Il classico culto solare dei soldatacci romani. |
Negli ultimi mesi, a causa della ricerca che sto compiendo, mi sono reso conto che la maggioranza delle persone (e persino moltissimi studiosi) ritengono che il culto del Sol Invictus introdotto dall'imperatore Aureliano nel 274 d.C. sia sostanzialmente lo stesso, magari in una veste un po' modificata, di quello portato a Roma da Elagabalo nel 219.
Vi propongo dunque in questa sede un po' di storia e qualche considerazione sulla religione di El Gabal, il dio solare di Emesa che non solo non nacque il 25 dicembre, ma non c'entrava davvero nulla col Sol Invictus vero e proprio, che resta Mitra, il dio che muove l'asse del cielo.
I. Il dio dei Severi.
Com’è
noto, in seguito a una predizione, l’imperatore Settimio Severo si recò a
Emesa, grande città siriana e cliente di Roma, per cercare moglie; il sacerdote
del dio locale El Gabal, un certo Gaio Giulio Bassiano, gli presentò le sue
figlie, Giulia Mesa e Giulia Domna, e il sovrano scelse per sé la seconda. Da
quel momento in poi, per tutta la dinastia dei Severi, l’influenza del culto
siriano si fece sempre molto sentire anche nella capitale, culminano con
l’acclamazione del giovane Sesto Vario Avito Bassiano.
A
differenza dei suoi predecessori, Elagabalo (così venne chiamato dai posteri,
in relazione al nome del suo dio) era stato cresciuto per essere un sacerdote,
non un imperatore, e fu sostanzialmente per questo che i Romani non compresero
mai i suoi modi di fare, ascrivendogli addirittura sacrifici umani[1].
Altri invece, come Cassio Dione, gli rimproveravano il non aver rispettato
delle priorità religiose: “Il reato
consistette non tanto nell’aver introdotto un dio straniero a Roma o l’averlo
esaltato in modi assai strani, ma nell’averlo onorato persino prima di Giove
stesso e l’essersi votato come suo sacerdote…”[2]
E questo è probabilmente uno degli aspetti più interessanti della religiosità
del giovane sovrano, che di fatto esaltava il proprio dio come supremo fra
tutti, arrivando a considerare gli altri come suoi servitori[3].
Non solo infatti “traslò a Roma il simulacro
del dio e gli fece fare degli altari nelle stanze del palazzo”[4],
ma edificò un intero tempio a Roma, su quello precedente dedicato a Orco[5], ed
espanse il suo culto anche in patria, erigendone uno sul monte Tauro[6],
e un altro ancora a Nicomedia[7].
Questo
esclusivismo fanatico aveva dei risvolti anche più immediati (e traumatici) per
la religione romana: “Ma il nuovo imperatore,
appena entrato in Roma [luglio 219],
prese a trascurare gli affari di governo per dedicarsi al culto del suo dio: cominciò
col fargli erigere sul colle Palatino, nei pressi della reggia, un tempio, ove
intendeva far trasferire la statua di Cibele, il fuoco sacro di Vesta, il
Palladio, gli scudi ancili e tutti gli oggetti di culto dei Romani, in modo che
a Roma fosse venerato soltanto Eliogabalo. Diceva inoltre che in quel tempio si
sarebbero dovuti trasferire i culti delle religioni dei Giudei, di quella dei
Samaritani e dei Cristiani, perché i sacerdoti di Eliogabalo divenissero i
depositari dei misteri di ogni religione.”[8]
Dovrebbe esserci almeno una parte di verità in queste affermazioni, in quanto
anche Erodiano dice che, una volta morto l’imperatore, le immagini sacre che
aveva fatto rimuovere vennero rimesse al loro posto nei templi[9].
II. Caratteristiche del culto.
Ma
chi era El Gabal? Il suo nome dovrebbe significare semplicemente “dio della
montagna”[10],
e l’unico autore a darci una definizione un minimo precisa è Lampridio, che lo
definisce “una divinità variamente
identificata ora con Giove ora con Sole”[11]:
ciò deriva probabilmente dal fatto che sugli aurei imperiali veniva raffigurato
sulla quadriga, e con la scritta “Sanct
Deo Soli Elagabal”, dunque una dimensione solare è indubitabile;
l’accostamento a Giove dovrebbe invece dipendere dalla suddetta preminenza del
dio rispetto a tutti gli altri, come accadeva a Emesa e come Elagabalo avrebbe
voluto fare in tutto l’impero. Doveva trattarsi di un baal locale, probabilmente Adad, che presiedeva al tempo
atmosferico e veniva adorato sulle alture, e che solo in seguito venne
solarizzato[12],
forse per un’identificazione col dio solare Shamash. Era comunque una divinità
incarnata da un betilo, un sasso meteorico, cosa tipica delle religioni
semitiche, tanto che la pietra venne poi anche raffigurata sulle monete
dell’usurpatore Uranio Antonino.
È
interessante analizzare quel poco che sappiamo del suo culto, che presenta
caratteristiche appunto molto semitiche, e che sicuramente creava straniamento
e ribrezzo nei Romani. L’imperatore si asteneva dalla carne di maiale,
considerata impura, ed era circonciso, requisito necessario per servire il dio
(tanto che dovettero essere circoncisi anche tutti coloro che lo assistevano
nel culto)[13];
sacrificava grandi quantità di vino, e sangue di tori e pecore, mentre le
interiora delle vittime venivano poi chiuse in vasi d’oro e distribuite a
senatori e cavalieri, evidentemente come oggetti benedetti.[14] Si
vestiva non da sacerdote romano, ma con gli abiti di seta e i gioielli tipici
della Siria, cantava litanie al suo dio, per lui danzava al suono di tamburi e
cembali, e non doveva essere estraneo alla confezione di amuleti[15].
Sulle vicende più strane e scabrose, come i sacrifici di fanciulli e gli
animali nutriti a genitali umani[16],
non c’è da sbilanciarsi, per quanto è molto probabile si tratti di errate
interpretazioni di cerimonie reali[17].
Uno
degli aspetti più interessanti sono però i matrimoni tra El Gabal e altre dee,
cosa impensabile nel culto ufficiale, ma tipiche dei popoli semitici: ciò
dipendeva dal fatto che molti baal
delle montagne erano di fatto personificati nei betili[18],
e dunque avevano una fisicità maggiore rispetto alle sculture dei templi greci
e romani, che invece venivano commissionate ad artisti. Il fatto che le pietre
meteoriche non fossero create dall’uomo le rendeva, nella mentalità orientale,
più sacre e in qualche modo “vive”: è probabilmente per questo che l’imperatore
scelse come prima sposa per El Gabal la dea raffigurata nel Palladio, che il
mito voleva essere precipitato direttamente dal cielo[19].
La sua ricerca di “betili femminili” non si fermò ovviamente qui, forse perché
il dio poteva essere poligamico, altra cosa tipicamente semitica: fece portare
da Cartagine il simulacro di Afrodite Urania (ovvero Tanit)[20],
tentò di impossessarsi delle pietre sacre di Artemide a Laodicea (che la
tradizione voleva essere state collocate lì da Oreste)[21],
si fece iniziare al culto di Cibele per mettere le mani sulla pietra che i
galli portavano in processione[22],
e allo stesso modo fece con il culto di un’altra dea siriana, Salambo[23],
identificata dai Romani con Venere e che probabilmente aveva anch’essa un
betilo[24].
La
più grande celebrazione del dio restava però la sfilata tenuta durante il
solstizio d’estate, così descritta da Erodiano: “Elevò quindi ne’ sobborghi un tempio di gran magnificenza e grandezza,
ove ogni capo d’anno sul venir dell’estate vi conducea il suo dio; e, dando
corse, commedie, pranzi, e festini, credea di far cosa graziosa a’ romani. Trasportavalo
egli stesso sopra un cocchio tutto in oro e preziosissime gemme, tirato da sei
giganteschi e candidissimi cavalli, forniti di finimenti varj e ricchissimi.
Non era lecito a persona di montare in sul cocchio, ma tutti erano all’intorno
del dio, come se da per solo lo guidasse. Antonino, reggendo i freni de’
cavalli, si tenea volto alla immagine di lui, e cogli occhi fissi in lei,
guidava il cocchio all’indietro, e così procedea lungo tutta la via. La quale,
acciò egli non vi sdrucciolasse o cadesse, facea tutta quanta spargere di
quell’arena ch’è color d’oro, con soldati all’intorno schierati, acciò in caso
di caduta lo reggessero. Era la via tutta zeppa di popolo, che correa avanti
indietro con fiaccole, e spargea fiori e corone. Venivano appresso le immagini
di tutti gl’iddii, e le più ricche e superbe suppellettili che insignivano i
templi e l’imperiale palazzo: gli faceano similmente corteggio i cavalieri e
tutto l’esercito. Condottolo in tal guisa e situatolo nel tempio, gli
celebrava: e poi, salendo sopra una grande ed altissima torre a questo fine
edificata, gittava giù al popolo vasi d’oro e d’argento, vesti di varj drappi,
animali di ogni spezie, eccetto i porci, de’ quali si astenea per legge fenicia.”[25]
III. Invictus ante litteram?
Nei
tempi passati, diversi studiosi hanno voluto accostare El Gabal al Sol Invictus:
per alcuni, come lo Xella, tra il dio di Elagabalo e quello di Aureliano non
esiste alcuna differenza[26],
mentre altri, come l’Halsberghe, dicono che “l’influenza
di Sol Invictus Elagabal, il più importante dio-sole siriano, deve aver
grandemente contribuito alla preminenza dell’adorazione del sole dall’inizio
del III secolo d.C. […] Il culto del
Sol Invictus siriano era perciò sufficientemente ben conosciuto per acquisire
degli zelanti aderenti molto lontani dai suoi confini originari.”[27]
E tuttavia, ciò stride molto con le testimonianze di cui sopra, che continuano
a proporre El Gabal come un dio straniero e dal culto incomprensibile, se non
nocivo. Non solo, ma la sua collocazione geografica prettamente siriana non lo
renderebbe, a logica, appetibile a genti al di fuori di quel contesto; anche
tutte le attribuzioni filosofiche e teologiche del sole come nemico delle
tenebre e garante della legge (esposte ad esempio dal neoplatonismo) non
sembrano avere alcun ruolo nel culto di El Gabal. Anche perché, una volta morto
Elagabalo, non abbiamo testimonianza del culto della divinità in epoca
successiva al suo regno al di fuori di Emesa, come anche in nessuno scritto
filosofico. In effetti, a pensarci, la condotta dissoluta e fanatica
dell’imperatore non doveva aver fatto buona pubblicità al suo dio.
L’epiteto
Invictus, parimenti, negli scritti letterari non compare mai legato a El Gabal,
nonostante venga spesso accostato a lui dagli studiosi. Il suo uso è più
antico, e come visto nel capitolo precedente lo ritroviamo molto nell’epigrafia
mitraica: per fare un esempio, la stele milanese di Publio Acilio Pisoniano,
datata al II secolo, riporta la dicitura D. S. I. M. (Deo Soli Invicto Mithra)[28],
ben prima dell’arrivo del dio di Emesa nell’orizzonte romano. Questo sta a
significare che non fu El Gabal a creare presso la gente comune (e in particolar
modo i soldati) una devozione alla divinità solare, bensì Mitra, il cui culto
misterico era teologicamente più complesso di quello del dio semitico, che
restava comunque una divinità locale, per quanto importante. E in effetti,
contrariamente a quanto vorrebbe l’Halbersghe, non sembrano esistere
testimonianze epigrafiche di un Sol
Invictus Elagabal al di fuori della titolatura di Elagabalo stesso[29],
perché Sol Invictus e Sol Elagabal sono sempre ben distinti, a
riprova del fatto che evidentemente, per i Romani al di fuori della ristretta
cerchia dei Severi, i due dèi non erano lo stesso.
Occorre
ricordare anche una cosa importante, ovvero che fino all’epoca dei Severi Emesa
fu la capitale di un regno cliente, non formalmente annesso all’impero (se non
appunto con Elagabalo): che senso avrebbe avuto allora, per un soldato romano,
convertirsi a una religione etnica straniera che non solo non sembrava avere
particolari promesse escatologiche, ma non aveva nemmeno dei misteri a cui
iniziarsi[30],
e prevedeva altresì degli obblighi che non sappiamo se siano stati praticati,
come la circoncisione e l’astenersi dal maiale? Lo stesso fatto che ogni città
siriana avesse il suo baal locale,
con attribuzione solare o meno, rende assai difficile e caotico tracciare delle
linee universali a cui gli stessi soldati romani avrebbero potuto rifarsi per
creare un culto da diffondere: il dio-sole di Emesa non era quello (anzi, quelli)
di Palmira, come vedremo, ed era altresì concepito come diverso anche rispetto
a quello di Antiochia e di altre città. Non è dunque un caso se già all’epoca
di Settimio Severo El Gabal veniva chiamato “deo
soli patrio Elagabalo”[31].
Infine,
sempre l’Halsberghe, portando avanti la sua teoria sulla preminenza del culto
emesiano su quello mitraico, asserisce che difficilmente i Romani avrebbero
potuto aderire al mitraismo fin dalle origini, in quanto esso prevedeva
iniziazioni segrete in luoghi sotterranei, ed essi erano invece abituati ai
culti ufficiali, come appunto era quello di El Gabal[32].
Ma, ragionando in questo modo, nessun culto misterico avrebbe mai dovuto
attecchire nel mondo romano, incluso il cristianesimo. Possiamo dunque
affermare con buona certezza che, nell’ascesa del culto solare nell’Impero
Romano, quella di dio di Emesa fu solo una parentesi collaterale e di poca
importanza.
IV. Le Etiopiche di Eliodoro.
L’unico
altro personaggio di una certa rilevanza proveniente dalla città siriana, al di
là della stirpe dei Severi, è un certo Eliodoro, autore delle Etiopiche, un romanzo d’amore e
d’avventura ambientato tra l’Egitto e l’Etiopia. Di lui comunque sappiamo
pochissimo, poiché l’unica cosa che dice di sé è che il romanzo in questione “lo ha composto un fenicio di Emesa, della
stirpe di Elio, Eliodoro, figlio di Teodosio.”[33] Grazie ad altri autori
scopriamo qualcosa di più: Socrate Scolastico dice che “appresi quindi, allorché giunsi in Tessaglia […] [di] Eliodoro, divenuto vescovo di Tricca in
quella regione, del quale si tramanda un’opera, una storia d’amore, che egli
compose quando era giovane, e a cui assegnò il titolo di Etiopiche.”[34] Secondo una tradizione
medievale (non sappiamo quanto autorevole), per quello stesso romanzo egli
perse la carica, perché il sinodo locale gli impose di bruciare la sua opera
(in quanto fonte di erotismo), oppure di lasciare il vescovado, cosa che
preferì invece fare[35]. Se il discendere dalla
“stirpe di Elio” implica l’appartenenza a una dinastia sacerdotale legata a El
Gabal, dovrebbe allora trattarsi del figlio del gran sacerdote dell’epoca, che
fece poi carriera nei ranghi ecclesiastici.
La
datazione dell’opera (e quindi di Eliodoro stesso) è piuttosto controversa, ma
il Colonna propone, a mio avviso con buona certezza, di collocarlo sul finire
del IV secolo, all’epoca di Graziano e Teodosio I: ciò sarebbe dimostrato,
oltre che dall’aver intrapreso la carriera ecclesiastica, soprattutto dalle
esplicite citazioni di alcune orazioni di Giuliano riguardanti l’assedio di
Nisibi, i cui particolari molto specifici l’autore avrebbe ripreso per narrare
dell’assedio del re etiope nel suo romanzo[36], ma le stesse riprese
delle opere di Filostrato lo porrebbero comunque in epoca successiva ai Severi[37].
Una
datazione tardoantica spiegherebbe soprattutto come mai il dio che più spesso
compare nel romanzo, Apollo-Elio, non abbia alcuna caratteristica particolare
che lo renda riconoscibile come El Gabal, per quanto l’autore lo abbia
evidentemente messo in posizione preminente per devozione personale (o comunque
famigliare); anzi, egli compare proprio come il dio di Delfi, ben lontano dal
betile semitico, e immerso in una prospettiva assai più classicheggiante.
[1]
Cassio Dione LXXX 11.
[2]
Ibid. 8
[3]
HA Eliogabalo VII; ciò non è affatto
estraneo alla mentalità religiosa semitica, che vedeva la preminenza del
proprio dio locale su quello degli altri popoli (si veda ad esempio, per gli
Ebrei, Mi. 4,5, Sal. 82, 1, Sal. 95, 3 e Sal. 96, 4-5).
[4]
Vittore, De Caesaribus XXIII, 1.
[5]
HA Eliogabalo I.
[6]
HA Caracalla XI: “…il figlio dello stesso Caracalla, Eliogabalo Antonino, fece erigere
un santuario dedicato a sé stesso o (la circostanza non è chiara) a Giove Sirio
o a Sole.”
[7]
Halsberghe p. 65.
[8] HA Eliogabalo III.
[9]
Erodiano VI 1, 3.
[10]
Lenormant propone invece di identificare El Gabal con l’antico dio caldeo del
fuoco, Gibil, mentre Fuller e Tiele farebbero derivare il nome dalla parola gebal (formato, finito); cfr.
Halsberghe, op. cit. pp. 62-63.
[11]
HA Eliogabalo I e XVII.
[12]
P. Xella, Religione e religioni in
Siria-Palestina. Dall’antico bronzo all’epoca romana, Carocci (Urbino
2007), p. 92.
[13]
Cassio Dione LXXX 8.
[14]
Erodiano V 5, 8-9.
[15]
Cassio Dione LXXX 11.
[16]
Ibid., 12.
[17]
Si veda in merito Attilio
Mastrocinque, Heliogabalus,
Saturnus, and Hercules, in Divinizzazione, culto del sovrano e apoteosi
tra Antichità e Medioevo, a cura
di Tommaso Gnoli e Federicomaria Muccioli, Boninia University Press (Rastignano
2014), pp. 321-329.
[18]
Il caso più famoso resta ovviamente la Pietra Nera alla Mecca, ma questa
mentalità si trasferì per certi versi anche nelle icone cristiane, che prima
del periodo iconoclasta venivano trattate come fossero esseri viventi (si veda
ad esempio Hans Belting, Il culto delle
immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo, Carocci).
[19]
Si veda a mo’ di esempio Apollodoro, Biblioteca
III 12.
[20]
Erodiano V 6, 3-4; Cassio Dione LXXX 12.
[21]
HA Eliogabalo VIII.
[22]
Ibid.; Epit. Caes. 157; la
presenza di un betilo di Cibele è testimoniata ad esempio da Prudenzio, Il libro delle corone 10, 154-60.
[23]
Ibid.
[24]
Il Gualerzi propone invece di
interpretare (forse po’ pretestuosamente) questo processo di sposalizi con una
ricerca, da parte dell’imperatore, di un’androginia delle dee; si veda Saverio
Gualerzi, Né uomo, né donna, né
dio, né dea. Ruolo sessuale e ruolo religioso dell’imperatore Elagabalo, Pàtron (Bologna 2005).
[25]
Erodiano V 6, 7-9.
[26]
P. Xella, op. cit.
[27]
Halsberghe p. 36; traduzione dell’Autore.
[28]
Civico Museo Archeologico di Milano, Antiche
pietre di Mediolanum (Milano 2011), p. 117.
[29]
Si vedano ad esempio CIL X, 5827; CIL XI 3774; CIL III 1997, tutti elenchi di titoli dell’imperatore Elagabalo: si
potrebbe quasi supporre che egli volesse creare un sincretismo con Mitra, ma
che il progetto restò embrionale.
[30]
L’Halsberghe sembra dare per scontato che anche El Gabal avesse dei misteri
(cfr. p. 77) e una teologia salvifica (p. 80), ma di fatto non si evince nulla
del genere dalle fonti letterarie o epigrafiche.
[31]
Anné épigraphique (1910), n. 133.
[32]
Halsberghe p. 118.
[33]
Eliodoro, Etiopiche X, 41.
[34]
Socrate Scolastico, Storia ecclesiastica
V, 22.
[35]
Niceforo Callisto Xantopulo, Storia
ecclesiastica XII, 34.
[36]
Aristide Colonna, Introduzione a
Eliodoro, Le Etiopoche, UTET (Torino
2015, ed. orig. 1987), pp. 23-25.
[37]
Ibid., p. 13.
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