venerdì 13 ottobre 2017

I tarocchi di Jodorowsky tra anacronismo e truffa



 
“Ciascun Arcano, essendo uno specchio e non una verità di per sé,
si tramuta in quello che tu ci vedi dentro.
Il Tarocco è un camaleonte.”
(Leonora Carrington)

Tempo fa, per prearare una lezione sull’argomento, ho iniziato a interessarmi di tarologia, ovvero lo studio storico-artistico dei tarocchi, oltre che ovviamente di cartomanzia, sempre dal punto di vista storico. Ho trovato alcuni libri e articoli molto interessanti sull’argomento, principalmente opera di studiosi come Giordano Berti e Andrea Vitali, e tuttavia mi sono reso conto di come ancora oggi, per lo meno in Italia, la reale storia dei tarocchi sia misconosciuta. Per dirne una, quando un amico ha trovato la pagina Facebook di una cartomante che pretendeva di spiegare le origini di queste carte, ascrivendole all’antico Egitto, le ha detto: “Pensavo che fossero nate nel XV secolo…”, al che lei ha semplicemente risposto: “No, la loro storia è ben diversa.” E nient’altro.
Non è mia intenzione parlare della reale storia dei tarocchi nel dettaglio, cosa che ho già fatto in breve e che potete trovare QUI. Questo articolo nasce perché, di recente, in alcune librerie milanesi c’è stato un exploit del libro di Alejandro Jodorowsky, La Via dei Tarocchi, scritto nel 2004 ma riedito più volte (e per chi non conoscesse il celeberrimo regista, fumettista e psicomago cileno, rimando ovviamente alla sua pagina Wikipedia). La cosa mi ha lasciato piuttosto basito perché, a mio avviso, la fama del suddetto in cartomanzia è per certi versi il sintomo che i tarocchi sono ancora legati a una mitologia ormai obsoleta e, oltre a ciò, ritengo che l’opera di Jodorowsky rasenti moltissimo la truffa. Ed è questo punto che vorrei approfondire.
Tutte le citazioni e i riferimenti, che non sto a segnare nel dettaglio, vengono dall’Introduzione al suddetto libro, edito da Feltrinelli.

Un nuovo mito delle origini (che si poteva fare meglio).

Un bellissimo meme da una delle mie pagine preferite...

Jodorowsky, nelle prime pagine, racconta tutto il percorso che lo ha portato a conoscere i tarocchi, e difatti il corpus del testo è costituito dall’interpretazione minuziosa della simbologia del mazzo da lui progettato e disegnato da Camoin. Cercherò di riassumere la vicenda.
Il Nostro si era appassionato ai tarocchi da giovane, parlando con personaggi come Leonora Carrington e André Breton; fu quest’ultimo a dirgli, osservando uno dei tanti mazzi della sua collezione: “Questo mazzo di carte è ridicolo. I simboli sono di un’ovvietà sconcertante. Non c’è nulla di profondo qui dentro. L’unico tarocco che abbia un senso è il Tarocco di Marsiglia. Quelle carte incuriosiscono, commuovono, ma non rivelano mai il loro intrinseco segreto.” E, dopo queste parole, il Nostro avrebbe compreso il suo errore e gettato al macero tutti i suoi mazzi, decidendo di interessarsi unicamente ai marsigliesi, in quanto versione per così dire migliore tra tutte quelle esistenti. Ma, anche in questo caso, si sarebbe ritrovato davanti a molte versioni diverse, senza riuscire a stabilire quale fosse realmente l’originale, optando quindi per quella di Paul Marteau del 1930, che nell’idea del loro creatore era una ricostruzione artisticamente e filologicamente accurata del mazzo originario.
Jodorowsky però, insoddisfatto anche da questa versione, avrebbe casualmente trovato un mazzo marsigliese presso un antiquario di Città del Messico, una versione che non ricordava di aver mai visto. Così, dopo varie peripezie, riuscì a entrarne in possesso, rimanendo sconcertato da alcuni particolari, e stabilendo dunque che si trattava non di un vecchio marsigliese, ma della prima versione in assoluto dei tarocchi in generale. Con l’amico e collaboratore Philippe Camoin avrebbe dunque restaurato il mazzo e scritto un libro su come interpretarlo, di fatto restituendo al mondo la vera cartomanzia, quella pura e incorrotta dall’opera altrui.
Non contento di tutto questo, il Nostro si premura anche di spiegare al lettore la vera origine dei tarocchi: essi sarebbero stati creati in Spagna o in Linguadoca intorno all’XI secolo, allorquando alcuni saggi ebrei, cristiani e musulmani decisero di depositare la conoscenza delle loro religioni in un mazzo di carte, per preservarla e tenerla nascosta dalle future persecuzioni; a riprova di questo, cita il fatto che “già nel 1337, negli statuti dell’abbazia di Saint-Victor di Marsiglia si proibisce ai religiosi il gioco delle carte”[1]. Si prodiga poi nello spiegare come, dopo il Medioevo, “gli autori li usavano per fare il proprio autoritratto e li infarcivano di superstizioni. Vi ho trovato credenze massoniche, taoiste, buddiste, cristiane, astrologiche, alchemiche, tantriche, sufi… [sic!] Come se il Tarocco fosse una domestica perennemente al servizio di una dottrina estranea.” E conclude con un’appassionata e minuziosa critica all’operato dei vari esoteristi del XIX e XX secolo, che avrebbero completamente snaturato il senso dei vari trionfi.
Parto da quest’ultimo punto: per quanto non sia mia intenzione fare una disamina minuziosa della cosa, mi pare doveroso confutare gli errori più grossolani del Nostro, ovverosia:
·      L’opera di Etteilla non ha assolutamente nulla a che fare con l’astrologia e la cabala (di cui l’autore probabilmente non sapeva nulla, essendo un semplice e misconosciuto cartomante).
·        Lévi è il primo a fare un accostamento alla cabala, ma il Nostro non sembra accorgersene, chiamando le lettere presenti sulle carte “alfabeto ebraico”; inoltre Lévi aveva storicamente (anche se forse involontariamente) ragione nel ritenere che i marsigliesi fossero essoterici, in quanto non erano stati pensati per la divinazione ma per il gioco.
·       Waite non scambia i numeri di Giustizia e Forza per farle coincidere con le sephirot della cabala (da cui Jodorowsky sembra ormai ossessionato), ma per l’astrologia: la Giustizia doveva essere la Bilancia e la Forza il Leone, ma con la numerazione classica sarebbe risultato il contrario.
·       Crowley non cambia l’ordine delle carte come sopra, il che è anzi una grande differenza rispetto agli altri cartomanti di scuola anglosassone.
·        Wirth non cambia gli abiti dei personaggi dei tarocchi (questa è forse la critica più gratuita).
Preciso che sto sorvolando su nomi scritti male e date di nascita e morte sbagliate. Tutto questo per dire che è normale che un esoterista diffami i suoi predecessori (tutti defunti, ma tant’è), ma trovo allibente il fatto che il suo lavoro serva in realtà a dimostrare come la sua conoscenza dell’argomento sia pressapochista[2].
Al di là di questo, torniamo al mito delle origini, i tarocchi marsigliesi medievali. Quando, nel XVIII secolo, Court de Gebelin si inventò il fatto che i tarocchi fossero di origine egizia, e contenessero tutto il sapere del mondo, persino lo studioso più informato non avrebbe potuto smentire questo fatto: la conoscenza dell’Egitto, prima della conquista napoleonica, era molto sommaria e veniva per lo più dai classici. Di fatto, si era creato un mito delle origini, ovverosia una narrazione che non aveva un reale fondamento storico, ma affondava le sue radici nel tempo del mito, quando gli dèi camminavano sulla terra. Per l’epoca, era un’ottima storia, e infatti è perdurata nel tempo.
Tuttavia, oggi la nostra conoscenza dei tarocchi è molto più ampia: sappiamo perfettamente in che epoca sono nati (prima metà del XV secolo) e anche dove, con buona approssimazione (Milano o Ferrara), e ne conosciamo anche gli scopi, ovverosia prima commemorativi e poi (con la diffusione dei mazzi) ludici o educativi: tutto questo ci è testimoniato dai tre mazzi viscontei, da quelli estensi e da altri singoli e particolari, come i Sola Busca e i Mantegna. E tutto questo lo sappiamo perché questi mazzi, seppur in maniera spesso incompleta, sono giunti fino a noi nella loro versione originale. Allo stesso modo conosciamo perfettamente i primi mazzi marsigliesi, nelle due varianti di Noblet e di Vieville, entrambe della metà del XVII secolo; come del resto sappiamo anche, grazie ad alcuni ritrovamenti nel Castello Sforzesco d’inizio secolo scorso, che il “modello marsigliese” è in realtà un tarocco milanese del XVI secolo pensato probabilmente per il gioco del popolo (ne è una bella testimonianza il Foglio Cary).
Ordunque, essendo che oggi possediamo tutte queste informazioni, e che la storia dei tarocchi è chiarissima (al più si dibatte se siano nati a Milano o a Ferrara), raccontare un mito per il quale, in pieno Medioevo, dei sapienti di varie religioni abbiano creato un mazzo di carte di significato esoterico, è anacronistico e insensato. Ma è insensato soprattutto perché si tratta di un mito talmente debole che, cadendo, trascina con sé tutto il castello di carte (o se preferite tarocchi) che il Nostro ci ha costruito sopra: anche ammettendo che abbia trovato un nuovo e antico tipo di marsigliese, non potrebbe comunque essere più vecchio di quelli viscontei o estensi. E tutto questo rasenta poi la truffa perché, a conti fatti, Jodorowsky e Camoin hanno semplicemente ripreso un marsigliese qualunque e ci hanno aggiunto qualche particolare per renderlo “esoterico”.
Di fatto, l’operazione del Nostro si configura come quella di un esoterista qualsiasi, e non di un cartomante rivoluzionario come sembra vendersi: racconta un mito delle origini molto accattivante, diffama i suoi predecessori e si inventa un nuovo mazzo che dice essere quello vero. Il problema è che, come visto, quest’operazione poteva andare bene nell’Ottocento, non oggi. A riprova di tutto ciò, gli esoteristi di bassa lega credono ancora più volentieri alla storia di Court de Gebelin.

I tarocchi marsigliesi come morte dell’arte e dell’esoterismo.

Un confronto facile facile...

Ho scritto che Jodorowsky ha ripreseo “un marsigliese qualunque”, il che fa forse storcere il naso in quanto potrebbe apparire come una grossa semplificazione: come detto esistono varie versioni di quel tipo. In realtà il secondo punto che vorrei trattare è proprio questo, ovvero come i mazzi cosiddetti marsigliesi, ancora oggi considerati da tanti (fra cui il Nostro) come ispirati a un modello più puro e antico, siano in realtà quello di minor pregio artistico (e poi esoterico) fra tutti quelli esistenti.
Quello disegnato da Camoin dovrebbe essere ispirato al modello di Nicolas Conver del 1761, ovviamente restaurato e in parte modificato (ma non abbastanza per sembrare un tarocco diverso dal tipo marsigliese, va da sé). La caratteristica fondamentale dei marsigliesi è proprio quella di mantenere bene o male sempre lo stesso modello col susseguirsi delle epoche. Come accennato, il primo a crearli fu Jean Noblet attorno al 1650, ispirandosi a mazzi italiani del secolo precedente, mentre Jacques Vieville ne fece una variante più originale, che però non ebbe successo e venne ripresa molto poco (ad esempio da Waite per il suo Sole); poi, tutti gli artisti francesi ripresero sempre e solo il modello di Noblet, con variazioni minime (ad esempio aggiunte di piccoli particolari o modifica dei colori). Questo si giustifica probabilmente col fatto che i giocatori preferivano quel modello e diffidavano delle innovazioni, quindi la produzione si è standardizzata, smettendo di essere un campo di prova per gli artisti: da Noblet a Marteau, dunque per circa 300 anni, il mazzo marsigliese è rimasto sempre uguale a sé stesso, una stanca ripetizione di un modello obsoleto che era sì diventata tradizione, ma al tempo stesso campo sterile per qualsivoglia prova d’arte
Quel che accadde in Italia fu invece diametralmente opposto: se è vero che in origine (soprattutto nel nord) i mazzi usati per giocare erano i marsigliesi (e questo probabilmente perché ricordavano il vecchio mazzo milanese), molte città continuarono a produrre modelli nuovi, o restaurare in maniera profonda quelli tradizionali. Ne sono un bell’esempio le minchiate fiorentine, nate prima del 1538, ma che nella loro versione del 1725 sono disegnate nello stile dell’epoca; oppure gli antichi tarocchi bolognesi, che forse già esistevano nel 1459, e che in epoca moderna erano molto cambiati, ad esempio sostituendo le quattro figure regali (i trionfi II, III, IV e V) con i mori. Ma la produzione di carte era anche un campo artistico in senso stretto: a Milano, nel 1835, Carlo Della Rocca creò il cosiddetto “tarocco sopraffino” che andò a sostituire quello neoclassico che aveva “appena” 15 anni, mentre a Torino, nel 1893, Giovanni Vacchetta disegnò i suoi naibi, che per la prima volta presentavano le carte numerali illustrate e non come semplice elenco di semi. Innovazioni anche più semplici, come ad esempio i cavalieri vestiti da carabinieri nel tarocco piemontese, in Francia non sarebbero mai state concepite.
Quel che interessa a Jodorowsky è ovviamente il valore esoterico delle carte, ovvero la loro capacità di comunicare a colui che le “legge” tramite la simbologia: per fare il primo esempio che mi viene in mente, nella sua carta del Mondo l’aquila ha connotazione maschile e il bue è invece una mucca (sic!), simboleggiando fra le altre cose una certa valenza di opposizione anche sessuale. Va da sé che, per fare ciò, l’immagine deve entrare in sintonia con colui che la vede: se faccio vedere il Bagatto dei tarocchi di Crowley a qualcuno che non sa nulla di magia, vedrà semplicemente un uomo giallo che vola, quindi la comunicazione avverrà in una certa qual maniera distorta (almeno nelle intenzioni dell’ideatore dell’immagine in questione). Per fare cartomanzia, insomma, occorre che immagine e cartomante riescano a capirsi a vicenda, ed è proprio per tale ragione che è molto più difficile divinare con un mazzo non pensato per la divinazione, ovverosia tutti quelli precedenti a Etteilla, inclusi ovviamente i marsigliesi che sono “fermi” a modelli del tardo Rinascimento.
Sia ben chiaro: se una persona vuole divinare con i marsigliesi, o con i viscontei, o con i bolognesi non c’è nessun problema, perché vuol dire che è in sintonia con quel mazzo e quelle immagini hanno un significato per lui. La critica che muovo è invece al modo in cui il Nostro imposta la cosa: il mazzo “vero” sono i marsigliesi, perché la loro simbologia è perfetta, tutti gli altri sono deviati e corrotti; dunque, dice sempre, smettetela di divinare con quelli e usate quello che vi dico io, cioè il mio. E se a questo si aggiunge appunto che i marsigliesi sono in realtà i tarocchi più sterili e obsoleti, la valenza pubblicitaria (e a mio avviso truffaldina) risulta più che palese. Del resto, Jodorowsky è famoso per “vivere” sulle opinioni divergenti che le persone hanno di lui, e che servono solo a incrementare il suo ego già smisurato.
In conclusione, resto convinto che fingere di ritrovare il tarocco originario era un’idea carina ma, senza voler offendere nessuno (e visto che siamo nel XXI secolo), si poteva fare meglio.


[1] Il provvedimento si riferiva in realtà alle normali carte di origine araba, e non ai tarocchi.
[2] Jodorowsky sembra peraltro davvero convinto che i marsigliesi si chiamino così perché nati a Marsiglia: in realtà tale demoninazione venne data da Marteau quando ristampò una versione dei tarocchi di Conver editi in quella città; il tipo nasce invece a Parigi.

lunedì 2 ottobre 2017

Da santi a dèi: ripaganizzare il cristianesimo



La Madonna e i santi della Cascina Soccorso di Uboldo, tutti estremamente "paganizzabili".

“Il dio vide che il santo era buono per lui, e si alleò col santo;
è difficile da capire: il dio si è fuso col santo,
ma allo stesso tempo rimangono due figure distinte.” 
(la bruja Marisa, ne Il voodoo dominicano)


Mi è capitato più volte in passato di venire tacciato come “finto pagano” perché, a differenza di tanti altri, mi piace sempre molto andare in chiesa.
Chiariamoci: andare in chiesa non significa andarci durante la messa o il rosario, anzi, quella è una cosa che in genere evito. Intendo entrare in una chiesa per visitarla, guardare le opere d’arte, ma anche e soprattutto per fare gesti di devozione se qualche altare mi colpisce particolarmente.
Questo significa essere cristiano? Probabilmente, a un occhio estraneo (e per molti neopagani), sì.
La presa di posizione dei miei correligionari (o almeno della stragrande maggioranza di essi) è quella di evitare ogni contatto col cristianesimo, se non essergli apertamente ostile. Spesso dietro a simili atteggiamenti ci sono delle specifiche motivazioni ideologiche o personali, che sono sempre più o meno le stesse: il prete del paese dove sono cresciuto era uno stronzo, la morale cristiana mi impedisce di essere libero, i Cristiani hanno sterminato i Pagani senza pietà nei secoli passati, e così via.
È logico che condivido tutte queste motivazioni, persino la prima, sulla fiducia. Ma ciò non inficia in alcun modo il valore di ciò che il cristianesimo ha prodotto e che il paganesimo può fare suo… O forse che il paganesimo ha prodotto e il cristianesimo non si è accorto di aver assorbito.
Mi riferisco, credo sia chiaro, al culto dei santi.

La fine dei culti tradizionali: davvero?
È pensiero comune che nell’Impero Romano la maggioranza del paganesimo si sia estinto tra il IV e il V secolo, con strascichi anche nei periodi successivi: le storie di Giuliano e di Ipazia sono, credo, sulla bocca di tutti i Neopagani con un minimo di cultura. Ovviamente la faccenda è più complessa, e in un vecchio articolo che trovate QUI avevo anche fatto notare come questa religione (o per meglio dire insieme di religioni) si fosse protratta senza problemi fino al pieno Medioevo e, in ambito colto, al Rinascimento.
Il punto però è che tutto questo è vero solo in parte: un conto è parlare di “culto pagano”, un altro è parlare di “pensiero pagano”, ovverosia dell’interpretare la realtà attraverso idee e metodi propri del paganesimo. E non mi riferisco qui alle solite tiritere sulla persistenza degli Olimpici nelle opere artistiche e letterarie medievali, ma a qualcosa di più sottile e al contempo più semplice, se vogliamo involontario e ingenuo.
Si è detto spesso che gli dèi, sconfitti dalla nuova religione, hanno avuto solo due destini: essere trasformati in santi o in demoni, ma ciò non è vero, o meglio, è vero solo in determinati casi (come la solita santa Brigida e il solito Pan). In realtà, molto più spesso, il dio veniva concettualmente sostituito dal santo, ma in una maniera che non era minimamente controllabile dalla Chiesa di Roma. Per assurdo, quando in Salento si facevano le processioni per far piovere, i Romani la facevano a Giove, poi i Cristiani a san Pietro: ma san Pietro non è identificabile con Giove, né mai un qualche vescovo ha attuato il progetto di sostituire il santo al dio. Ciò si deve esclusivamente alla devozione, all’immaginazione e alla logica del popolo.
Faccio qualche esempio chiarificatore. Nel Milanese, san Sebastiano era, almeno fino al Cinquecento, colui che proteggeva gli animali dalle malattie; va da sé che, per la Chiesa ufficiale dell’epoca, egli non aveva nessuna potestà del genere, dunque da dove arrivava l’attribuzione? Molto semplicemente dall’iconografia e dalla lingua: le ferite delle frecce ricordavano alla gente le piaghe delle malattie, e il suo nome in dialetto, Bastiàn, ricorda appunto le bestie: da qui il santo protettore degli animali invocato contro le epidemie. E un caso analogo lo abbiamo con santa Cristina in Romagna, che diventa la protettrice del pollame (la “cresta”), con sant’Antonio che diventa protettore degli animali perché ha un maiale (in realtà, da agiografia, rappresentazione del Diavolo), o con san Paolo nel già citato Salento, che difende dagli animali velenosi (forse per l’episodio in cui sbarcò a Malta e distrusse i serpenti che la infestavano).
Questo è un modo di pensare non cristiano, ma assolutamente pagano, l’interpretare la potestà di un’entità spirituale non in base a ciò che dice la dottrina ufficiale, ma attraverso il valore del nome e del simbolo. Del resto la maggior parte degli dèi romani avevano “nomi parlanti”: basti pensare a Furina, la dea dei ladri (fures), a Robigo, il dio della ruggine (robigus), a Giano, il dio dei passaggi (ianua, porta), e così via. Cambiavano le divinità, ma non il modo di pensare e di fare degli uomini.
Dunque quando si è realmente estinto il paganesimo?
La risposta corretta a questo punto dovrebbe essere “più o meno tra XVI e XVII secolo”, l’epoca della Controriforma, quando la Chiesa ha ripreso le redini di tutta la faccenda, con un ampio processo di evangelizzazione delle sue stesse diocesi e di estirpazione delle superstizioni. E va da sé che con questo termine si intendevano tutte quelle pratiche che non rientravano nel canone cattolico, ma che appartenevano al popolo laico (nobili, borghesi e contadini indifferentemente, molto spesso anche al basso clero): esse erano di fatto la vera religiosità dell’epoca, o delle epoche passate, e che ben poco aveva a che spartire col cristianesimo dei libri, oggi come allora.
Carlo Borromeo, poco prima del 1579, fece indagare tutti i suoi vicari foranei affinché gli riportassero le varie pratiche popolari della loro pieve, di modo da poterle raccogliere, catalogare e si potesse infine decidere come estirparle: ne è nato un breve elenco di pratiche della diocesi milanese che è piuttosto impressionante. Per fare alcuni esempi, al di là dei normali casi di segnatura, a Gorgonzola per curare i malanni ci si bagnava nell’acqua corrente recitando alcuni Pater Noster e Ave Maria; a Settala non si mangiavano determinati alimenti nei giorni di san Biagio (per proteggere la gola), di santa Agata (per il seno) e di santa Apollonia (per i denti); a Trenno le ostetriche erano solite dire parole magiche nelle quali si nominava il latte della Madonna prima di compiere il loro lavoro; a Darfo si diceva un’orazione a san Giobbe contro i vermi; a Monza si recitavano cento Pater Noster su alcune pietre usate poi per curare i mali, in relazione alla storia di santo Stefano; la stessa pianta di sambuco, usata per svariate operazioni magiche, veniva definita come “pianta di san Bucco”, un santo in realtà inesistente nel canone cattolico. E si potrebbe continuare.
Accanto a queste pratiche ne esistevano un’infinità di matrice visibilmente più pagana: accendere un falò e farci urinare sopra una donna per far piovere, incidere segni su un anello per far innamorare, raccogliere erbe per ottenere determinati effetti, e così via. Il tutto era però spesso accompagnato da preghiere della liturgia cristiana, in genere il Pater Noster e l’Ave Maria, e a volte anche (paradossalmente) il Credo; gli stessi oggetti della chiesa o le bolle dei frati diventavano strumenti utilizzabili: queste ultime venivano portate al collo contro il mal di testa (a Barlassina), l’ostensorio veniva portato sul campanile per scongiurare le tempeste imminenti (ad Appiano Gentile), e in generale affilare gli strumenti da lavoro sulle colonne o far asciugare il grano sul pavimento della chiesa era una pratica comune, che in qualche modo “consacrava” gli oggetti e i cibi. Di nuovo, nulla a che fare col cristianesimo come lo intendiamo noi.
A questo punto pare scontato, almeno a me, parlare della relazione tra il culto dei santi e quello delle divinità afroamericane, i loa e gli orisha: in quel contesto essi sono nati proprio in relazione al cattolicesimo, molto spesso per pura iconografia che gli schiavi potevano vedere nelle chiese o, più spesso, sulle immaginette. Per questo sant’Ulrico, rappresentato col pesce, diventa il dio del mare Agwé, o san Sebastiano legato all’albero il dio della foresta e dell’erboristeria Gran Bois; san Gerardo Maiella è rappresentato con un teschio, e tanto basta perché diventi un aspetto di Baron Samedi, il signore della morte. Ma, come mi è stato fatto notare di recente, la maggioranza dei Neopagani non conosce i sincretismi in questione, che restano di nicchia o relegati al loro valore magico, senza una reale comprensione del pensiero che c’è dietro.
In effetti, i Neopagani preferiscono divinità del mondo antico, e anche giustamente: si votano a Odino, Atena, Bastet o Mitra, in vista di loro presunte origini, della semplice preferenza intellettuale o perché si sentono spiritualmente affini. Ed è sempre nel “mondo antico”, per così dire, che il loro pensiero resta relegato, dove Odino può essere Mercurio o Ermes o Thoth, e la cosa finisce lì. Credo che la maggior parte di loro non penserebbe mai e poi mai di poter entrare in una chiesa e accendere un cero davanti all’immagine di san Nicola o san Michele, rivolgendo però una silenziosa preghiera al padre degli dèi norreni. È questo è, dal mio punto di vista, una grande limitazione.
È una limitazione perché implica fare in modo che il pensiero pagano, quello religiosamente più aperto e accogliente, escluda da sé un’altra rappresentazione del Divino che, come abbiamo visto, non è realmente nata né si è sviluppata per volere della Chiesa burocratica, statalista e catechetica: le cappelle ai lati delle strade non sono state costruite dai cardinali o dai teologi vaticani e, come visto prima, nemmeno da gente che intendeva i santi allo stesso modo in cui li intendevano (e li intendono) loro. Eppure il moderno paganesimo non ha alcuna confidenza col loro culto, anzi, vi è spesso un’aperta ostilità, che posso capire nel caso delle devozioni contemporanee palesemente massmediatiche e truffaldine, ma non certo per quelle antiche.

Da dio a santo e poi di nuovo a dio.
Vorrei a questo punto teorizzare l’usufrutto del culto dei santi all’interno del neopaganesimo.
Occorre anzitutto dire che, per noi Italiani, questa cosa è fattibile soprattutto in vista del cattolicesimo imperante il quale, almeno per una volta, gioca a nostro favore: in generale, sarebbe più difficile fare una cosa del genere (anzi, impossibile) nei Paesi a maggioranza protestante, dove simili manifestazioni di spiritualità sono state abolite sin dal tempo di Lutero e Calvino, in quanto ritenute (giustamente, diremmo noi oggi) una “paganizzazione” del cristianesimo. Ma noi in Italia, come anche in Francia, Spagna, Irlanda, Grecia, Russia e via dicendo, abbiamo una moltitudine di santi con un’ancor più vasta moltitudine di immagini. E ovviamete, come detto prima, non parlo della Madonna di Fatima o di Padre Pio.
Mi è capitato più volte di pensare che esistono fondamentalmente due tipologie di neopagani: gli uomini-bosco e gli uomini-caverna. I primi sono quelli che trovano la piena realizzazione della loro spiritualità immersi nella natura, dove possono parlare con gli alberi, sentire il canto degli uccelli, accarezzare le acque di un ruscello e così via, sentendosi invece oppressi nel chiuso di un edificio; viceversa, i secondi sono quelli che si realizzano nel raccoglimento del silenzio e dell’incenso, davanti a immagini fatte dall’uomo che parlano allo spirito con la loro simbologia e la loro storia, trovando invece distraente il profluvio di rumori della natura incontaminata. Certo, non esistono uomini-bosco e uomini-caverna che siano così al 100%, ma com’è logico qui stiamo parlando di tendenze più o meno accentuate, in base anche alle occasioni. La riscoperta del culto dei santi è per i neopagani che sono tendenzialmente uomini-caverna, va da sé.
Quindi, se non preferite il bosco e l’altarino domestico è a volte insufficiente, la chiesa è a mio avviso la scelta più indicata: del resto, essa è piena di immagini pronte a essere interpretate, l’atmosfera è la stessa di un tempio (o meglio, è uno dei pochi edifici del mondo di oggi in cui si può respirare, in genere, un’aria sacrale), e si può camminare sullo stesso suolo dove migliaia di uomini hanno camminato prima di noi. Uomini, come detto, che andando a ritroso nel tempo non intendevano i santi come i loro correligionari attuali; se poi avete la fortuna di potervi recare in una chiesa notoriamente costruita sopra un tempio pagano, il senso di sacro sarà ancora più forte, andando indietro di duemila anni almeno. Poi è ovvio, ci vuole una certa intimità con uno specifico santo o con una specifica chiesa per “sentire” qualcosa: ma è normale, funzionerebbe così anche con un dio o un tempio pagano vero e proprio.
Mi rendo poi conto che nell’Italia Settentrionale è piuttosto facile praticare il neopaganesimo alla maniera per così dire “tradizionale”, ma altrove so non esserlo: ricordo che, solo qualche anno fa, Francesco Dimitri scriveva in un suo articolo che nella sua città d’origine, in Salento, l’unica religione accettata (nelle scuole come nella cultura in generale) era quella cattolica romana, il che è paradossale considerata l’esistenza in loco del tarantismo. Mancavano, in sostanza, tutte quelle associazioni, quelle fiere e quegli eventi a tema pagano che sono invece sempre più numerosi nell’Italia del nord e del centro. Il praticare in chiesa diventerebbe in questo senso anche un perfetto escamotage per vivere la propria religione senza troppo dare nell’occhio e creare problemi in una società tanto retrograda che, si spera, potrà solo diventare più aperta col passare degli anni e l’estinguersi delle vecchie generazioni reazionarie.
Esiste poi, immagino, una presa di posizione più politica nel non voler usufruire delle chiese come luoghi di culto: accendendo ceri, o facendo offerte in generale, si finanzia un’istituzione che è per antonomasia nemica del paganesimo, vecchio e nuovo indistinatamente. Questo è di base vero, ma occorre fare secondo me un distinguo importante: se non volete “aiutare il Vaticano” con un’offerta per la candela, date una moneta al primo mendicante che trovate, o offrite qualcosa di diverso dal denaro, ha poca importanza. In genere però, almeno per quanto ne so, la maggioranza delle offerte date in una specifica chiesa servono al mantenimento fisico di quella chiesa stessa, dunque del tempio che avete appena visitato. Sono cose come l’8 per mille, i libri di padre Amorth, i bicchieri con la faccia di papa Francesco e i rosari di Padre Pio a dare al Vaticano la stragrande maggioranza dei suoi introiti (per lo meno quelli leciti).
Detto questo, mi sento di fare una precisazione: non sto qui dicendo che occorrerebbe sostituire il proprio culto (molto spesso) domestico con quello per così dire “templare” o “ecclesiastico”. Sto invece dicendo che la pratica in una chiesa può essere un’eventuale integrazione dello stesso, un modo sensato di sfruttare qualcosa che la cultura cristiana ha da offrire, per quanto a sua insaputa. Per fare un esempio, tornando agli orisha di cui sopra, in San Bernardino alle Ossa di Milano, su un altare laterale sono state poste le statuette di due santi, ovvero la Madonna e san Sebastiano, di fattura palesemente latinoamericana; e se è vero che la vicina chiesa di Santo Stefano Maggiore è attualmente della comunità ecuadoregna, sono abbastanza sicuro che quella particolare scelta non sia strettamente correlata alla cosa, o meglio, non nel senso cristiano del termine.
Alla stessa maniera le chiese sono spesso e volentieri, e a opera degli stessi cristiani, ricettacoli di attività che noi definiremmo magica: non è infatti raro, nemmeno al giorno d’oggi, che la gente riempia boccette nelle acquasantiere, porti dell’olio o altri alimenti dal prete perché siano benedetti, si tenga l’ostia in mano dopo averla presa durante l’eucarestia per portarsela a casa, e via dicendo. Non saprei dire se esiste ancora l’abitudine di nascondere oggetti particolari sotto gli altari o in altre parti della chiesa per ottenere qualcosa, ma direi che è presumibile. E ovviamente esistono anche santi che sono considerati veri e propri maghi: nel mondo di lingua spagnola e portoghese è la controversa figura di san Cipriano a detenere questo primato, mentre in Italia egli appare solo in alcune sporadiche occasioni (ad esempio in Sardegna), perché è san Giovanni Battista a essere associato a questo genere di pratiche (basti pensare a tutte le tradizioni della sua notte, il 24 giugno).
Per tirare le somme, sono personalmente convinto che le caratteristiche cultuali del paganesimo siano due: esso inventa sempre cose nuove (in quanto massima espressione di teologia dinamica), ma al tempo stesso usa ciò che c’era prima (in quanto massima espressione di accoglienza intellettuale). Dunque, in questo modo, i santi stessi diventano espressioni alternative delle antiche divinità, anche declinate in maniera più nuova rispetto al passato, più adatte al continuum storico: san Giacomo e la Madonna non sono, in genere, santi legati alla magia, ma se da qualche parte le loro chiese sorgono davanti a un importante crocicchio, essi diventano espressioni di Kalfu ed Ecate, e a quel punto anche questi dèi acquisiscono caratteristiche dei santi in questione, il primo agendo sul benessere dei raccolti, la seconda proteggendo madri e bambini.
Si potrebbe dunque dire che il culto dei santi, nato pagano e diventato cristiano, torna in questo modo a essere nuovamente pagano.