“Il dio vide che il
santo era buono per lui, e si alleò col santo;
è difficile da
capire: il dio si è fuso col santo,
ma allo stesso tempo
rimangono due figure distinte.”
(la bruja Marisa, ne Il voodoo dominicano)
Mi
è capitato più volte in passato di venire tacciato come “finto pagano” perché,
a differenza di tanti altri, mi piace sempre molto andare in chiesa.
Chiariamoci:
andare in chiesa non significa andarci durante la messa o il rosario, anzi,
quella è una cosa che in genere evito. Intendo entrare in una chiesa per
visitarla, guardare le opere d’arte, ma anche e soprattutto per fare gesti di
devozione se qualche altare mi colpisce particolarmente.
Questo
significa essere cristiano? Probabilmente, a un occhio estraneo (e per molti
neopagani), sì.
La
presa di posizione dei miei correligionari (o almeno della stragrande
maggioranza di essi) è quella di evitare ogni contatto col cristianesimo, se non
essergli apertamente ostile. Spesso dietro a simili atteggiamenti ci sono delle
specifiche motivazioni ideologiche o personali, che sono sempre più o meno le
stesse: il prete del paese dove sono cresciuto era uno stronzo, la morale
cristiana mi impedisce di essere libero, i Cristiani hanno sterminato i Pagani
senza pietà nei secoli passati, e così via.
È
logico che condivido tutte queste motivazioni, persino la prima, sulla fiducia.
Ma ciò non inficia in alcun modo il valore di ciò che il cristianesimo ha
prodotto e che il paganesimo può fare suo… O forse che il paganesimo ha
prodotto e il cristianesimo non si è accorto di aver assorbito.
Mi
riferisco, credo sia chiaro, al culto dei santi.
La fine dei culti tradizionali: davvero?
È
pensiero comune che nell’Impero Romano la maggioranza del paganesimo si sia
estinto tra il IV e il V secolo, con strascichi anche nei periodi successivi:
le storie di Giuliano e di Ipazia sono, credo, sulla bocca di tutti i Neopagani
con un minimo di cultura. Ovviamente la faccenda è più complessa, e in un
vecchio articolo che trovate QUI avevo anche fatto notare come questa religione
(o per meglio dire insieme di religioni) si fosse protratta senza problemi fino
al pieno Medioevo e, in ambito colto, al Rinascimento.
Il
punto però è che tutto questo è vero solo in parte: un conto è parlare di
“culto pagano”, un altro è parlare di “pensiero pagano”, ovverosia dell’interpretare
la realtà attraverso idee e metodi propri del paganesimo. E non mi riferisco
qui alle solite tiritere sulla persistenza degli Olimpici nelle opere
artistiche e letterarie medievali, ma a qualcosa di più sottile e al contempo
più semplice, se vogliamo involontario e ingenuo.
Si
è detto spesso che gli dèi, sconfitti dalla nuova religione, hanno avuto solo
due destini: essere trasformati in santi o in demoni, ma ciò non è vero, o
meglio, è vero solo in determinati casi (come la solita santa Brigida e il
solito Pan). In realtà, molto più spesso, il dio veniva concettualmente sostituito dal santo, ma in una maniera
che non era minimamente controllabile dalla Chiesa di Roma. Per assurdo, quando
in Salento si facevano le processioni per far piovere, i Romani la facevano a
Giove, poi i Cristiani a san Pietro: ma san Pietro non è identificabile con
Giove, né mai un qualche vescovo ha attuato il progetto di sostituire il santo
al dio. Ciò si deve esclusivamente alla devozione, all’immaginazione e alla
logica del popolo.
Faccio
qualche esempio chiarificatore. Nel Milanese, san Sebastiano era, almeno fino
al Cinquecento, colui che proteggeva gli animali dalle malattie; va da sé che,
per la Chiesa ufficiale dell’epoca, egli non aveva nessuna potestà del genere,
dunque da dove arrivava l’attribuzione? Molto semplicemente dall’iconografia e
dalla lingua: le ferite delle frecce ricordavano alla gente le piaghe delle
malattie, e il suo nome in dialetto, Bastiàn, ricorda appunto le bestie: da qui
il santo protettore degli animali invocato contro le epidemie. E un caso
analogo lo abbiamo con santa Cristina in Romagna, che diventa la protettrice
del pollame (la “cresta”), con sant’Antonio che diventa protettore degli
animali perché ha un maiale (in realtà, da agiografia, rappresentazione del
Diavolo), o con san Paolo nel già citato Salento, che difende
dagli animali velenosi (forse per l’episodio in cui sbarcò a Malta e distrusse
i serpenti che la infestavano).
Questo
è un modo di pensare non cristiano, ma assolutamente pagano, l’interpretare la
potestà di un’entità spirituale non in base a ciò che dice la dottrina
ufficiale, ma attraverso il valore del nome e del simbolo. Del resto la maggior
parte degli dèi romani avevano “nomi parlanti”: basti pensare a Furina, la dea
dei ladri (fures), a Robigo, il dio
della ruggine (robigus), a Giano, il
dio dei passaggi (ianua, porta), e
così via. Cambiavano le divinità, ma non il modo di pensare e di fare degli
uomini.
Dunque
quando si è realmente estinto il paganesimo?
La
risposta corretta a questo punto dovrebbe essere “più o meno tra XVI e XVII
secolo”, l’epoca della Controriforma, quando la Chiesa ha ripreso le redini di
tutta la faccenda, con un ampio processo di evangelizzazione delle sue stesse
diocesi e di estirpazione delle superstizioni. E va da sé che con questo
termine si intendevano tutte quelle pratiche che non rientravano nel canone
cattolico, ma che appartenevano al popolo laico (nobili, borghesi e contadini
indifferentemente, molto spesso anche al basso clero): esse erano di fatto la
vera religiosità dell’epoca, o delle epoche passate, e che ben poco aveva a che
spartire col cristianesimo dei libri, oggi come allora.
Carlo
Borromeo, poco prima del 1579, fece indagare tutti i suoi vicari foranei
affinché gli riportassero le varie pratiche popolari della loro pieve, di modo
da poterle raccogliere, catalogare e si potesse infine decidere come estirparle:
ne è nato un breve elenco di pratiche della diocesi milanese che è piuttosto
impressionante. Per fare alcuni esempi, al di là dei normali casi di segnatura,
a Gorgonzola per curare i malanni ci si bagnava nell’acqua corrente recitando alcuni
Pater Noster e Ave Maria; a Settala non si mangiavano determinati alimenti nei
giorni di san Biagio (per proteggere la gola), di santa Agata (per il seno) e
di santa Apollonia (per i denti); a Trenno le ostetriche erano solite dire
parole magiche nelle quali si nominava il latte della Madonna prima di compiere
il loro lavoro; a Darfo si diceva un’orazione a san Giobbe contro i vermi; a
Monza si recitavano cento Pater Noster su alcune pietre usate poi per curare i
mali, in relazione alla storia di santo Stefano; la stessa pianta di sambuco,
usata per svariate operazioni magiche, veniva definita come “pianta di san
Bucco”, un santo in realtà inesistente nel canone cattolico. E si potrebbe
continuare.
Accanto
a queste pratiche ne esistevano un’infinità di matrice visibilmente più pagana:
accendere un falò e farci urinare sopra una donna per far piovere, incidere
segni su un anello per far innamorare, raccogliere erbe per ottenere
determinati effetti, e così via. Il tutto era però spesso accompagnato da
preghiere della liturgia cristiana, in genere il Pater Noster e l’Ave Maria, e
a volte anche (paradossalmente) il Credo; gli stessi oggetti della chiesa o le
bolle dei frati diventavano strumenti utilizzabili: queste ultime venivano
portate al collo contro il mal di testa (a Barlassina), l’ostensorio veniva
portato sul campanile per scongiurare le tempeste imminenti (ad Appiano
Gentile), e in generale affilare gli strumenti da lavoro sulle colonne o far
asciugare il grano sul pavimento della chiesa era una pratica comune, che in
qualche modo “consacrava” gli oggetti e i cibi. Di nuovo, nulla a che fare col cristianesimo
come lo intendiamo noi.
A
questo punto pare scontato, almeno a me, parlare della relazione tra il culto
dei santi e quello delle divinità afroamericane, i loa e gli orisha: in quel
contesto essi sono nati proprio in relazione al cattolicesimo, molto spesso per
pura iconografia che gli schiavi potevano vedere nelle chiese o, più spesso,
sulle immaginette. Per questo sant’Ulrico, rappresentato col pesce, diventa il
dio del mare Agwé, o san Sebastiano legato all’albero il dio della foresta e
dell’erboristeria Gran Bois; san Gerardo Maiella è rappresentato con un
teschio, e tanto basta perché diventi un aspetto di Baron Samedi, il signore
della morte. Ma, come mi è stato fatto notare di recente, la maggioranza dei
Neopagani non conosce i sincretismi in questione, che restano di nicchia o
relegati al loro valore magico, senza una reale comprensione del pensiero che
c’è dietro.
In
effetti, i Neopagani preferiscono divinità del mondo antico, e anche
giustamente: si votano a Odino, Atena, Bastet o Mitra, in vista di loro
presunte origini, della semplice preferenza intellettuale o perché si sentono
spiritualmente affini. Ed è sempre nel “mondo antico”, per così dire, che il
loro pensiero resta relegato, dove Odino può essere Mercurio o Ermes o Thoth, e
la cosa finisce lì. Credo che la maggior parte di loro non penserebbe mai e poi
mai di poter entrare in una chiesa e accendere un cero davanti all’immagine di
san Nicola o san Michele, rivolgendo però una silenziosa preghiera al padre
degli dèi norreni. È questo è, dal mio punto di vista, una grande limitazione.
È
una limitazione perché implica fare in modo che il pensiero pagano, quello
religiosamente più aperto e accogliente, escluda da sé un’altra
rappresentazione del Divino che, come abbiamo visto, non è realmente nata né si
è sviluppata per volere della Chiesa burocratica, statalista e catechetica: le
cappelle ai lati delle strade non sono state costruite dai cardinali o dai
teologi vaticani e, come visto prima, nemmeno da gente che intendeva i santi
allo stesso modo in cui li intendevano (e li intendono) loro. Eppure il moderno
paganesimo non ha alcuna confidenza col loro culto, anzi, vi è spesso un’aperta
ostilità, che posso capire nel caso delle devozioni contemporanee palesemente
massmediatiche e truffaldine, ma non certo per quelle antiche.
Da dio a santo e poi di nuovo a dio.
Vorrei
a questo punto teorizzare l’usufrutto del culto dei santi all’interno del
neopaganesimo.
Occorre
anzitutto dire che, per noi Italiani, questa cosa è fattibile soprattutto in
vista del cattolicesimo imperante il quale, almeno per una volta, gioca a
nostro favore: in generale, sarebbe più difficile fare una cosa del genere
(anzi, impossibile) nei Paesi a maggioranza protestante, dove simili
manifestazioni di spiritualità sono state abolite sin dal tempo di Lutero e
Calvino, in quanto ritenute (giustamente, diremmo noi oggi) una
“paganizzazione” del cristianesimo. Ma noi in Italia, come anche in Francia,
Spagna, Irlanda, Grecia, Russia e via dicendo, abbiamo una moltitudine di santi
con un’ancor più vasta moltitudine di immagini. E ovviamete, come detto prima,
non parlo della Madonna di Fatima o di Padre Pio.
Mi
è capitato più volte di pensare che esistono fondamentalmente due tipologie di
neopagani: gli uomini-bosco e gli uomini-caverna. I primi sono quelli che
trovano la piena realizzazione della loro spiritualità immersi nella natura,
dove possono parlare con gli alberi, sentire il canto degli uccelli, accarezzare
le acque di un ruscello e così via, sentendosi invece oppressi nel chiuso di
un edificio; viceversa, i secondi sono quelli che si realizzano nel
raccoglimento del silenzio e dell’incenso, davanti a immagini fatte dall’uomo
che parlano allo spirito con la loro simbologia e la loro storia, trovando
invece distraente il profluvio di rumori della natura incontaminata. Certo, non
esistono uomini-bosco e uomini-caverna che siano così al 100%, ma com’è logico
qui stiamo parlando di tendenze più o meno accentuate, in base anche alle
occasioni. La riscoperta del culto dei santi è per i neopagani che sono
tendenzialmente uomini-caverna, va da sé.
Quindi,
se non preferite il bosco e l’altarino domestico è a volte insufficiente, la
chiesa è a mio avviso la scelta più indicata: del resto, essa è piena di
immagini pronte a essere interpretate, l’atmosfera è la stessa di un tempio (o
meglio, è uno dei pochi edifici del mondo di oggi in cui si può respirare, in
genere, un’aria sacrale), e si può camminare sullo stesso suolo dove migliaia
di uomini hanno camminato prima di noi. Uomini, come detto, che andando a
ritroso nel tempo non intendevano i santi come i loro correligionari attuali;
se poi avete la fortuna di potervi recare in una chiesa notoriamente costruita
sopra un tempio pagano, il senso di sacro sarà ancora più forte, andando
indietro di duemila anni almeno. Poi è ovvio, ci vuole una certa intimità con
uno specifico santo o con una specifica chiesa per “sentire” qualcosa: ma è
normale, funzionerebbe così anche con un dio o un tempio pagano vero e proprio.
Mi
rendo poi conto che nell’Italia Settentrionale è piuttosto facile praticare il
neopaganesimo alla maniera per così dire “tradizionale”, ma altrove so non
esserlo: ricordo che, solo qualche anno fa, Francesco Dimitri scriveva in un
suo articolo che nella sua città d’origine, in Salento, l’unica religione
accettata (nelle scuole come nella cultura in generale) era quella cattolica
romana, il che è paradossale considerata l’esistenza in loco del tarantismo. Mancavano,
in sostanza, tutte quelle associazioni, quelle fiere e quegli eventi a tema
pagano che sono invece sempre più numerosi nell’Italia del nord e del centro. Il
praticare in chiesa diventerebbe in questo senso anche un perfetto escamotage
per vivere la propria religione senza troppo dare nell’occhio e creare problemi
in una società tanto retrograda che, si spera, potrà solo diventare più aperta
col passare degli anni e l’estinguersi delle vecchie generazioni reazionarie.
Esiste
poi, immagino, una presa di posizione più politica nel non voler usufruire
delle chiese come luoghi di culto: accendendo ceri, o facendo offerte in
generale, si finanzia un’istituzione che è per antonomasia nemica del
paganesimo, vecchio e nuovo indistinatamente. Questo è di base vero, ma occorre
fare secondo me un distinguo importante: se non volete “aiutare il Vaticano”
con un’offerta per la candela, date una moneta al primo mendicante che trovate,
o offrite qualcosa di diverso dal denaro, ha poca importanza. In genere però,
almeno per quanto ne so, la maggioranza delle offerte date in una specifica
chiesa servono al mantenimento fisico di quella chiesa stessa, dunque del
tempio che avete appena visitato. Sono cose come l’8 per mille, i libri di
padre Amorth, i bicchieri con la faccia di papa Francesco e i rosari di Padre
Pio a dare al Vaticano la stragrande maggioranza dei suoi introiti (per lo meno
quelli leciti).
Detto
questo, mi sento di fare una precisazione: non sto qui dicendo che occorrerebbe
sostituire il proprio culto (molto spesso) domestico con quello per così dire “templare”
o “ecclesiastico”. Sto invece dicendo che la pratica in una chiesa può essere
un’eventuale integrazione dello stesso, un modo sensato di sfruttare qualcosa
che la cultura cristiana ha da offrire, per quanto a sua insaputa. Per fare un
esempio, tornando agli orisha di cui
sopra, in San Bernardino alle Ossa di Milano, su un altare laterale sono state
poste le statuette di due santi, ovvero la Madonna e san Sebastiano, di fattura
palesemente latinoamericana; e se è vero che la vicina chiesa di Santo Stefano
Maggiore è attualmente della comunità ecuadoregna, sono abbastanza sicuro che
quella particolare scelta non sia strettamente correlata alla cosa, o meglio, non
nel senso cristiano del termine.
Alla
stessa maniera le chiese sono spesso e volentieri, e a opera degli stessi
cristiani, ricettacoli di attività che noi definiremmo magica: non è infatti
raro, nemmeno al giorno d’oggi, che la gente riempia boccette nelle
acquasantiere, porti dell’olio o altri alimenti dal prete perché siano
benedetti, si tenga l’ostia in mano dopo averla presa durante l’eucarestia per
portarsela a casa, e via dicendo. Non saprei dire se esiste ancora l’abitudine
di nascondere oggetti particolari sotto gli altari o in altre parti della
chiesa per ottenere qualcosa, ma direi che è presumibile. E ovviamente esistono
anche santi che sono considerati veri e propri maghi: nel mondo di lingua
spagnola e portoghese è la controversa figura di san Cipriano a detenere questo
primato, mentre in Italia egli appare solo in alcune sporadiche occasioni (ad
esempio in Sardegna), perché è san Giovanni Battista a essere associato a
questo genere di pratiche (basti pensare a tutte le tradizioni della sua notte,
il 24 giugno).
Per
tirare le somme, sono personalmente convinto che le caratteristiche cultuali
del paganesimo siano due: esso inventa sempre cose nuove (in quanto massima
espressione di teologia dinamica), ma al tempo stesso usa ciò che c’era prima
(in quanto massima espressione di accoglienza intellettuale). Dunque, in questo
modo, i santi stessi diventano espressioni alternative delle antiche divinità,
anche declinate in maniera più nuova rispetto al passato, più adatte al
continuum storico: san Giacomo e la Madonna non sono, in genere, santi legati
alla magia, ma se da qualche parte le loro chiese sorgono davanti a un
importante crocicchio, essi diventano espressioni di Kalfu ed Ecate, e a quel
punto anche questi dèi acquisiscono caratteristiche dei santi in questione, il
primo agendo sul benessere dei raccolti, la seconda proteggendo madri e bambini.
Si
potrebbe dunque dire che il culto dei santi, nato pagano e diventato cristiano,
torna in questo modo a essere nuovamente pagano.
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