lunedì 8 luglio 2019

Elagabalo, il trans che sposava i sassi

Il classico culto solare dei soldatacci romani.


Negli ultimi mesi, a causa della ricerca che sto compiendo, mi sono reso conto che la maggioranza delle persone (e persino moltissimi studiosi) ritengono che il culto del Sol Invictus introdotto dall'imperatore Aureliano nel 274 d.C. sia sostanzialmente lo stesso, magari in una veste un po' modificata, di quello portato a Roma da Elagabalo nel 219.
Vi propongo dunque in questa sede un po' di storia e qualche considerazione sulla religione di El Gabal, il dio solare di Emesa che non solo non nacque il 25 dicembre, ma non c'entrava davvero nulla col Sol Invictus vero e proprio, che resta Mitra, il dio che muove l'asse del cielo.

I. Il dio dei Severi.
Com’è noto, in seguito a una predizione, l’imperatore Settimio Severo si recò a Emesa, grande città siriana e cliente di Roma, per cercare moglie; il sacerdote del dio locale El Gabal, un certo Gaio Giulio Bassiano, gli presentò le sue figlie, Giulia Mesa e Giulia Domna, e il sovrano scelse per sé la seconda. Da quel momento in poi, per tutta la dinastia dei Severi, l’influenza del culto siriano si fece sempre molto sentire anche nella capitale, culminano con l’acclamazione del giovane Sesto Vario Avito Bassiano.
A differenza dei suoi predecessori, Elagabalo (così venne chiamato dai posteri, in relazione al nome del suo dio) era stato cresciuto per essere un sacerdote, non un imperatore, e fu sostanzialmente per questo che i Romani non compresero mai i suoi modi di fare, ascrivendogli addirittura sacrifici umani[1]. Altri invece, come Cassio Dione, gli rimproveravano il non aver rispettato delle priorità religiose: “Il reato consistette non tanto nell’aver introdotto un dio straniero a Roma o l’averlo esaltato in modi assai strani, ma nell’averlo onorato persino prima di Giove stesso e l’essersi votato come suo sacerdote…”[2] E questo è probabilmente uno degli aspetti più interessanti della religiosità del giovane sovrano, che di fatto esaltava il proprio dio come supremo fra tutti, arrivando a considerare gli altri come suoi servitori[3]. Non solo infatti “traslò a Roma il simulacro del dio e gli fece fare degli altari nelle stanze del palazzo”[4], ma edificò un intero tempio a Roma, su quello precedente dedicato a Orco[5], ed espanse il suo culto anche in patria, erigendone uno sul monte Tauro[6], e un altro ancora a Nicomedia[7].
Questo esclusivismo fanatico aveva dei risvolti anche più immediati (e traumatici) per la religione romana: “Ma il nuovo imperatore, appena entrato in Roma [luglio 219], prese a trascurare gli affari di governo per dedicarsi al culto del suo dio: cominciò col fargli erigere sul colle Palatino, nei pressi della reggia, un tempio, ove intendeva far trasferire la statua di Cibele, il fuoco sacro di Vesta, il Palladio, gli scudi ancili e tutti gli oggetti di culto dei Romani, in modo che a Roma fosse venerato soltanto Eliogabalo. Diceva inoltre che in quel tempio si sarebbero dovuti trasferire i culti delle religioni dei Giudei, di quella dei Samaritani e dei Cristiani, perché i sacerdoti di Eliogabalo divenissero i depositari dei misteri di ogni religione.”[8] Dovrebbe esserci almeno una parte di verità in queste affermazioni, in quanto anche Erodiano dice che, una volta morto l’imperatore, le immagini sacre che aveva fatto rimuovere vennero rimesse al loro posto nei templi[9].

II. Caratteristiche del culto.
Ma chi era El Gabal? Il suo nome dovrebbe significare semplicemente “dio della montagna”[10], e l’unico autore a darci una definizione un minimo precisa è Lampridio, che lo definisce “una divinità variamente identificata ora con Giove ora con Sole”[11]: ciò deriva probabilmente dal fatto che sugli aurei imperiali veniva raffigurato sulla quadriga, e con la scritta “Sanct Deo Soli Elagabal”, dunque una dimensione solare è indubitabile; l’accostamento a Giove dovrebbe invece dipendere dalla suddetta preminenza del dio rispetto a tutti gli altri, come accadeva a Emesa e come Elagabalo avrebbe voluto fare in tutto l’impero. Doveva trattarsi di un baal locale, probabilmente Adad, che presiedeva al tempo atmosferico e veniva adorato sulle alture, e che solo in seguito venne solarizzato[12], forse per un’identificazione col dio solare Shamash. Era comunque una divinità incarnata da un betilo, un sasso meteorico, cosa tipica delle religioni semitiche, tanto che la pietra venne poi anche raffigurata sulle monete dell’usurpatore Uranio Antonino.
È interessante analizzare quel poco che sappiamo del suo culto, che presenta caratteristiche appunto molto semitiche, e che sicuramente creava straniamento e ribrezzo nei Romani. L’imperatore si asteneva dalla carne di maiale, considerata impura, ed era circonciso, requisito necessario per servire il dio (tanto che dovettero essere circoncisi anche tutti coloro che lo assistevano nel culto)[13]; sacrificava grandi quantità di vino, e sangue di tori e pecore, mentre le interiora delle vittime venivano poi chiuse in vasi d’oro e distribuite a senatori e cavalieri, evidentemente come oggetti benedetti.[14] Si vestiva non da sacerdote romano, ma con gli abiti di seta e i gioielli tipici della Siria, cantava litanie al suo dio, per lui danzava al suono di tamburi e cembali, e non doveva essere estraneo alla confezione di amuleti[15]. Sulle vicende più strane e scabrose, come i sacrifici di fanciulli e gli animali nutriti a genitali umani[16], non c’è da sbilanciarsi, per quanto è molto probabile si tratti di errate interpretazioni di cerimonie reali[17].
Uno degli aspetti più interessanti sono però i matrimoni tra El Gabal e altre dee, cosa impensabile nel culto ufficiale, ma tipiche dei popoli semitici: ciò dipendeva dal fatto che molti baal delle montagne erano di fatto personificati nei betili[18], e dunque avevano una fisicità maggiore rispetto alle sculture dei templi greci e romani, che invece venivano commissionate ad artisti. Il fatto che le pietre meteoriche non fossero create dall’uomo le rendeva, nella mentalità orientale, più sacre e in qualche modo “vive”: è probabilmente per questo che l’imperatore scelse come prima sposa per El Gabal la dea raffigurata nel Palladio, che il mito voleva essere precipitato direttamente dal cielo[19]. La sua ricerca di “betili femminili” non si fermò ovviamente qui, forse perché il dio poteva essere poligamico, altra cosa tipicamente semitica: fece portare da Cartagine il simulacro di Afrodite Urania (ovvero Tanit)[20], tentò di impossessarsi delle pietre sacre di Artemide a Laodicea (che la tradizione voleva essere state collocate lì da Oreste)[21], si fece iniziare al culto di Cibele per mettere le mani sulla pietra che i galli portavano in processione[22], e allo stesso modo fece con il culto di un’altra dea siriana, Salambo[23], identificata dai Romani con Venere e che probabilmente aveva anch’essa un betilo[24].
La più grande celebrazione del dio restava però la sfilata tenuta durante il solstizio d’estate, così descritta da Erodiano: “Elevò quindi ne’ sobborghi un tempio di gran magnificenza e grandezza, ove ogni capo d’anno sul venir dell’estate vi conducea il suo dio; e, dando corse, commedie, pranzi, e festini, credea di far cosa graziosa a’ romani. Trasportavalo egli stesso sopra un cocchio tutto in oro e preziosissime gemme, tirato da sei giganteschi e candidissimi cavalli, forniti di finimenti varj e ricchissimi. Non era lecito a persona di montare in sul cocchio, ma tutti erano all’intorno del dio, come se da per solo lo guidasse. Antonino, reggendo i freni de’ cavalli, si tenea volto alla immagine di lui, e cogli occhi fissi in lei, guidava il cocchio all’indietro, e così procedea lungo tutta la via. La quale, acciò egli non vi sdrucciolasse o cadesse, facea tutta quanta spargere di quell’arena ch’è color d’oro, con soldati all’intorno schierati, acciò in caso di caduta lo reggessero. Era la via tutta zeppa di popolo, che correa avanti indietro con fiaccole, e spargea fiori e corone. Venivano appresso le immagini di tutti gl’iddii, e le più ricche e superbe suppellettili che insignivano i templi e l’imperiale palazzo: gli faceano similmente corteggio i cavalieri e tutto l’esercito. Condottolo in tal guisa e situatolo nel tempio, gli celebrava: e poi, salendo sopra una grande ed altissima torre a questo fine edificata, gittava giù al popolo vasi d’oro e d’argento, vesti di varj drappi, animali di ogni spezie, eccetto i porci, de’ quali si astenea per legge fenicia.”[25]

III. Invictus ante litteram?
Nei tempi passati, diversi studiosi hanno voluto accostare El Gabal al Sol Invictus: per alcuni, come lo Xella, tra il dio di Elagabalo e quello di Aureliano non esiste alcuna differenza[26], mentre altri, come l’Halsberghe, dicono che “l’influenza di Sol Invictus Elagabal, il più importante dio-sole siriano, deve aver grandemente contribuito alla preminenza dell’adorazione del sole dall’inizio del III secolo d.C. […] Il culto del Sol Invictus siriano era perciò sufficientemente ben conosciuto per acquisire degli zelanti aderenti molto lontani dai suoi confini originari.”[27] E tuttavia, ciò stride molto con le testimonianze di cui sopra, che continuano a proporre El Gabal come un dio straniero e dal culto incomprensibile, se non nocivo. Non solo, ma la sua collocazione geografica prettamente siriana non lo renderebbe, a logica, appetibile a genti al di fuori di quel contesto; anche tutte le attribuzioni filosofiche e teologiche del sole come nemico delle tenebre e garante della legge (esposte ad esempio dal neoplatonismo) non sembrano avere alcun ruolo nel culto di El Gabal. Anche perché, una volta morto Elagabalo, non abbiamo testimonianza del culto della divinità in epoca successiva al suo regno al di fuori di Emesa, come anche in nessuno scritto filosofico. In effetti, a pensarci, la condotta dissoluta e fanatica dell’imperatore non doveva aver fatto buona pubblicità al suo dio.
L’epiteto Invictus, parimenti, negli scritti letterari non compare mai legato a El Gabal, nonostante venga spesso accostato a lui dagli studiosi. Il suo uso è più antico, e come visto nel capitolo precedente lo ritroviamo molto nell’epigrafia mitraica: per fare un esempio, la stele milanese di Publio Acilio Pisoniano, datata al II secolo, riporta la dicitura D. S. I. M. (Deo Soli Invicto Mithra)[28], ben prima dell’arrivo del dio di Emesa nell’orizzonte romano. Questo sta a significare che non fu El Gabal a creare presso la gente comune (e in particolar modo i soldati) una devozione alla divinità solare, bensì Mitra, il cui culto misterico era teologicamente più complesso di quello del dio semitico, che restava comunque una divinità locale, per quanto importante. E in effetti, contrariamente a quanto vorrebbe l’Halbersghe, non sembrano esistere testimonianze epigrafiche di un Sol Invictus Elagabal al di fuori della titolatura di Elagabalo stesso[29], perché Sol Invictus e Sol Elagabal sono sempre ben distinti, a riprova del fatto che evidentemente, per i Romani al di fuori della ristretta cerchia dei Severi, i due dèi non erano lo stesso.
Occorre ricordare anche una cosa importante, ovvero che fino all’epoca dei Severi Emesa fu la capitale di un regno cliente, non formalmente annesso all’impero (se non appunto con Elagabalo): che senso avrebbe avuto allora, per un soldato romano, convertirsi a una religione etnica straniera che non solo non sembrava avere particolari promesse escatologiche, ma non aveva nemmeno dei misteri a cui iniziarsi[30], e prevedeva altresì degli obblighi che non sappiamo se siano stati praticati, come la circoncisione e l’astenersi dal maiale? Lo stesso fatto che ogni città siriana avesse il suo baal locale, con attribuzione solare o meno, rende assai difficile e caotico tracciare delle linee universali a cui gli stessi soldati romani avrebbero potuto rifarsi per creare un culto da diffondere: il dio-sole di Emesa non era quello (anzi, quelli) di Palmira, come vedremo, ed era altresì concepito come diverso anche rispetto a quello di Antiochia e di altre città. Non è dunque un caso se già all’epoca di Settimio Severo El Gabal veniva chiamato “deo soli patrio Elagabalo”[31].
Infine, sempre l’Halsberghe, portando avanti la sua teoria sulla preminenza del culto emesiano su quello mitraico, asserisce che difficilmente i Romani avrebbero potuto aderire al mitraismo fin dalle origini, in quanto esso prevedeva iniziazioni segrete in luoghi sotterranei, ed essi erano invece abituati ai culti ufficiali, come appunto era quello di El Gabal[32]. Ma, ragionando in questo modo, nessun culto misterico avrebbe mai dovuto attecchire nel mondo romano, incluso il cristianesimo. Possiamo dunque affermare con buona certezza che, nell’ascesa del culto solare nell’Impero Romano, quella di dio di Emesa fu solo una parentesi collaterale e di poca importanza.

IV. Le Etiopiche di Eliodoro.
L’unico altro personaggio di una certa rilevanza proveniente dalla città siriana, al di là della stirpe dei Severi, è un certo Eliodoro, autore delle Etiopiche, un romanzo d’amore e d’avventura ambientato tra l’Egitto e l’Etiopia. Di lui comunque sappiamo pochissimo, poiché l’unica cosa che dice di sé è che il romanzo in questione “lo ha composto un fenicio di Emesa, della stirpe di Elio, Eliodoro, figlio di Teodosio.”[33] Grazie ad altri autori scopriamo qualcosa di più: Socrate Scolastico dice che “appresi quindi, allorché giunsi in Tessaglia […] [di] Eliodoro, divenuto vescovo di Tricca in quella regione, del quale si tramanda un’opera, una storia d’amore, che egli compose quando era giovane, e a cui assegnò il titolo di Etiopiche.”[34] Secondo una tradizione medievale (non sappiamo quanto autorevole), per quello stesso romanzo egli perse la carica, perché il sinodo locale gli impose di bruciare la sua opera (in quanto fonte di erotismo), oppure di lasciare il vescovado, cosa che preferì invece fare[35]. Se il discendere dalla “stirpe di Elio” implica l’appartenenza a una dinastia sacerdotale legata a El Gabal, dovrebbe allora trattarsi del figlio del gran sacerdote dell’epoca, che fece poi carriera nei ranghi ecclesiastici.
La datazione dell’opera (e quindi di Eliodoro stesso) è piuttosto controversa, ma il Colonna propone, a mio avviso con buona certezza, di collocarlo sul finire del IV secolo, all’epoca di Graziano e Teodosio I: ciò sarebbe dimostrato, oltre che dall’aver intrapreso la carriera ecclesiastica, soprattutto dalle esplicite citazioni di alcune orazioni di Giuliano riguardanti l’assedio di Nisibi, i cui particolari molto specifici l’autore avrebbe ripreso per narrare dell’assedio del re etiope nel suo romanzo[36], ma le stesse riprese delle opere di Filostrato lo porrebbero comunque in epoca successiva ai Severi[37].
Una datazione tardoantica spiegherebbe soprattutto come mai il dio che più spesso compare nel romanzo, Apollo-Elio, non abbia alcuna caratteristica particolare che lo renda riconoscibile come El Gabal, per quanto l’autore lo abbia evidentemente messo in posizione preminente per devozione personale (o comunque famigliare); anzi, egli compare proprio come il dio di Delfi, ben lontano dal betile semitico, e immerso in una prospettiva assai più classicheggiante.

[1] Cassio Dione LXXX 11.
[2] Ibid. 8
[3] HA Eliogabalo VII; ciò non è affatto estraneo alla mentalità religiosa semitica, che vedeva la preminenza del proprio dio locale su quello degli altri popoli (si veda ad esempio, per gli Ebrei, Mi. 4,5, Sal. 82, 1, Sal. 95, 3 e Sal. 96, 4-5).
[4] Vittore, De Caesaribus XXIII, 1.
[5] HA Eliogabalo I.
[6] HA Caracalla XI: “…il figlio dello stesso Caracalla, Eliogabalo Antonino, fece erigere un santuario dedicato a sé stesso o (la circostanza non è chiara) a Giove Sirio o a Sole.”
[7] Halsberghe p. 65.
[8] HA Eliogabalo III.
[9] Erodiano VI 1, 3.
[10] Lenormant propone invece di identificare El Gabal con l’antico dio caldeo del fuoco, Gibil, mentre Fuller e Tiele farebbero derivare il nome dalla parola gebal (formato, finito); cfr. Halsberghe, op. cit. pp. 62-63.
[11] HA Eliogabalo I e XVII.
[12] P. Xella, Religione e religioni in Siria-Palestina. Dall’antico bronzo all’epoca romana, Carocci (Urbino 2007), p. 92.
[13] Cassio Dione LXXX 8.
[14] Erodiano V 5, 8-9.
[15] Cassio Dione LXXX 11.
[16] Ibid., 12.
[17] Si veda in merito Attilio Mastrocinque, Heliogabalus, Saturnus, and Hercules, in Divinizzazione, culto del sovrano e apoteosi tra Antichità e Medioevo, a cura di Tommaso Gnoli e Federicomaria Muccioli, Boninia University Press (Rastignano 2014), pp. 321-329.
[18] Il caso più famoso resta ovviamente la Pietra Nera alla Mecca, ma questa mentalità si trasferì per certi versi anche nelle icone cristiane, che prima del periodo iconoclasta venivano trattate come fossero esseri viventi (si veda ad esempio Hans Belting, Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo, Carocci).
[19] Si veda a mo’ di esempio Apollodoro, Biblioteca III 12.
[20] Erodiano V 6, 3-4; Cassio Dione LXXX 12.
[21] HA Eliogabalo VIII.
[22] Ibid.; Epit. Caes. 157; la presenza di un betilo di Cibele è testimoniata ad esempio da Prudenzio, Il libro delle corone 10, 154-60.
[23] Ibid.
[24] Il Gualerzi propone invece di interpretare (forse po’ pretestuosamente) questo processo di sposalizi con una ricerca, da parte dell’imperatore, di un’androginia delle dee; si veda Saverio Gualerzi, Né uomo, né donna, né dio, né dea. Ruolo sessuale e ruolo religioso dell’imperatore Elagabalo, Pàtron (Bologna 2005).
[25] Erodiano V 6, 7-9.
[26] P. Xella, op. cit.
[27] Halsberghe p. 36; traduzione dell’Autore.
[28] Civico Museo Archeologico di Milano, Antiche pietre di Mediolanum (Milano 2011), p. 117.
[29] Si vedano ad esempio CIL X, 5827; CIL XI 3774; CIL III 1997, tutti elenchi di titoli dell’imperatore Elagabalo: si potrebbe quasi supporre che egli volesse creare un sincretismo con Mitra, ma che il progetto restò embrionale.
[30] L’Halsberghe sembra dare per scontato che anche El Gabal avesse dei misteri (cfr. p. 77) e una teologia salvifica (p. 80), ma di fatto non si evince nulla del genere dalle fonti letterarie o epigrafiche.
[31] Anné épigraphique (1910), n. 133.
[32] Halsberghe p. 118.
[33] Eliodoro, Etiopiche X, 41.
[34] Socrate Scolastico, Storia ecclesiastica V, 22.
[35] Niceforo Callisto Xantopulo, Storia ecclesiastica XII, 34.
[36] Aristide Colonna, Introduzione a Eliodoro, Le Etiopoche, UTET (Torino 2015, ed. orig. 1987), pp. 23-25.
[37] Ibid., p. 13.

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