La
passione per i Celti che ormai da più di un secolo permea il mondo occultista e
quello neopagano ha dato origine a una miriade di elaborazioni che, a chi ha un
minimo di esperienza dell’argomento, possono far storcere il naso: ne è un
bell’esempio la Ruota dell’Anno, che vorrebbe riprendere feste celtiche ma
sopperisce alle mancanze “simmetriche” inserendone altre di origine germanica.
Tuttavia, forse il caso più interessante è quello del cosiddetto “oroscopo
celtico” o “zodiaco arboreo”.
Si
tratta, in breve, di un insieme di 13 segni astrologici in cui viene diviso
l’anno, e il numero dipende dal fatto che il calendario di riferimento è lunare
anziché solare: dunque, se ne conteggia uno per ogni ciclo lunare; ognuno di
questi segni corrisponde a una pianta (betulla, sorbo selvatico, frassino,
ontano e così via), e a una lettera dell’alfabeto oghamico. Promotore di questo
sistema fu il poeta e saggista britannico Robert Graves, nel suo La dea
bianca del 1946.
Tuttavia,
a chi non fosse del tutto digiuno di cultura celtica, l’esistenza di questo
sistema potrebbe dare un po’ da pensare: infatti, è cosa nota che i druidi
trasmettessero solo oralmente i propri insegnamenti, e questo ci è testimoniato
sin dall’epoca di Cesare. Il condottiero romano del I secolo a.C. scrive
infatti che essi “non credono però lecito di trascrivere i dogmi della loro
scienza, mentre per quasi tutte le altre faccende e per le norme pubbliche e
private si servono della scrittura greca. Mi pare che abbiano stabilito questo
per due ragioni e perché non vogliono che si diffonda tra il volgo la loro
dottrina e perché i novizi, fidando nella scrittura, non siano meno diligenti
nell’apprenderla; infatti ai più suole accadere che per l’aiuto degli scritti
si mostrino più trascurati nell’imparare e nell’uso della memoria.” (B.
G. VI 14, 3-4) Dunque, appare chiaro che può restare ben poco del pensiero
dei druidi, non essendoci pervenuto nulla di scritto delle loro dottrine, per
loro stessa scelta. Ma allora, da dov’è che Graves ha tratto questo zodiaco
celtico?
Fonte
primaria della sua speculazione fu l’opera dell’irlandese Roderic O’Flaherty, Ogygia,
seu rerum Hibernicarum chronologia, pubblicata in latino nel 1685 e
tradotta in inglese solo nel 1793. Il titolo riprende l’isola menzionata nell’Odissea,
in quanto nel XVII secolo i dominatori inglesi non permettevano la circolazione
di testi che parlassero dell’Irlanda, per timore che potessero risultare
patriottici e dunque sovversivi; indi per cui, l’autore decise di usare il nome
di un’isola mitologica per nascondere quello reale. E proprio in questo testo
O’Flaherty parlava dell’interpretazione dell’ogham, un alfabeto celtico
irlandese, in cui ogni lettera avrebbe preso il nome da un albero. A sua volta,
l’autore si rifaceva a un testo precedente, l’Auraicept na nÉces, una
presunta grammatica irlandese del VII secolo scritta da un certo Longarad.
Purtroppo,
se a una prima occhiata tutto ciò può apparire corretto e lineare, esistono due
grossi problemi perché ciò che scrisse O’Flaherty risulti accettabile. La
prima, è che la più antica copia dell’Auraicept pervenutaci non è del
VII secolo, ma del 1390, ed è conservata all’interno di un altro testo, il Libro
di Ballymote, per l’appunto di molti secoli successivo alla presunta data
originale. La seconda cosa, è che le caratteristiche dell’ogham rendono questo
alfabeto assai problematico da intendere come un’antica scrittura sacra diffusa
tra i Celti: infatti, delle circa 400 iscrizioni conosciute, ben 350 provengono
dalla sola Irlanda e non dal mondo celtico in generale, e le più antiche sono
anche estremamente tarde, del V-VI secolo d.C. Di usi dell’ogham precedenti a
quell’epoca non ci resta alcuna testimonianza, né archeologica né letteraria;
di contro, sappiamo che altrove i Celti usavano altri alfabeti per scrivere la
loro lingua (etrusco, fenicio, greco e latino). L’ogham in sé è proprio una notazione
dell’alfabeto latino per mezzo di linee intagliate (di numero variabile da 1 a
5) e disposte in modo differente in relazione a una resta; in genere si legge
dal basso verso l’alto. Nato probabilmente come codice cifrato (e adatto solo a
scritte brevi), può essere stato usato anche a scopo magico, ma questa non era
certo la sua principale funzione: anzi, la sua nascita tardiva e derivata dal
latino testimonia piuttosto l’influenza della cultura romana in Irlanda.
La
cosa non finisce qui, però. O’Flaherty pensò bene di cambiare a sua volta
quanto scritto nell’Auraicept, dove le lettere dell’ogham erano in
totale 25 (di cui 5 non sono presenti nelle epigrafi, ma vennero inventate in
una fase successiva): l’autore irlandese scrisse invece che l’alfabeto era
composto da 13 consonanti e 5 vocali (quindi, da un totale di 18 lettere).
Insomma, delle 20 originali dell’ogham il testo del XIV secolo ne aggiunse 5, e
quello del XVII ne tolse 3: come si può vedere, la corrispondenza con
l’alfabeto originale lasciava molto a desiderare. Come se non bastasse, Graves
(il quale, ricordiamolo, voleva inizialmente dimostrare nientemeno che
l’origine ebraica dell’alfabeto celtico!) non si premurò di consultare il Libro
di Bellymote, ma si basò unicamente su O’Flaherty, dunque adottando il
sistema delle 18 lettere; questo gli permise tra le altre cose di speculare
sulle 13 consonanti, il cui numero ricordava quello dei mesi del calendario
lunare, oltre che i segni dello zodiaco (quelli canonici più l’Ofiuco). La sua
fantasia fece un passo ulteriore: dato che ogni lettera, a detta di O’Flaherty,
corrispondeva a un albero, era allora per lui logico pensare che i Celti dividessero
l’anno in “mesi arborei”, e che ogni mese corrispondesse a un segno zodiacale,
a sua volta arboreo. Si trattava in sostanza di speculazioni unicamente basate
sul numero 13.
Dunque,
in cerca di supporto per la sua teoria, Graves scrisse al professor Robert
MacAlister, il massimo esperto di ogham dell’epoca. Scrive ne La dea bianca
che “R. S. Macalister, da me consultato di recente come massima autorità
vivente in materia di scritture ogamiche, mi ha invitato a non prendere sul
serio gli alfabeti di O’Flaherty: «Mi sembrano tutte tarde costruzioni
artificiose, anzi, pedanterie, di peso non maggiore delle leziosaggini di Sir
Pierce Shafton e di altri del genere.» Cito questo ovviamente per onestà,
poiché la mia tesi poggia sull’alfabeto di O’Flaherty e Macalister è un robusto
scudo per coloro che ritengono assurdo quanto vado dicendo. Ma l’ipotesi di
partenza di questo libro è che Gwion [il bardo Taliesin] abbia celato
nella sua poesia enigmistica un segreto legato all’alfabeto. E se non ho preso
una cantonata, le risposte agli indovinelli (anche se ‘Movran’ e ‘Moiria’,
‘Ne-esthan’ e ‘Neiagadon’, ‘Rea’ e ‘Riuben’ non sembrano molto simili) si
avvicinano a tal punto al Boibel-Loth che mi sento pienamente autorizzato a
supporre che O’Flaherty riporti una tradizione autentica risalente perlomeno al
XIII secolo e che gli indovinelli ancora senza risposta ne troveranno una nei
nomi delle lettere del Boibel-Loth ancora non chiamate in causa.” (pp.
133-134)
MacAlister,
dunque, mette in guardia il Nostro dalle sue elucubrazioni, perché quella di
O’Flaherty è un’opera tarda e la costruzione dell’alfabeto che fa sembra molto
artificiosa. Graves però decide di ignorare il parere dello studioso in favore
della sua speculazione, dando a intendere che, per lui, un testo tardomedievale
poteva avere in quest’ambito la stessa autorevolezza di uno di epoca antica.
L’autore però si spinge anche oltre: certo, dice, nemmeno le parole che io
associo fra loro sembrano corrispondere, e non sono nemmeno riuscito ad
associarle tutte… Però a me piace così, e mi sembra corretto. Questa è la
sostanza del discorso, che oggi non può che far storcere il naso, soprattutto
dopo che lui stesso ha cercato conferma della teoria presso il massimo esperto
dell’epoca.
Tuttavia,
la vicenda ha per Graves un risvolto ancora più personale. Il nonno dell’autore
era infatti il professor Charles Graves, una volta presidente della Royal Irish
Academy e grande studioso di ogham, il quale aveva liquidato l’alfabeto arboreo
di O’Flaherty come del tutto spurio: nel suo commento a un’edizione del 1917
dell’Auraicept scriveva infatti che “abbiamo già osservato che le
lettere del Bethluisnin [l’alfabeto oghamico] erano tutte
chiamate alberi; e non solo, ma si dice che i nomi delle rispettive lettere
siano i nomi di alberi e piante reali. Incontriamo questa affermazione in tutti
i resoconti del Bethluisnin, sia antico che moderno. Si riterrà tuttavia
errato. Vale solo per quanto riguarda il nome di alcune lettere. Di molti altri
si può dimostrare con certezza che non sono nomi di alberi o piante; mentre del
resto possiamo solo dire che è possibile che abbiano avuto un tale
significato.” Com’è dunque possibile che Graves si sia imbarcato in una
simile operazione, avendo avuto in famiglia un’autorità del genere? Con ogni
probabilità, il tutto ha una certa vena di rivalsa nei confronti della linea
paterna (e irlandese), formata da medici e accademici: lui stesso, nel suo Goodbye
to all that del 1929, dimostra di preferire quella materna, di origine
sassone.
In
ogni caso, nel 1949 Maroney pubblicò un articolo dove si approfondiva la
questione, e ancora più di recente, nel 1991, McManus diede alle stampe il suo A
guide to ogam, dove faceva chiarezza sull’originale numero delle lettere
(20), esplicava quelle aggiunte come caratteri extra (per integrare quelli
greci e latini non presenti nella versione originale), e rintracciava l’origine
di ognuno di essi. Dunque, gli studi non si sono mai fermati, e oggi possiamo
vedere gli errori di O’Flaherty e, conseguentemente, di Graves. Ad esempio,
solo 6 lettere dell’intero alfabeto oghamico corrispondono a nomi di piante,
vale a dire beth (betulla), fearn (ontano), saille
(salice), duir (quercia) e coll (nocciolo), ma già onn non
è il ginestrone (aiteann), bensì il frassino. Per tutte le altre, il
significato è ben diverso: luis non è sorbo, ma fiamma; nion non
è frassino, ma casa; uath non è biancospino, ma paura; tinne non
è agrifoglio, ma barra di metallo; muin non è vite (peraltro introdotta
in Irlanda dai Romani), ma gola; gort non è edera, ma campo; ruis
non è sambuco, ma rosso; ur non è erica o prugnolo (fráech o draogean),
ma argilla; ailm non è pino o abete argentato, perché non è attestato in
nessuna forma, allo stesso modo di eadha (pioppo bianco) e idho
(tasso); un discorso simile va fatto anche per pethboc, che non è
l’ebbio, semplicemente perché la lettera P non faceva parte della lingua
gaelica (questo Graves lo sapeva, e speculò che si trattasse di una modifica di
NG).
Come
si può vedere, dunque, la correttezza dell’alfabeto arboreo appare di poca
sostanza. Ma, dopotutto, Berresford Ellis definisce correttamente Graves un
“gentiluomo antiquario” che seguiva la moda romantica diffusa a cavallo tra XIX
e XX secolo, piuttosto che un vero studioso: del resto, molte delle sue ipotesi
prendono avvio da speculazioni sull’etimologia e l’associazione di parole in
lingue che non aveva mai studiato, come il gaelico, l’ebraico e persino il
greco, il tutto derivato da scritti precedenti che erano a loro volta
fantasiose speculazioni senza basi concrete. Anzi, lui stesso nella riedizione
del libro del 1961 si lamenta (in maniera paradossale, visti i precedenti) del
fatto che “da quando è apparsa la prima edizione nel 1946 nessun esperto di
irlandese antico o gallese mi ha offerto il minimo aiuto nel perfezionare le
mie argomentazioni, o nel far notare uno qualsiasi degli errori che sono
destinati a insinuarsi nel testo, o addirittura nel riconoscere le mie
lettere.” La cosa più divertente è forse che l’autore si premurò di
precisare che il Calendario di Coligny del I secolo d.C. “non è più
considerato druidico e viene invece ricondotto alla tentata romanizzazione
della religione autoctona nei primi anni dell’Impero” (p. 190), asserendo
neanche troppo implicitamente che quello arboreo sarebbe ciò che realmente
resta dell’antica sapienza dei druidi.
Bibliografia
- Berresford Ellis P., The
fabrication of “Celtic” astrology, in The astrological journal, vol.
39, nr. 4, 1997.
-
Cesare G. G., Opere, a cura di R. Ciaffi e L. Griffa, UTET, Torino,
1952.
-
Graves R., La dea bianca, Adelphi, Varese, 2009.
-
Kruta V., La grande storia dei Celti. La nascita, l’affermazione e la
decadenza, Newton & Compton, Roma, 2003.
- Maroney H, Early Irish
letter-names, in Speculum, vol. 94, nr. 1, 1949, pp. 19-43.
- McManus D., A guide to
ogam, An Sagart, Maynooth, 1991.
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