domenica 10 settembre 2023

L’astrologia celtica: verità storica o invenzione contemporanea?

 


La passione per i Celti che ormai da più di un secolo permea il mondo occultista e quello neopagano ha dato origine a una miriade di elaborazioni che, a chi ha un minimo di esperienza dell’argomento, possono far storcere il naso: ne è un bell’esempio la Ruota dell’Anno, che vorrebbe riprendere feste celtiche ma sopperisce alle mancanze “simmetriche” inserendone altre di origine germanica. Tuttavia, forse il caso più interessante è quello del cosiddetto “oroscopo celtico” o “zodiaco arboreo”.

Si tratta, in breve, di un insieme di 13 segni astrologici in cui viene diviso l’anno, e il numero dipende dal fatto che il calendario di riferimento è lunare anziché solare: dunque, se ne conteggia uno per ogni ciclo lunare; ognuno di questi segni corrisponde a una pianta (betulla, sorbo selvatico, frassino, ontano e così via), e a una lettera dell’alfabeto oghamico. Promotore di questo sistema fu il poeta e saggista britannico Robert Graves, nel suo La dea bianca del 1946.

Tuttavia, a chi non fosse del tutto digiuno di cultura celtica, l’esistenza di questo sistema potrebbe dare un po’ da pensare: infatti, è cosa nota che i druidi trasmettessero solo oralmente i propri insegnamenti, e questo ci è testimoniato sin dall’epoca di Cesare. Il condottiero romano del I secolo a.C. scrive infatti che essi “non credono però lecito di trascrivere i dogmi della loro scienza, mentre per quasi tutte le altre faccende e per le norme pubbliche e private si servono della scrittura greca. Mi pare che abbiano stabilito questo per due ragioni e perché non vogliono che si diffonda tra il volgo la loro dottrina e perché i novizi, fidando nella scrittura, non siano meno diligenti nell’apprenderla; infatti ai più suole accadere che per l’aiuto degli scritti si mostrino più trascurati nell’imparare e nell’uso della memoria.” (B. G. VI 14, 3-4) Dunque, appare chiaro che può restare ben poco del pensiero dei druidi, non essendoci pervenuto nulla di scritto delle loro dottrine, per loro stessa scelta. Ma allora, da dov’è che Graves ha tratto questo zodiaco celtico?

Fonte primaria della sua speculazione fu l’opera dell’irlandese Roderic O’Flaherty, Ogygia, seu rerum Hibernicarum chronologia, pubblicata in latino nel 1685 e tradotta in inglese solo nel 1793. Il titolo riprende l’isola menzionata nell’Odissea, in quanto nel XVII secolo i dominatori inglesi non permettevano la circolazione di testi che parlassero dell’Irlanda, per timore che potessero risultare patriottici e dunque sovversivi; indi per cui, l’autore decise di usare il nome di un’isola mitologica per nascondere quello reale. E proprio in questo testo O’Flaherty parlava dell’interpretazione dell’ogham, un alfabeto celtico irlandese, in cui ogni lettera avrebbe preso il nome da un albero. A sua volta, l’autore si rifaceva a un testo precedente, l’Auraicept na nÉces, una presunta grammatica irlandese del VII secolo scritta da un certo Longarad.

Purtroppo, se a una prima occhiata tutto ciò può apparire corretto e lineare, esistono due grossi problemi perché ciò che scrisse O’Flaherty risulti accettabile. La prima, è che la più antica copia dell’Auraicept pervenutaci non è del VII secolo, ma del 1390, ed è conservata all’interno di un altro testo, il Libro di Ballymote, per l’appunto di molti secoli successivo alla presunta data originale. La seconda cosa, è che le caratteristiche dell’ogham rendono questo alfabeto assai problematico da intendere come un’antica scrittura sacra diffusa tra i Celti: infatti, delle circa 400 iscrizioni conosciute, ben 350 provengono dalla sola Irlanda e non dal mondo celtico in generale, e le più antiche sono anche estremamente tarde, del V-VI secolo d.C. Di usi dell’ogham precedenti a quell’epoca non ci resta alcuna testimonianza, né archeologica né letteraria; di contro, sappiamo che altrove i Celti usavano altri alfabeti per scrivere la loro lingua (etrusco, fenicio, greco e latino). L’ogham in sé è proprio una notazione dell’alfabeto latino per mezzo di linee intagliate (di numero variabile da 1 a 5) e disposte in modo differente in relazione a una resta; in genere si legge dal basso verso l’alto. Nato probabilmente come codice cifrato (e adatto solo a scritte brevi), può essere stato usato anche a scopo magico, ma questa non era certo la sua principale funzione: anzi, la sua nascita tardiva e derivata dal latino testimonia piuttosto l’influenza della cultura romana in Irlanda.

La cosa non finisce qui, però. O’Flaherty pensò bene di cambiare a sua volta quanto scritto nell’Auraicept, dove le lettere dell’ogham erano in totale 25 (di cui 5 non sono presenti nelle epigrafi, ma vennero inventate in una fase successiva): l’autore irlandese scrisse invece che l’alfabeto era composto da 13 consonanti e 5 vocali (quindi, da un totale di 18 lettere). Insomma, delle 20 originali dell’ogham il testo del XIV secolo ne aggiunse 5, e quello del XVII ne tolse 3: come si può vedere, la corrispondenza con l’alfabeto originale lasciava molto a desiderare. Come se non bastasse, Graves (il quale, ricordiamolo, voleva inizialmente dimostrare nientemeno che l’origine ebraica dell’alfabeto celtico!) non si premurò di consultare il Libro di Bellymote, ma si basò unicamente su O’Flaherty, dunque adottando il sistema delle 18 lettere; questo gli permise tra le altre cose di speculare sulle 13 consonanti, il cui numero ricordava quello dei mesi del calendario lunare, oltre che i segni dello zodiaco (quelli canonici più l’Ofiuco). La sua fantasia fece un passo ulteriore: dato che ogni lettera, a detta di O’Flaherty, corrispondeva a un albero, era allora per lui logico pensare che i Celti dividessero l’anno in “mesi arborei”, e che ogni mese corrispondesse a un segno zodiacale, a sua volta arboreo. Si trattava in sostanza di speculazioni unicamente basate sul numero 13.

Dunque, in cerca di supporto per la sua teoria, Graves scrisse al professor Robert MacAlister, il massimo esperto di ogham dell’epoca. Scrive ne La dea bianca che “R. S. Macalister, da me consultato di recente come massima autorità vivente in materia di scritture ogamiche, mi ha invitato a non prendere sul serio gli alfabeti di O’Flaherty: «Mi sembrano tutte tarde costruzioni artificiose, anzi, pedanterie, di peso non maggiore delle leziosaggini di Sir Pierce Shafton e di altri del genere.» Cito questo ovviamente per onestà, poiché la mia tesi poggia sull’alfabeto di O’Flaherty e Macalister è un robusto scudo per coloro che ritengono assurdo quanto vado dicendo. Ma l’ipotesi di partenza di questo libro è che Gwion [il bardo Taliesin] abbia celato nella sua poesia enigmistica un segreto legato all’alfabeto. E se non ho preso una cantonata, le risposte agli indovinelli (anche se ‘Movran’ e ‘Moiria’, ‘Ne-esthan’ e ‘Neiagadon’, ‘Rea’ e ‘Riuben’ non sembrano molto simili) si avvicinano a tal punto al Boibel-Loth che mi sento pienamente autorizzato a supporre che O’Flaherty riporti una tradizione autentica risalente perlomeno al XIII secolo e che gli indovinelli ancora senza risposta ne troveranno una nei nomi delle lettere del Boibel-Loth ancora non chiamate in causa.” (pp. 133-134)

MacAlister, dunque, mette in guardia il Nostro dalle sue elucubrazioni, perché quella di O’Flaherty è un’opera tarda e la costruzione dell’alfabeto che fa sembra molto artificiosa. Graves però decide di ignorare il parere dello studioso in favore della sua speculazione, dando a intendere che, per lui, un testo tardomedievale poteva avere in quest’ambito la stessa autorevolezza di uno di epoca antica. L’autore però si spinge anche oltre: certo, dice, nemmeno le parole che io associo fra loro sembrano corrispondere, e non sono nemmeno riuscito ad associarle tutte… Però a me piace così, e mi sembra corretto. Questa è la sostanza del discorso, che oggi non può che far storcere il naso, soprattutto dopo che lui stesso ha cercato conferma della teoria presso il massimo esperto dell’epoca.

Tuttavia, la vicenda ha per Graves un risvolto ancora più personale. Il nonno dell’autore era infatti il professor Charles Graves, una volta presidente della Royal Irish Academy e grande studioso di ogham, il quale aveva liquidato l’alfabeto arboreo di O’Flaherty come del tutto spurio: nel suo commento a un’edizione del 1917 dell’Auraicept scriveva infatti che “abbiamo già osservato che le lettere del Bethluisnin [l’alfabeto oghamico] erano tutte chiamate alberi; e non solo, ma si dice che i nomi delle rispettive lettere siano i nomi di alberi e piante reali. Incontriamo questa affermazione in tutti i resoconti del Bethluisnin, sia antico che moderno. Si riterrà tuttavia errato. Vale solo per quanto riguarda il nome di alcune lettere. Di molti altri si può dimostrare con certezza che non sono nomi di alberi o piante; mentre del resto possiamo solo dire che è possibile che abbiano avuto un tale significato.” Com’è dunque possibile che Graves si sia imbarcato in una simile operazione, avendo avuto in famiglia un’autorità del genere? Con ogni probabilità, il tutto ha una certa vena di rivalsa nei confronti della linea paterna (e irlandese), formata da medici e accademici: lui stesso, nel suo Goodbye to all that del 1929, dimostra di preferire quella materna, di origine sassone.

In ogni caso, nel 1949 Maroney pubblicò un articolo dove si approfondiva la questione, e ancora più di recente, nel 1991, McManus diede alle stampe il suo A guide to ogam, dove faceva chiarezza sull’originale numero delle lettere (20), esplicava quelle aggiunte come caratteri extra (per integrare quelli greci e latini non presenti nella versione originale), e rintracciava l’origine di ognuno di essi. Dunque, gli studi non si sono mai fermati, e oggi possiamo vedere gli errori di O’Flaherty e, conseguentemente, di Graves. Ad esempio, solo 6 lettere dell’intero alfabeto oghamico corrispondono a nomi di piante, vale a dire beth (betulla), fearn (ontano), saille (salice), duir (quercia) e coll (nocciolo), ma già onn non è il ginestrone (aiteann), bensì il frassino. Per tutte le altre, il significato è ben diverso: luis non è sorbo, ma fiamma; nion non è frassino, ma casa; uath non è biancospino, ma paura; tinne non è agrifoglio, ma barra di metallo; muin non è vite (peraltro introdotta in Irlanda dai Romani), ma gola; gort non è edera, ma campo; ruis non è sambuco, ma rosso; ur non è erica o prugnolo (fráech o draogean), ma argilla; ailm non è pino o abete argentato, perché non è attestato in nessuna forma, allo stesso modo di eadha (pioppo bianco) e idho (tasso); un discorso simile va fatto anche per pethboc, che non è l’ebbio, semplicemente perché la lettera P non faceva parte della lingua gaelica (questo Graves lo sapeva, e speculò che si trattasse di una modifica di NG).

Come si può vedere, dunque, la correttezza dell’alfabeto arboreo appare di poca sostanza. Ma, dopotutto, Berresford Ellis definisce correttamente Graves un “gentiluomo antiquario” che seguiva la moda romantica diffusa a cavallo tra XIX e XX secolo, piuttosto che un vero studioso: del resto, molte delle sue ipotesi prendono avvio da speculazioni sull’etimologia e l’associazione di parole in lingue che non aveva mai studiato, come il gaelico, l’ebraico e persino il greco, il tutto derivato da scritti precedenti che erano a loro volta fantasiose speculazioni senza basi concrete. Anzi, lui stesso nella riedizione del libro del 1961 si lamenta (in maniera paradossale, visti i precedenti) del fatto che “da quando è apparsa la prima edizione nel 1946 nessun esperto di irlandese antico o gallese mi ha offerto il minimo aiuto nel perfezionare le mie argomentazioni, o nel far notare uno qualsiasi degli errori che sono destinati a insinuarsi nel testo, o addirittura nel riconoscere le mie lettere.” La cosa più divertente è forse che l’autore si premurò di precisare che il Calendario di Coligny del I secolo d.C. “non è più considerato druidico e viene invece ricondotto alla tentata romanizzazione della religione autoctona nei primi anni dell’Impero” (p. 190), asserendo neanche troppo implicitamente che quello arboreo sarebbe ciò che realmente resta dell’antica sapienza dei druidi.

 

Bibliografia

- Berresford Ellis P., The fabrication of “Celtic” astrology, in The astrological journal, vol. 39, nr. 4, 1997.

- Cesare G. G., Opere, a cura di R. Ciaffi e L. Griffa, UTET, Torino, 1952.

- Graves R., La dea bianca, Adelphi, Varese, 2009.

- Kruta V., La grande storia dei Celti. La nascita, l’affermazione e la decadenza, Newton & Compton, Roma, 2003.

- Maroney H, Early Irish letter-names, in Speculum, vol. 94, nr. 1, 1949, pp. 19-43.

- McManus D., A guide to ogam, An Sagart, Maynooth, 1991.

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