma anche demoni con nomi e attributi specifici; dato che la negromanzia è comunque una commistione di cristianesimo e paganesimo, non è sorprendente trovare di quando in quando una certa ambiguità riguardo gli spiriti invocati: alcune fonti parlano di “spiriti neutri”, vuoi astrali o elementali, altre di esseri che sono “fra il bene e il male, né all’Inferno né in Paradiso”.
Per quanto riguarda invece l’aspetto esorcistico, alcuni testi parlano di questi maghi come di esorcisti, poiché le formule utilizzate sono tutto sommato le stesse dei sacerdoti cristiani: la differenza, ovviamente, sta nel fatto che i secondi li costringono ad andarsene, i primi a sottomettersi al loro volere. Dice ad esempio il Manuale di Monaco: “Io ti comando, demone malvagio, per il potere del Signore, e ti ordino nel nome dell’Agnello immacolato […] che tu esegua subito ciò che ti comanderò. […] Colui che nacque da una vergine ti comanda. Gesù di Nazareth, il quale ti ha creato, ti comanda di adempiere subito a tutto ciò che ti chiedo, a tutto ciò che voglio avere o sapere.” In effetti, l’atteggiamento dei negromanti davanti a Dio era diverso da quello che avevano nei confronti dei demoni: essi si presentano come umili e indegni supplici davanti al Signore, implorando il suo aiuto per ottenere potere sugli spiriti.

LA CABALA

L'albero sefirotico della cabala.

La cabala (in ebraico qabbalah, “ricezione”) è la tradizione segreta del misticismo giudaico, nata in Europa tra XII e XIII secolo, e che si richiama alle concezioni tardoantiche e altomedievali dell’energia divina e del cosmo, di come essi si rapportino all’uomo, e di come ogni parte del creato risponde a un’armonia segreta. Questo studio è comunque molto ristretto: improntato sul rapporto maestro-allievo, quest’ultimo dev’essere sempre un uomo maturo e di alta moralità; aveva inoltre una forte componente orale, e le parti scritte sono comunque ricche di simbolismi che non possono essere decifrati da un profano.
La Bibbia divenne il centro dello studio cabalistico: nel corso dei secoli, ogni parola e ogni episodio della Scrittura vennero infatti arricchiti da significati ulteriori poiché, nel testo antico, si cercava l’espressione assoluta e valida per ogni epoca della vicenda interiore dell’uomo, della struttura del creato e della storia del popolo ebraico: la Genesi e l’Esodo, ad esempio, divennero il modello attraverso cui esprimere ogni esperienza ed emozione, e i personaggi biblici assursero a paradigma dei moti dell’animo umano (Abramo la misericordia, Isacco il timore, e così via). Oltre a questo, l’analisi letterale della Bibbia da parte dei maestri portò alla decostruzione e ricostruzione del testo con un altro significato, quello appunto ritenuto segreto (in base soprattutto alle assonanze linguistiche, all’etimologia e alla numerologia): il risultato fu la trasformazione della Scrittura in un testo atemporale. Altri elementi si aggiunsero poi alla speculazione cabalistica: testi come il Sefer Yeshira aggiunsero la concezione di forze mistiche non menzionate nella Bibbia, e altri come gli Hekalot svilupparono l’angelologia e il concetto di ascesa dell’anima, mentre dal neoplatonismo si integrarono il lessico e concezioni come quella di emanazione. Nel Rinascimento anche i Cristiani iniziarono a praticare la cabala, cercando nei suoi metodi conferme alla loro fede: fondatori di questa branca furono Pico della Mirandola, ma soprattutto Johannes Reuchlin (1455-1522), col suo De Arte Cabalistica del 1517.
Le dieci sefirot, il cui simbolo (l’albero sefirotico) è diventato l’emblema della cabala, ne sono anche il centro del pensiero: ogni sefirah è un grado in cui Dio agisce sul creato (spesso accostato al modo in cui si irradia la luce), ed esse sono unite da Dio, ma separate dalla comprensione limitata dell’uomo. Vengono suddivise in vari modi, da scuola a scuola, ma il loro significato è univoco: esse sono, partendo dal basso, malkut (regno), yesod (fondamento), hod (splendore), netzach (eternità), tif’eret (bellezza), gevurah (severità), chased (gentilezza), binah (comprensione), chokhmah (saggezza) e keter (corona). Il processo di emanazione viene distinto in fasi successive, per denotare la distanza che separa il mondo supero da quello materiale; esisterebbero così quattro mondi (che rappresentano anche la progressione dell’esperienza umana): ashilut (l’emanazione), beri’ah (la creazione), yeshira (la formazione) e ‘ashiyya (la realizzazione), e questi diversi nomi indicano la trasformazione del tipo di influsso con cui le sefirot governano il cosmo (immateriale in ashilut, il più vicino al Creatore, e via via con mezzi sempre più concreti negli altri).
La convinzione che la lingua ebraica sia la chiave interpretativa della realtà non influenzò solo la filosofia e la meditazione, ma anche la magia vera e propria (la cosiddetta “cabala pratica”), volta a ottenere, tramite azioni e formule, guarigioni, beni materiali o protezione dai pericoli (e creando non pochi problemi teologici, in quanto questi riti riuscirebbero in qualche modo a influenzare Dio stesso). Secondo la tradizione, i riti utilizzano in gran parte i nomi divini, in quanto depositari, nella loro stessa materia verbale, di una forza soprannaturale; in realtà le raccolte di refu’ot (medicamenti) e segullot (incantesimi) cabalistici non mostrano aspetti particolarmente innovativi rispetto al patrimonio magico dell’ebraismo antico (se non per cose specifiche come il famoso golem, un essere animato artificialmente dalla potenza del tetragramma). Viceversa, l’applicazione della cabala all’alchimia ebbe molta più fortuna: le forze che attraggono e respingono i metalli sarebbero l’immagine di una struttura ultramondana, nella quale le energie divine sono sottoposte a un’incessante mutazione che le compone e le separa in base al principio etico di bene e male; dunque le scorie dei metalli rappresentano la parte malvagia, e occorre purificarle per ottenere la purezza dell’oro.

LA MAGIA ISLAMICA

Rappresentazione di alcuni jinn.

Nel mondo islamico la magia non è necessariamente malvagia, in quanto esiste quella insegnata dai demoni e quella donata da Dio agli uomini: in questo secondo caso si tratta in genere di formule di protezione tratte dal Corano (soprattutto le sure 20, 21 e 91), scritte su pergamena e chiuse in astucci a base esagonale da portare addosso (ma sono comuni anche quelli a forma di animale o di mano). Durante il Medioevo si svilupparono due diverse scuole di magia: quella dei Paesi mediterranei, influenzata dalle antiche concezioni babilonesi, egizie e greche, e quella del Medio Oriente, più influenzata da concezioni indiane, cinesi e sciamaniche. A conti fatti, nel mondo arabo si ripeté la stessa dicotomia europea: da un lato una magia rituale simile alla negromanzia cristiana, ma ovviamente in versione islamica (il manuale più famoso su di essa è il Picatrix, giunto poi in Europa in traduzione latina), e dall’altra una mistica estatica di stampo sciamanico, quella del sufismo (che venne però in genere vista meglio rispetto alla stregoneria).
Buona parte della magia islamica si basa su numeri, lettere e nomi: per i numeri, valgono bene o male le stesse concezioni della cabala ebraica, probabilmente perché influenzata dalla stessa; le lettere vennero invece divise in quattro categorie, corrispondenti agli elementi, e dunque parole scritte con lettere associate al fuoco possono servire per proteggere dalle malattie o per dare vigore in battaglia; conoscere i nomi può parimenti servire a piegare le potenze invisibili al proprio volere (spesso si trattava di jinn, altre volte di angeli). Nella pratica, tutto questo era usato spesso per la creazione di amuleti basati sulla forma quadrata (o su forme derivate dal quadrato, come il rombo, la croce,…), detti jadwai, i quali sono ritenuti legittimi poiché la loro creazione è basata sul precetto coranico per il quale “noi vi inviamo nel Corano ciò che è guarigione e misericordia per i credenti” (sura 17), che di fatto rendeva la scrittura magica (kitaba) un dono di Dio ai Musulmani.
Per quanto riguarda la divinazione, il metodo più celebre sono i due tipi di qur’a. Il primo e più semplice, il qur’at al tuiur, consta di una pagina con due cerchi divisi in settori, ciascuno contenente lettere, numeri e il nome di un pianeta o di una costellazione; segue un’altra pagina con quattro cerchi, divisi allo stesso modo, e poi ancora pagine divise in varie case, sino all’ultima, in cui 36 case danno la risposta finale: si trova a caso un numero (con morra, dadi, bastoncini,…), e si capita così su una lettera o costellazione della prima pagina, che rimanda a sua volta alla seconda, e poi alla terza fino alla conclusione e alla risposta finale. Il secondo e più complesso, il qur’at al anbia, prevede la tripla recitazione della fatiha (la prima sura del Corano), poi a occhi chiusi si pone il dito sulla scacchiera della prima pagina, che rimanda alle successive, e poi a uno dei sette cieli dei profeti dell’islam (Adamo, Noè, Abramo, Mosè, Davide, Gesù e Maometto), ognuno con un suo significato, per arrivare poi alle case finali, contenenti un brano del Corano che rappresenta la risposta alla domanda fatta.
Occorre infine notare che, per quanto riguarda le invocazioni e le costrizioni demoniache, esse si rivolgono come detto ai jinn (tradotto in italiano con “geni”): essi non sono demoni (ovvero gli angeli caduti che seguirono Iblis nella sua ribellione), ma una terza razza di creature (assieme appunto ad angeli e uomini) che Dio creò all’inizio dei tempi; dotati di grandi facoltà soprannaturali, sono per lo più avversi agli esseri umani, sebbene alcuni di loro si siano convertiti all’islam e possano essere invocati per aiuto e protezione. La tradizione islamica vede re Salomone come il più grande mago in grado di comandare i jinn, e nel Medioevo questo immaginario si diffuse anche in Europa.

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