Immaginiamo due uomini che, inerpicandosi su per una strada di montagna, non molto lontani dall’ultimo centro abitato, si fermano a osservare un isolotto in mezzo al torrente, sul quale cresce un albero. Si guardano a vicenda, annuiscono e lo raggiungono, discutono brevemente su cosa fare, e infine dispongono delle offerte per gli spiriti della montagna ai quattro punti cardinali, usando le nicchie create dalle radici come altare. A nord mettono della carne cruda bagnata nell’acquavite, a ovest un paio di uova e una libagione di latte, a sud una mela e delle noci, a est una fetta di formaggio coperta di miele. A quel punto intonano delle preghiere a ognuno degli spiriti cui è stata fatta l’offerta, e poi si congedano, lasciando il cibo sul posto.
È
sicuramente un’operazione semplice, e come cerimonia è tutt’altro che spettacolare:
eppure c’è una simbologia per il luogo e la disposizione, una scelta accurata
delle offerte (per quanto povere), e soprattutto c’è sincera devozione. O
meglio, possiamo vedere che c’è proprio in vista del fatto che il rituale non è stato eseguito a caso. E detto onestamente, ho sempre pensato che tutto ciò
fosse un po’ la base dell’offerta sacrificale, in qualsivoglia religione.
Alcuni
giorni fa è stata portata alla mia attenzione la pagina Facebook di un gruppo
di ricostruzionisti romani, tale Communitas Populi Romani, a loro stesso dire “un sodalizio spontaneo di uomini liberi che
si riconoscono negli stessi valori spirituali e culturali che la religione di
Roma antica, pubblica o privata, sapeva esprimere e trasmettere diventando un
collante dell'intera società.” Per chi non lo sapesse, il ricostruzionismo
è un insieme di correnti della religione neopagana, le quali riprendono le religioni
etniche della propria terra, riproponendole al giorno d’oggi il meno variate
possibili. Purtroppo (soprattutto in Italia e nei Paesi germanici), questi
gruppi sono più che altro associazioni di Estrema Destra che celano le loro
ideologie nazifasciste dietro il manto della religione pagana: non dovrebbe però
essere il caso della sopraccitata Communitas, il che per una volta mi fa
piacere.
Non
mi fa altrettanto piacere ciò che ho visto nelle foto. Nello specifico vorrei
parlare di questa, tratta dall’album di immagini relative al rito in onore di
Libero e Libera, eseguito al Giardino degli Aranci di Roma il 23 ottobre di
quest’anno. È intitolata “Offerta al Genius Loci”, il che rende chiaro sin da
subito di che si tratta: il sacrificio conviviale allo spirito tutelare del
luogo nel quale il rito è stato eseguito.
Sarò
chiaro: quello che vedete qua sopra non è il sacrificio per un dio, ma pura e
semplice immondizia.
Se
qualcuno lo vedesse, penserebbe che si tratta dell’offerta a uno spirito?
Ovviamente no.
Ogni
volta che i telegiornali urlano al sacrificio satanico e alla messa nera, in
genere è perché viene trovata per strada qualche offerta agli dèi delle
tradizioni africane o afroamericane, che nemmeno per sbaglio possono essere
scambiate per spazzatura o, come in questo caso, per un piatto sul quale
sono stati messi gli avanzi di un pic-nic. Perché di fatto, diciamocelo, è
assolutamente questo quello che sembra.
In
antropologia si dice che “tutte le
religioni prevedono offerte alle potenze invisibili, siano queste divinità,
spiriti o ‘forze della natura’. Uccidere animali o esseri umani ‘consacrati’
(sacrifici umani come quelli che si avevano nel mondo antico o tra gli
Aztechi), offrire piccoli animali domestici (usanza particolarmente diffusa in
Africa e in Sudamerica), incollare banconote alle statue dei santi portate in
processione come nell’Europa meridionale mediterranea, sono tutte forme di ‘sacrificio’.
Il sacrificio è inteso dai credenti come un atto capace di sollecitare la
benevolenza della potenza spirituale invocata, ma è interpretabile anche come
un atto capace di rinsaldare il senso di comunione tra i fedeli.”[1]
Ora,
pare evidente che per costoro il senso di comunione nel sacrificio alla
divinità che li ospita sia quello di raccogliere cibo random nello stesso
piatto, senza soluzione di continuità, senza darsi pena per disporlo in maniera
accettabile, senza nemmeno usare un supporto diverso da un piatto di plastica. Soprattutto,
questa foto viene mostrata quasi con orgoglio, come a dire: «Non ci siamo
dimenticati del genius loci, vedete?
Questa è la sua offerta!»
Eppure
l’offerta, nella tradizione romana, dovrebbe essere qualcosa di estremamente
importante, visto che “l’atto centrale del
culto è il sacrificio [...] Esistono
diversi tipi di sacrificio: innanzitutto l’offerta di prodotti della terra o di
cibi: primizie (sia della mietitura sia della vendemmia), dolciumi, libagioni
di latte […] o di vino […] da versare sul braciere dell’ara. […] Il pasto [viene] preso in comune dagli uomini e dagli dèi, espressione dei valori forti
derivanti dall’atto di condividere il cibo e, in senso proprio, dalla
convivialità: il sacrificio antico è anche comunione con il divino.”[2]
Ma
ribadisco, in questo caso il dio non è stato reso partecipe del banchetto: non
c’era un posto a tavola per lui, né su un piatto di plastica (come quello di
tutti gli altri) venivano posti man mano i cibi, come se fosse egli stesso
invitato a festeggiare coi partecipanti. Il cibo è stato tutto raccolto prima
(o dopo, non lo so), ammassato come una serie di avanzi o come il pastone di un animale, e
pare evidente che i praticanti in questione ritenessero che nessuno avrebbe
davvero mangiato da quel piatto. E del resto, se a voi avessero offerto non un
posto a tavola, ma quel piatto, quella caotica accozzaglia di cibo, lo avreste
mangiato? Io onestamente no. Dunque perché trattare un dio peggio di uomo,
soprattutto durante un rituale, ovvero un’occasione nella quale è proprio il
Divino a essere la parte centrale di tutto e il motore dell’azione stessa?
Nel
sacrificio l’offerta è parte di qualcosa di più complesso e, per citare
Saluzio, “gli dèi non guadagnano nulla da
tutte queste azioni (e quale mai sarebbe il guadagno per essi?), ma noi
otteniamo l’unione con loro.”[3] Dunque il sacrificio ha lo
scopo primario di unire col Divino, di creare in noi quelle sensazioni, quelle
emozioni e quelle riflessioni (potremmo dire quella forma mentis, quel paradigma) che ci permette di essere più
ricettivi nei confronti dell’Altrove. E non è che fare un sacrificio sia
qualcosa di estremamente complesso, anzi: si può fare con pochissimo, l’importante
è la dedizione che ci si mette (come nella sequenza citata all’inizio).
Qui
di seguito vi riporto un paio di esempi di sacrifici celebrativi neopagani, fatti da miei conoscenti: il
primo, per l’Equinozio d’Autunno, consta di una tavola sulla quale sono state ben disposte primizie
di stagione e foglie secche, con alcune candele accese, in modo da rendere il
tutto esteticamente piacevole alla vista, ma con una simbologia corretta che
ricorda sia l’arrivo dell’autunno che la devozione personale. Il secondo, per
Lughnasadh, è ancora più semplice: un cesto di vimini con fiori, spighe e
candele colorate, semplici offerte che indicano la transizione dalla primavera
all’estate. Entrambe ricordano molto le offerte che si facevano nelle campagne,
quelle della tradizione popolare (sia pagana che cristiana), dunque nulla di
complicato, eppure chiunque veda queste immagini (soprattutto la prima) penserà
subito a un’offerta religiosa.
O
ancora, se non si possono disporre in pompa magna oggetti o cibi, un altro
sacrificio tanto semplice quanto dignitoso è la preparazione di qualcosa: non
necessariamente piccole opere d’arte come statuette di legno o disegni dipinti,
ma anche solo un cibo o una bevanda pensati per essere offerti unicamente agli
dèi. Sminuzzare erbe e spezie per preparare un liquore particolare da usare
solo nelle celebrazioni è di per sé un atto devozionale, perché è un’offerta
che è stata preparata appositamente per la divinità.
Credo
sia buona norma ritenere che, quando facciamo un’offerta a una “potenza
invisibile”, deve trattarsi di qualcosa che a noi stessi farebbe piacere
accettare, se non nella sostanza almeno nella forma. Per fare un altro esempio
molto banale (e quasi profano), quando si va dal prete a chiedere le messe
annuali per i propri defunti, in genere il compenso viene dato in forma
monetaria: ma anche in questo caso è buona norma non schiaffare in mano al
sacerdote la banconota (come si potrebbe fare per pagare un panettiere o un
idraulico), ma mettere i soldi in una busta, in modo da rendere la cosa (che a
conti fatti è un’offerta religiosa) un minimo più elegante.
Dopotutto,
mi sento di dire che è attraverso la cura che mettiamo negli atti devozionali
che si esprime la nostra dedizione al culto: posso banalmente dire che lo
stesso termine “sacrificio” indica il “rendere sacro” (sacra facere), non solo riferito all’oggetto devozionale, ma all’azione
stessa che implica la sua creazione, che può essere sia in termini monetari, ma
anche semplicemente di tempo o di energie. E forse un po’ a tutti è venuta in mente
l’episodio evangelico che dice: “Alzati gli occhi,
[Gesù] vide alcuni ricchi che
gettavano le loro offerte nel tesoro. Vide anche una vedova povera che vi
gettava due spiccioli e disse: «In verità vi dico: questa vedova, povera, ha
messo più di tutti. Costoro, infatti, han deposto come offerta del loro
superfluo, questa invece nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per
vivere.»”[4]
A
voler essere ancora più pratici, a livello puramente magico potremmo anche dire che,
parafrasando Alan Moore, “è venuto il momento […] di concepire la magia più in
termini di realizzazione artistica. Altrimenti, il rischio è quello di essere
al tempo stesso superficiali e non così interessanti” [5], di realizzare cioè atti
magici che Dimitri definisce “esecuzioni
imbevute di potere reale, come lo è ogni forma d’arte” [6]. Del resto il già citato
Saluzio ci ricorda che “le preghiere
senza sacrifici sono soltanto parole, ma quelle che accompagnano i sacrifici
sono ricche d’anima, la parola fortificando la vita e questa animando la parola.”[7]
Mi
sento di concludere dicendo semplicemente che il sacrificio al genius loci fatto dalla Communitas
Populi Romani era un’idea carina ma, senza voler accusare nessuno, si poteva
fare meglio[8]. E spero di aver reso chiaro
che bastava davvero molto poco, ma che era importante, soprattutto per un gruppo
che vorrebbe riproporre i valori spirituali della religione romana.
[1] Ugo
Fabietti, Elementi di antropologia
culturale, Mondadori (Città di Castello 2004), p. 236.
[2] Jacqueline
Champeaux, La religione dei Romani,
Il Mulino (Bologna 2002), pp. 87 e 90-91
[3] Saluzio,
Gli dèi e il mondo XV 3
[4] Luca 21, 1-3.
[5] Francesco Dimitri, Saint Spider. Dance, possession, sex, art,
in Abraxas n. 3 (2013), cap. 7
(traduzione dell’autore).
[6] Ibid.
[7] Saluzio
XVI 1
[8] Semicitazione
che vi sfido a riconoscere.
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