La lotta contro Tarantasio raffigurata all'ingresso di Cascina Taranta. (foto D. Deponti) |
Un’altra
creatura leggendaria nella quale oggi molti tendono a vedere il residuo di un
qualche spirito totemico della Milano antica è il drago Tarànto o Tarantasio.
Per come la si narra nella maggior parte dei testi contemporanei, viveva un
tempo nel Mare o Lago Gerundo (che una volta si sarebbe esteso tra Milano, Bergamo,
Lodi e Cremona) un serpente mostruoso che uccideva uomini e animali col suo
fiato pestifero, e che era solito divorare i bambini; esso sarebbe stato ucciso
da un eroe, nella maggior parte dei casi Uberto Visconti, che lo avrebbe poi
effigiato sul suo stemma famigliare. Oggi si parla dunque molto spesso di
“Tarantasio, il drago di Milano”. Vediamo allora di scoprire la genesi del più
celebre drago della Lombardia.
Un solo stemma per molte leggende.
La
storia dello stemma dei Visconti è molto oscura, e ancora oggi non esistono
certezze riguardo la sua origine.[1] Come
noto, esso è d’argento alla biscia d’azzurro ondeggiante in palo, ingollante un
moro di carnagione, ovvero un serpente mostruoso (con orecchie da lupo, una
chiostra di zanne e spesso una cresta) di colore azzurro che si attorciglia
verso l’alto (appunto, come su un palo invisibile) e ingoia la parte inferiore
di un essere umano nudo (un bambino o un moro, a seconda delle diciture), di
colore rosa.
La
prima attestazione letteraria della sua esistenza risale al 1288, quando
Bonvesin Da la Riva racconta che “dal comune viene offerto al nobile
rappresentante della famiglia dei Visconti che risulta di più elevata dignità
uno stendardo, bianco con effigiata una serpe di colore indaco che inghiotte un
saraceno rosso. Questo è lo stendardo che marcia davanti a tutti gli altri; il
nostro esercito non pone mai il campo finché la serpe non è messa in posizione
evidente issata su un pennone. Questa prerogativa si dice la nobilissima
famiglia dei Visconti l’abbia ricevuta in riconoscimento della particolare
rettitudine di un antenato di nome Ottone, uomo di eccezionale valore, e per la
vittoria militare che egli ottenne oltremare contro i Saraceni.”[2] È da notare che Bonvesin non specifica
esattamente il modo in cui l’emblema sia stato ottenuto, se non per generici
meriti di guerra, e anzi non sembra collegare direttamente la vipera
all’evento, sottintendendo che essa era uno stemma del comune.[3]
La
storia in questione ebbe però fortuna e venne sviluppata di lì a pochi decenni:
nel 1337 Galvano Fiamma (a cui, va detto, vanno attribuite molte leggende della
propaganda viscontea) riprende in toto quanto detto da Bonvesin, e aggiunge che
il vessillo “fu dato ad un visconte Ottone, che ad una porta della città di
Gerusalemme se ne impadronì, in duello, dalla testa di un certo re dei
Saraceni. È dipinta del colore del lapislazzuli, anellata in cerchi, con gli
occhi terribili, divorante un saraceno in rosso.”[4]
Non possiamo comunque attribuire al Fiamma l’invenzione di questa storia,
perché lo scudo con la biscia in mano a un soldato saraceno è già presente nel
ciclo di affreschi della Rocca di Angera, eseguiti tra il 1314 e il 1316,
all’epoca di Matteo I Visconti, che quando scriveva Bonvesin era appunto
capitano del popolo e portava in guerra il suddetto stendardo. La leggenda
verrà poi ripresa da altri autori e arricchita di particolari: ad esempio
Bernardino Corio, nel 1503, chiamerà il saraceno Voluce, e ne farà un principe;[5]
altri arriveranno persino a identificare l’Ottone delle crociate con l’arcivescovo
stesso.[6]
Allo
storico domenicano si deve però l’origine di un’altra leggenda, narrata assieme
a quella della crociata ma che piacque di più ai lettori di oggi, tanto che la prima
è stata quasi del tutto dimenticata: sempre nel Chronicon extravagante
dice che “un visconte Uberto afferrò per la barba un drago che appestava
l’intera città col suo fiato e divorava uomini e animali, e l’ammazzò con la
scure.”[7] Lo
stesso autore diede in seguito qualche altra specifica sulla vicenda quando,
nei primi Anni ’40 del XIV secolo, scrisse nella Politia novella che essa
si svolse fuori da Porta Nuova, dicendo peraltro che si trattava dell’unico
fatto storico che si era potuto recuperare dalle cronache precedenti alla
distruzione di Milano a opera del Barbarossa, nel 1162, e che sarebbero
risalite fino al tempo di Ambrogio.[8] È
però da notare che Pietro Azario, nel suo Chronicon del 1362, non sembra
conoscere nulla a riguardo, segno forse che alcuni storici non ritenevano
questa storia degna di fede.
Non
è dunque un caso se né Tristano Calco né Giorgio Merula, sul finire del XV
secolo, parlano della leggenda di Uberto Visconti (e anzi, quest’ultimo
descrive con più minuzia la vicenda della lotta col saraceno, specificando che
in origine a essere inghiottito dalla vipera non era un moro, ma un bambino).[9]
Ancora nel 1548 Paolo Giovio iniziava la sua opera sui Visconti proprio
narrando delle origini dello stemma, e riportando appunto le due versioni. Ma,
mentre l’autore sembra narrare senza problemi del duello a Gerusalemme, subito
dopo dice che “alcuni scrittori, amanti del meraviglioso, asserirono i
Visconti aver adottato questo stemma, perché un loro antenato, per nome Uberto,
ammazzò un serpente, ossia drago, nelle vicinanze di Milano, il quale
coll’alito recava morte agli abitanti.”[10]
Il Giovio sembra qui mettere l’accento sul fatto che le due tradizioni sono
incompatibili fra loro, mostrando ovviamente di preferire la prima perché più
credibile, diversamente dalla fantasticheria del Fiamma.
Tuttavia,
nel 1592, Paolo Morigia scrisse una versione ulteriormente arricchita della
leggenda del drago, quella che poi è arrivata fino a noi praticamente immutata:
“In questi tempi poco dopo la morte
di Teodosio, & del nostro Padre Santo Ambrogio, nella parte della Città,
dove è la Chiesa hora di San Dionigi, nacque un pestifero morbo, onde ne
morirono quivi assai centenaia di persone; ne sapendosi d’onde fosse cagionato
questo accidente, in quella parte sola della Città, essendo in tutte l’altre
parte sanissima; fu scoperto un gran Dragone, che usciva à
certe hore dalle cave, & col pestifero, & mortifero fiato suo
ammorbava l’aria; alqual non trovandosi remedio speditivo, come in tal instante
caso faceva bisogno, Uberto uno de’ primi nobili della Città di casa d’Angiera,
allhora Luogotenente del detto Conte d’Italia, mosso dal suo naturale valore,
& dalla Pietà della patria, si espose al pericolo della vita per liberare
la patria. Andò adunque il coragioso Uberto contro il
mortifero Drago armato non tanto di ferro, quanto di fortezza
d’animo, di destrezza, & d’ingegno, et al fine felicemente l’ucise, et
liberò la sua patria con gloria eterna di lui. Da questo Uberto ha havuto
origine casa Visconte…”[11] L’opera in questione, l’Historia dell’antichità di
Milano, è un grande compendio di svariate tradizioni e leggende milanesi, dunque
non è sorprendente trovare anche la storia del drago, in pieno spirito
antiquario. È però interessante come in questo brano abbiamo una serie di
dettagli estrapolati dal Fiamma ma non esplicitamente citati: anzitutto, il
Morigia ambienta la storia sul finire del IV secolo, mal interpretando la
menzione dei “tempi del beato Ambrogio”, e poi dà una locazione geografica
precisa, menzionando l’oggi scomparsa chiesa di San Dionigi, che sorgeva
appunto fuori da Porta Nuova; quest’ultimo fatto verrà ulteriormente mal
interpretato dagli studiosi successivi, che daranno come campo di battaglia
proprio il luogo ove sorgeva la chiesa (oggi i Giardini Pubblici Indro
Montanelli).
Esiste in
realtà un’altra leggenda, più tarda e meno nota, la quale narra che Desiderio,
il futuro re dei Longobardi e allora conte di Angera, dopo aver riposato
sull’erba, si rimise l’elmo, nel quale si era annidata una vipera; il rettile
tuttavia, anziché morderlo, gli cinse la fronte come una corona lasciandolo
illeso, ed egli decise allora di usare l’animale come suo stemma.[12] Nel
Chronicon maius il Fiamma pone l’accento sul fatto che Desiderio fosse
appunto uno dei conti di Angera,[13]
probabilmente per dare legittimazione ai Visconti, ma non accenna a questa
storia. È probabile che essa sia più tarda e tragga origine da Petrarca:
questi, nel 1343, racconta una diceria che aveva sentito (ovviamente prima di
essere a Milano al servizio dei Visconti), ovvero che una volta Azzone,
rimessosi l’elmo dopo una pausa dalla cavalcata, vi avesse trovato una vipera,
che però sarebbe strisciata fuori senza recargli danno; da lì, il signore di
Milano avrebbe deciso di farne il suo stemma.[14]
Ovviamente questa storia non ha alcun fondamento, e così dovevano pensarla i
Visconti stessi, che usavano la vipera già dal tempo di Ottone; cionondimeno
questo non deve aver impedito alla storiografia successiva di creare una nuova
leggenda, riprendendo Petrarca ma ambientandola in età longobarda.
Occorre
infine aggiungere che alcuni studiosi, anche piuttosto minuziosi come il Galli,
riportano che la prima menzione dello stemma risalirebbe a un fatto narrato nell’Historia
Mediolanensis di Landolfo Seniore durante l’assedio di Corrado II nel 1037
(ed essendo il testo di fine XI secolo, dovrebbe essere quella più antica): in
questo frangente un certo visconte Eriprando avrebbe affrontato in duello
Baiguerio, nipote dell’imperatore, sconfiggendolo e ottenendo il suo stemma, la
vipera per l’appunto.[15] Peccato, purtroppo, che nel testo non si faccia
alcuna menzione di questa immagine, né i Visconti allusero mai a una parentela
con il personaggio in questione; ciononostante, l’errore entrò nell’uso comune,
sebbene come leggenda minore.
Il Biscione di Giovanni Visconti (XIV secolo) sull'Arcivescovado di Milano (foto Wikicommons). |
Dalla vipera al drago.
È
interessante notare come il Biscione si sia nel tempo trasformato, passando da
semplice serpente a vero e proprio drago non solo nelle leggende, ma anche
nell’araldica.
Il processo
non è ovviamente stato breve, e prende avvio dallo stemma primitivo: di esso ci
resta un unico esempio, presso il Palazzo Visconti di Legnano, voluto da Ottone
sul finire del XIII secolo, dove l’animale è un serpente cornuto con un solo
avvolgimento completo su sé stesso, la testa rivolta a destra mentre inghiotte
una figura umana che tiene in mano una freccia e un globo; i colori dovevano
essere, come dice Bonvesin, indaco per il rettile e rosso per il saraceno su
campo bianco.
Già coi
Visconti del XIV secolo la vipera si volta a sinistra e assume fattezze più
poderose: all’esterno della chiesa di San Gottardo in Corte (voluta da Azzone e
quindi databile a prima del 1339) si trova un bassorilievo dello stemma, dove
l’animale ha ora naso canino, zanne (due superiori e due inferiori), orecchie
da lupo, una cresta rotondeggiante e una spira che forma un cerchio;[16] l’essere umano appare giovane e nudo, con le mani
libere. La diretta evoluzione sembra essere la scultura fuori dal Palazzo
Arcivescovile, voluta da Giovanni (quindi prima del 1354): qui la vipera
mantiene le orecchie (che potrebbero quasi sembrare corna), ha un’intera
chiostra di zanne, barba e basette pelose, squame in rilievo ma non una cresta;
l’uomo ha le stesse fattezze di cui sopra (tanto che è difficile stabilire se
si tratti di un adulto o di un bambino). Questa riproduzione dovrebbe essere
comunque precedente, perché una molto simile si trova già sul sarcofago di
Azzone, del 1339.[17] Se Gian Galeazzo dotò la creatura di una grandiosa
cresta a punte su alcune miniature,[18] la tipologia
scultorea rimase invece la stessa anche in epoca sforzesca, come mostrano i
biscioni sulla parlera della Loggia degli Osii, che recano le iniziali di
Galeazzo Maria e di sua madre Bianca Maria Visconti, e per questo risalenti a
prima del 1468 (anno della morte di quest’ultima).
È però
giusto dire che furono proprio gli Sforza a mostrare un particolare gusto nel
voler trasformare la vipera in un drago, seppur non nell’ambito dell’araldica
ufficiale. Infatti, già con Francesco I possiamo vedere su un diploma del 1450
(quindi lo stesso anno della sua ascesa a duca) come il normale stemma della
vipera barbuta e cornuta ingollante un umano sia sostenuto da un drago alato
verde, squamato, con cresta appuntita, fauci aperte e lingua semovente.[19] Ai massimi estremi si spingerà però il figlio
Ludovico il Moro, che in una lettera del 1497 mostra la rielaborazione
dell’animale in foggia di vero e proprio drago, con un paio d’ali e quattro
zampe artigliate, il collo che forma il cerchio e la coda attorcigliata in
diversi giri, ovviamente ingollante un essere umano.[20] Nonostante queste varianti, nell’araldica ufficiale
lo stemma si consolidò nelle forme suddette (non poteva essere mutato a
piacere, essendo quello degli Sforza una concessione imperiale),[21] e dopo la caduta dei duchi milanesi smise di venire
rielaborato, anzi, in alcuni casi addirittura facendo perdere alla vipera gli
attributi “dragheschi” delle orecchie e della barba (come ad esempio
nell’affresco del XVIII secolo a Palazzo della Ragione).
Ma dunque,
da dove deriva veramente lo stendardo dei Visconti?
Sembra che
una prima testimonianza archeologica venga riferita da Carlo Rosmini, che nel
1820 scrive che “la più sicura memoria che si ha dell’arma in cui dall’angue
esce il fanciullo ignudo è dell’anno 1226, nel quale Ardengo Visconti fu creato
Abate del Monastero di Sant’Ambrogio, il cui pastorale trovato nel suo
sepolcro, e veduto dal Calco, era ornato con vipere d’avorio.”[22] Si tratta di un dato piuttosto interessante, per
quanto il fatto che l’oggetto in questione sia irreperibile (e lo fosse già
all’epoca in cui scriveva lo storico, essendo il ritrovamento del XV secolo)
porta con sé non pochi problemi. In ogni caso, si ha qui un termine ante
quem, ma che non ne spiega l’origine.
Secondo il
Cognasso, il già citato passo di Bonvesin racchiude in sé l’indizio del fatto
che lo stemma visconteo fosse particolarmente antico, e risalisse al periodo
nel quale la famiglia aveva il titolo vicecomitale: a differenza del
gonfaloniere, che portava per l’appunto il gonfalone della Chiesa Ambrosiana, il
visconte aveva il diritto di recare la ferula laicalis, che
simboleggiava la lotta contro il peccato e i delitti (e per estensione contro
il Demonio), proprio in vista dell’autorità giudiziaria che deteneva.[23] L’ipotesi è basata sull’assonanza del serpente con le
forze del Male, ma non si ha nessuna prova concreta, anche perché i documenti
riguardanti i Visconti tra XI e XII secolo (o addirittura precedenti) sono
scarsi, essendo che in quell’epoca erano i signori di paesi piccoli e lontani
dalla città, come Massino e Invorio.[24]
Un’alternativa
viene proposta da Michel Pastoureau, il quale vorrebbe che le origini del
Biscione fossero di natura puramente toponomastica: i Visconti, in quanto
signori di “Anguaria”, avrebbero elaborato il loro stemma partendo dalla parola
latina anguis (serpente), creando poi varie leggende a riguardo.[25] In realtà, in Lombardia un paese con quel nome non
esiste: lo storico si riferisce evidentemente ad Angera, che però divenne
dominio della famiglia solo dalla fine del XIII secolo, e i cui nomi latini
pervenutici attraverso il Liber notitiae sanctorum Mediolani (Stationa,
Angleria e Angera)[26] e in Stefanardo (Engleria)[27] ricordano molto poco il serpente. Peraltro, è da
notare che nelle fonti coeve il Biscione non viene mai chiamato anguis,
ma vipera.[28]
Il Bognetti,
ricordando che i Visconti vollero far risalire la loro stirpe ai Longobardi,
teorizza che la vipera fosse in origine lo spirito totemico di una famiglia di
arimanni, cioè di uomini liberi in grado di partecipare alla guerra.[29] In realtà, non è strano che la nobiltà medievale
pretendesse di discendere dai Goti o dai Longobardi, ed è anche vero che i
primi Visconti avevano per la maggioranza nomi germanici:[30] secondo la Bazzi, questo potrebbe indicare che essi avevano
davvero discendenze arimanniche.[31] Degli usi di questo popolo precedenti la
cristianizzazione abbiamo però molto poco, e tuttavia nella Vita Barbati
del VII secolo si accenna al fatto che a Benevento essi compivano un rito
pagano e “davanti all’immagine di un animale chiamato popolarmente vipera,
essi piegavano la schiena che avrebbero dovuto piegare innanzi al loro Creatore”;[32]
e ancora, il Galli cita una diceria per la quale essi portavano al collo un
amuleto a forma di serpente chiuso in un sacchetto.[33]
Tuttavia, se entrambe queste informazioni siano degne di fede è questione
ampiamente dibattuta, in quanto potrebbero in egual misura essere rimandi a
reali tradizioni pagane che invenzioni degli autori cristiani dell’epoca, volte
a peggiorare la fama dei Longobardi.[34]
Un’altra
teoria venne avanzata dal Galli, portando all’attenzione degli studiosi un
importante manufatto milanese, vale a dire il serpente di bronzo ancora oggi
conservato in Sant’Ambrogio. La versione più antica della storia, riportata da
Landolfo Seniore, dice semplicemente che esso, il serpente di bronzo fatto
forgiare da Mosè durante la peregrinazione degli Ebrei nel deserto,[35] fu portato a Milano dall’arcivescovo Arnolfo II dopo
un’ambasceria di tre mesi a Costantinopoli.[36] Non è questa la sede per parlare nel dettaglio della
vicenda della scultura e della sua datazione (già il Morigia ci fa presente che
esistono diverse versioni della cosa):[37] basterà dire che esso giunse a Milano a cavallo tra X
e XI secolo, probabilmente in seguito alle trattative per la proposta di
matrimonio di Ottone III nei confronti di Zoe, figlia di Basilio II.[38]
Dunque, il
Galli fa un parallelo tra il racconto biblico e la storia delle crociate: come
il serpente di bronzo aveva scongiurato la morte degli Ebrei a opera dei
rettili, così avrebbe protetto i Milanesi dai nemici, e come aveva condotto
incolumi i primi alla Terra Promessa, così avrebbe fatto coi secondi; l’arcivescovo
Arnolfo III avrebbe allora affidato al visconte Ottone la bandiera con l’effige
del serpente, aggiungendovi poi, a crociata terminata, l’immagine del saraceno.[39] Certo, è sensato pensare che in origine lo stendardo
appartenesse al comune, come dice Bonvesin, ma i parallelismi tra le storie
appaiono comunque un po’ forzati, senza contare un dato di estrema importanza,
ovvero che il serpente di bronzo non avrebbe avuto motivo di essere dipinto
d’azzurro, cosa che lo rende di fatto irriconoscibile nella sua principale
caratteristica; d’altro canto, il giro completo delle spire della scultura è
molto simile alla prima rappresentazione pervenutaci del Biscione, quella di
Legnano, ed è interessante la presenza della barba, sebbene si tratti di
elementi comuni nelle raffigurazioni medievali dei serpenti.
Una più
recente interpretazione è stata proposta dall’Andenna, per il quale l’immagine
non rappresenterebbe altro che Giona rigettato dal pesce mostruoso che lo aveva
inghiottito,[40] simbolo di resurrezione in quanto prefigurazione del
ritorno di Cristo dalla morte. Questo, precisa, era un episodio molto
rappresentato nella pittura murale e nelle volute dei pastorali romanici e di
prima età gotica,[41] il che non può che ricordare quello di Ardengo
Visconti descritto dal Calco. È vero che il Biscione appare come un serpente e
non un pesce, ma è altrettanto vero che l’animale citato nella Bibbia è
stato variamente interpretato come pesce, balena e mostro marino, a volte
dotato di corpo serpentiforme, corna e ali.[42] Il fatto che il suo significato, quando era stendardo
comunale e poi visconteo, fosse ormai dimenticato è anche dato dal fatto che, appunto,
si descrive il mostro come ingollante l’uomo, mentre nelle raffigurazioni,
quando il profeta viene inghiottito, vengono rappresentate le gambe. La
difficoltà, in questo senso, è comprendere perché nel primitivo stemma di
Legnano Giona avesse in mano una freccia e un globo.
Miniatura dal menologio di Basilio II (X secolo) con la storia di Giona (foto Wikipedia). |
Il terrore del Gerundo.
Come detto
all’inizio, se si va a ricercare sui libri o sul web la vicenda del Biscione,
con buona certezza ci si imbatterà anche nel fatto che la leggenda di Uberto
Visconti non sarebbe stata ambientata fuori da Porta Nuova, ma nei pressi del Lago
Gerundo, e che il drago abbattuto si sarebbe chiamato, come detto all’inizio, Tarànto
o Tarantasio. Di conseguenza, se ci si informa di più su questa creatura, le
cose che si verranno a sapere saranno le seguenti: era un mostro serpentiforme
dal fiato velenoso che rovesciava le barche e mangiava i bambini, e che sarebbe
stato sconfitto da Uberto, appunto, o dal vescovo di Lodi Bernardo Talenti, o
da san Cristoforo, o da Federico Barbarossa, o da un tale Eginaldo;[43] secondo alcune versioni esso nacque dalla spina
dorsale del cadavere di Ezzelino III Da Romano, sepolto a Soncino.[44] Il tutto è quasi sempre corredato da due citazioni,
una del 1100 di un certo “monaco Sabbio”, e un’altra di otto righe in rima del
poeta Villani, oltre che da un disegno che ne avrebbe fatto l’Aldrovandi. In
aggiunta, ci sarebbero diverse ossa e raffigurazioni del drago in varie chiese
sparse per il territorio del Gerundo. Ovviamente però, se si va a controllare,
le cose non stanno esattamente così.
Per scoprire
chi fosse realmente Tarantasio, credo sia opportuno cominciare dall’immagine di
cui sopra, l’acquerello di Ulisse Aldrovandi che rappresenta un drago con due
zampe, coda e collo allungati, e un paio di ali, in una raffigurazione per così
dire molto classica. Poco sorprendentemente, l’autore mostra in realtà di non
avere alcuna nozione riguardo il drago del Gerundo, e la didascalia sopra
l’immagine in questione esplica che si tratta di un drago etiope; peraltro,
nella pagina successiva vi è un altro drago etiope, stavolta rappresentato con
una gobba.[45] È probabile che qualche buontempone, non si sa
quando, abbia voluto dare a Tarantasio un’immagine per così dire autorevole, di
fatto “rubando” il disegno di un altro drago e schermandosi dietro
l’autorevolezza del naturalista bolognese. E un destino simile è quello che è
toccato alle tante raffigurazioni nelle chiese del circondario che
rappresenterebbero il mostro del Gerundo, anche se non esiste alcuna prova di
tutto ciò, essendo che gli affreschi in questione sono sempre immagini del
ciclo di san Giorgio.
In compenso,
le mastodontiche ossa esistevano davvero. Del resto, la presenza di un grande
rettile velenoso in loco non doveva comunque sorprendere, poiché, come dice il
Vignati, “in
queste selve erano paludi assai vaste, d’onde venivano esalazioni mefitiche,
causa di febbri putride
[…] Per tanto si diffuse nel Lodigiano il culto di Mefite,[46]
poi quello di S. Cristoforo, e la superstiziosa ignoranza inventò le
velenose esalazione di serpenti strani e di draghi.”[47]
Lo stesso autore, nel suo elenco dei reperti preistorici rinvenuti nella zona,
racconta che “nell’alveo del Lambro vicino a S. Zenone fu trovato un’altra
testa d’uri, che si tenne gran tempo a Lodi nella libreria de’ Padri Olivetani
di S. Cristoforo, e se ne dicevano delle cose favolose, e chiamavasi la testa
del mostro Tarando. Una costola di cetaceo lunga ben sette piedi fu raccolta
presso Lodi-Nuovo in seguito ad una grande innondazione dell’Adda. Essa fu
conservata nell’Ospedale di Santo Spirito, d’onde i Padri Olivetani la
levarono, lasciandone formale ricevuta, e l’appesero alla volta della loro
Chiesa. Il volgo la credeva una costola di smisurato drago, che un tempo col
fiato cagionò una terribile peste ai Lodigiani.”[48]
Aggiunge infine che “la detta costola dopo la soppressione della Chiesa di
S. Cristoforo [nel 1798] fu ritirata dal Dott. Villa.”[49]
Sebbene la chiesa sia poi stata riconsacrata nel 1954, non resta ovviamente
traccia di questi due reperti.
La
cosa che salta subito all’occhio è che il primitivo nome della creatura sarebbe
stato Tarando, e che ci si riferiva a lui unicamente in relazione al cranio
fossilizzato. Sembrerebbe però strano che la gente dell’epoca non sapesse
riconoscere un oggetto simile, e pensarlo di un rettile anziché di un mammifero;
e infatti a esso era legata un’altra storia, che nulla c’entrava col drago: “[Nella
chiesa di San Cristoforo] è anche la testa d’un mostro detto Tarando, simile
a quella d’un Bue in grossezza, e colle corna simili; questa è impietrita, ed è
stata ritrovata in una ripa del Lambro sepolta, e da esso scoperta. Si giudica
che i Goti, o Longobardi avessero di queste bestie ne’ loro eserciti quando
s’impossessarono de’ nostri paesi, e che questa fosse una delle molte loro, ed
ivi sepolta.”[50]
Dunque Tarando, secondo l’originale tradizione lodigiana, non sarebbe altro che
una specie di toro appartenuto alle popolazioni barbariche che invasero l’area
in epoca tardoantica. Il nome comunque venne associato al drago già alla fine
del XIX secolo.[51]
Occorrerà soffermarsi un attimo sull’origine del nome. L’unica
spiegazione che mi sembra sia stata data finora è quella del Cerizza, che
stabilisce un parallelismo tra i tremori delle febbri malariche e il fenomeno
estatico del tarantismo.[52] L’ipotesi è
affascinante, ma porta con sé due grossi problemi: anzitutto, l’entrata in uso
di un termine molto specifico del dialetto pugliese nel Lodigiano almeno a
partire dal XVIII secolo, e in secundis l’accostamento del morso della
tarantola a un bovino. La spiegazione è a mio avviso più semplice: è probabile
che l’origine del nome derivi da quello della Tarasca (Tarasconus in
latino e Tarasque in francese), il mostro sconfitto da santa Marta di
Betania nella sua agiografia, divenuta famosa grazie a Jacopo da Varazze.[53] La creatura in
questione aveva caratteristiche diverse da quelle sia del drago che del bovino,
ma il nome popolare datogli dai Lodigiani dovrebbe intendersi semplicemente
come “essere mostruoso”, peraltro adatto a un contesto ecclesiastico. Mi sento
infine di ricordare che, a causa delle numerose zampe con le quali viene
raffigurata la Tarasca in Francia, è stata quest’ultima a ispirare il logo
dell’Agip e non, come spesso si racconta, Tarantasio, ed è sempre lei a essere
rappresentata nel famoso affresco nella chiesa di San Marco a Milano.
Il
testo del Vignati di cui sopra è però importante anche per determinare temporalmente
quando la costola venne trovata o, per lo meno, esposta al pubblico: il Ciseri
dice infatti che essa, conservata inizialmente all’Ospedale Maggiore di Lodi,
venne poi trasferita in San Cristoforo per volontà degli abati Bernardo
Sommariva e Angelo Leccami con una provvisione del 15 novembre 1669.[54]
Sapendo che la struttura accolse il primo paziente nel 1467, abbiamo un arco
cronologico di un paio di secoli nei quali il fossile può essere stato
rinvenuto; ritengo tuttavia plausibile che il decreto sia stato attuato poco
tempo dopo il ritrovamento, quindi nella prima metà del XVII secolo. Ma dunque,
anche ammettendo che si tratti di una scoperta del secolo precedente, la storia
del drago sarebbe davvero così recente?
Le
ambientazioni della vicenda sono piuttosto variegate, e dipendono da quando
visse colui che sconfisse il mostro. Tralasciando dunque Uberto Visconti, di
cui si è già parlato, è la storia del vescovo di Lodi a essere la più
interessante. La testimonianza più antica era quella riportata su una tavoletta
in latino e in volgare (secondo altri due tavolette distinte) nella chiesa di
San Cristoforo, e il cui testo, riportato da Defendente Lodi, recitava: “Nell’anno
1300 dalla nascita di Cristo Signore Nostro, vi era intorno alla città di Lodi
un certo lago, che per l’ingente grandezza e l’immensa quantità d’acqua che vi
confluiva veniva chiamato Mare Gerundo; in questo stesso lago apparve per
prodigio un serpente velenoso e mostruoso, che col suo alito pestilenziale
ammorbava tutta la città, e per il quale molti, intaccati dal pessimo fetore,
morivano. Aumentando di giorno in giorno il contagio e l’infermità, e scemando
il numero degli abitanti, ed essendo la città invasa dall’acqua, molti
cittadini se ne andavano, e tanto l’afflizione aumentava, meno si sperava di
poter trovare un rimedio per risanare i campi infetti, o per prosciugare
l’acqua, o per eliminare la bestia. Tuttavia, rimanendo tutti gravemente
preoccupati, e non sapendo come agire per ottenere la salvezza, si rivolsero
alla Maestà Divina, nella ferma speranza che essa non avrebbe respinto chi le
si fosse raccomandato con cuore puro; e perché potessero ottenere più
facilmente ciò che chiedevano, il reverendissimo signore Bernardino Tolentino
[Bernardo Talenti], allora vescovo della città, convocato il clero e tutto
ciò che rimaneva della popolazione, fece loro un pietoso sermone in cui
efficacemente li pregava di innalzare preghiere a Dio con tutto il cuore e la
fede, affinché liberasse il suo popolo da quella pestifera strage; lo stesso
reverendissimo vescovo sancì inoltre che si facessero processioni per tre
giorni di seguito, e che facessero questo pio voto, che se Dio, mosso a
compassione per quelle morti, li avesse liberati da quella belva velenosa,
avrebbero edificato un tempio in onore della Santissima Trinità e del glorioso
martire Cristoforo. E la loro speranza non fu vana poiché, compiute le
processioni, e firmato il voto quello stesso giorno, che erano le calende di
gennaio [1° gennaio], ebbero luogo due miracoli memorabili, ovvero che
morì il drago infestante, e che si prosciugò quell’immenso lago. Dunque i
devoti cittadini, immensamente riconoscenti per questo grande beneficio,
edificarono un magnifico tempio, come promesso nel voto, [nel quale
conservarono un osso prelevato da quel serpente, affinché preservassero la
memoria di quella miserrima calamità], il quale [tempio], per
volontà di Dio, fu poi splendidamente riedificato a opera dei reverendi padri
della Congregazione degli Olivetani, nell’anno 1563. Per questo invero il
giorno festivo [della fondazione] veniva celebrato alle calende di
gennaio, ma nell’anno 1310 questa solenne e felice memoria venne traslata dal
reverendissimo signore [Leone] Palatino dell’Ordine dei Minori di San
Francesco, vescovo di Lodi, nel giorno dopo l’Epifania, quando viene celebrata
la circoncisione di Nostro Signore Gesù Cristo [7 gennaio].”[55]
Allo stato
attuale è impossibile dire quanta verità ci sia in questa storia, anche perché
non sembrano essersi conservati documenti riguardo la fondazione della chiesa
in questione. L’epoca dovrebbe comunque essere corretta, e possiamo
effettivamente pensare che la leggenda nacque in seguito al restauro
dell’edificio, nel 1307,[56] dopo un’epidemia o un’inondazione, per quanto la
documentazione non ci consenta di andare oltre il XVI secolo. La tavoletta
citata è essa stessa di datazione incerta, ed è anche impossibile controllarne
il testo originale, perché non ne rimane traccia, essendo andata perduta quando
San Cristoforo venne sconsacrata, nel 1798.[57] Va infine notato che la parte riportata tra parentesi
è quella che lo Zambarbieri scrive di aver recuperato nell’Archivio Diocesano
di Lodi da un’altra trascrizione della perduta tavoletta:[58] appare però evidente che deve trattarsi di una
falsificazione, in quanto la costola venne trasferita nella chiesa solo nel
1669, quarant’anni dopo la trascrizione del testo da parte di Defendente Lodi;
e non può riferirsi al cranio, in quanto come visto non era ritenuto
appartenere al serpente.
A dare
grande risalto alla figura del drago fu poi Filiberto Villani, il poeta di cui vengono
spesso citati quei versi decontestualizzati: la sua opera, Federico, ovvero
Lodi riedificata, è un lungo poema eroico scritto intorno al 1650, ma che
venne pubblicato in due tomi solo 1828. La storia, come accenna il titolo, è
quella della discesa del Barbarossa, allorquando Milano distrusse Lodi e
l’imperatore giunse in Lombardia per vendicare e riedificare la città; la
narrazione, che si ispira alla Gerusalemme liberata, vede dunque le
varie vicende della lotta contro i Milanesi che, alla stessa maniera dei
Saraceni di Tasso, avevano dalla loro parte un incantatore, in questo caso la
maga Marocca, la “madre” di Tarantasio. Dopo la distruzione della sua città,
infatti, essa si invola fino alle sponde dell’Adda e, per vendicarsi dei
Lodigiani e impedire loro di raggiungere la rocca sul monte Eghezzone, accende
un falò con erbe magiche e velenose, invocando le potenze infere che in pochi
istanti modellano un drago talmente spaventoso che la sua stessa creatrice ne
ha inizialmente paura; poi però la belva le pone la testa in grembo, e viene
mandata a devastare le zone circostanti. Il poema racconta anche del modo in
cui caccia, usando soprattutto il fiato e la coda (una caratteristica molto
medievale e oggi poco ricordata),[59] e di come viene infine sconfitto dal cavaliere
Armando, che fa voto a san Cristoforo di erigergli una chiesa ornata con le
ossa del mostro.[60] La storia, che conclude l’opera, riprende ovviamente
quella di Bernardo Talenti (l’autore aggiunge infatti che, dopo la morte del
drago, le acque dell’Adda si ritirano), e con ogni probabilità l’attuale
credenza per la quale Tarantasio sia stato sconfitto dal Barbarossa deriva da
un’errata interpretazione della vicenda (probabilmente fatta solo tramite il
titolo, e senza leggere il poema).
A mancare
ora all’appello è solo il monaco Sabbio del XII secolo, la cui presenza
striderebbe con quanto detto finora: se infatti esistesse una testimonianza
simile, significherebbe che la vicenda del drago è antecedente alla storia del
vescovo di Lodi nel 1300. Anche in questo caso, la vulgata ha confuso le cose:
l’autore del passo che viene spesso citato è in realtà Vincenzo Sabbia, abate
lodigiano del XVI secolo che scrisse delle Memorie antiche detti monasteri
di Lodi e Villanova, datato appunto alla seconda metà di quel secolo, e non
certo al 1100.[61] Anche perché, ricordiamolo, la città venne fondata
nel 1158, dopo che i Milanesi distrussero quella che oggi è Lodi Vecchio (l’antica
Laus Pompeia) nel 1111; dunque, ogni edificio e tradizione riguardante
l’attuale città non può essere antecedente a quella data. E proprio su questa
base Defendente Lodi, già alla sua epoca, confutava la diceria per la quale i
fatti del Gerundo si sarebbero svolti al tempo di Alboino, re dei Longobardi.[62] Ma la cosa più interessante, riguardo il Sabbia, è
un’altra: la citazione riportata ovunque, dove si parla del drago, non esiste
nel suo testo, e anzi l’autore non nomina né la leggenda, né la costola del
mostro. Si tratta dunque di una recente falsificazione, creata forse basandosi
anche sul fatto che il testo è di difficile reperibilità, e dunque risulta
arduo da controllare.
Il drago etiope dell'Aldrovandi (XVI secolo), oggi spacciato per Tarantasio (da Wikipedia). |
In
conclusione, per la leggenda di Tarantasio ci troviamo davanti a un quadro
piuttosto complesso. La storia del drago che infestava il Gerundo, ambientata
tra il 1299 e il 1300, risale probabilmente a quell’epoca o tutt’al più al
Rinascimento, e nacque in seguito alla ristrutturazione della chiesa di San
Cristoforo a Lodi; a supportarla esisteva in loco almeno una grande costola
preistorica. Il nome che oggi si attribuisce alla creatura era in origine
Tarando,[63] e si riferiva al teschio di un grande erbivoro
cornuto che si riteneva essere appartenuto a una bestia dei barbari. Col tempo,
essendosi persa la memoria di quest’ultimo, il nome è andato a designare il
drago stesso, che ha “assorbito” tutta una serie di altre storie, prima fra
tutte quella di Uberto Visconti del XIV secolo, e inizialmente ambientata a
Milano: da lì, Tarantasio sarebbe diventato nientemeno che lo stemma dei
signori della città, il Biscione, in origine uno stendardo comunale che rappresentava
molto probabilmente il pesce mostruoso che rigetta Giona sulla spiaggia,
simbolo di resurrezione.
Nonostante
questo, l’immagine del drago del Gerundo (ben narrata dal poeta Villani negli
ultimi capitoli della sua opera) è ancora oggi molto affascinante, tanto da
essere riuscita a far sue tutte una serie di leggende che hanno contribuito
alla sua attuale fama.
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[1] Per un’esaustiva
monografia sull’argomento, cfr. M. C. Giannini, Il Biscione, in F.
Benigno - L. Scuccimarra (a cura di), Simboli della politica, Perugia,
2010, pp. 137-190.
[2]
Bonvesin Da la Riva, De magnalibus Mediolani XIII (trad. Chiesa). È
interessante notare come il testo di Bonvesin fece talmente scuola da essere
citato anche da Dante, quando parla della “vipera che il Melanese accampa”
(Pur. VIII 80), e divenendo quasi una credenza riferita all’epoca il
fatto che era necessario per porre il campo, tanto che il Giovio scrive che “in
memoria di questo trionfo [alle crociate] fu stabilito che l’esercito
milanese non dovesse mai accamparsi, se prima non innalzasse il vessillo della
vipera.” (I dodici Visconti, p. 6, trad. Domenichi) Trovo altresì
insensata l’ipotesi del Chiesa, che vorrebbe rivederci l’eco di una tradizione
totemica ancora presente nel folklore (cfr. il commento all’opera di Bonvesin,
p. 273), anche per il semplice fatto che simili situazioni si riferivano sempre
alla fondazione di città, e non all’accampamento di un esercito.
[3]
E. Galli, Sulle origini araldiche della Biscia
Viscontea, in Archivio Storico Lombardo. Giornale della Società Storica
Lombarda, ser. 5, fasc. 3, 1919, p. 369.
[4]
G. Fiamma, Chronicon extravagante 96, 4-5 (trad. Céngarle Parisi-David).
[5]
B. Corio, Storia di Milano, p. 135.
[6]
Il Fiamma dice che il visconte Ottone “portava
sette scudi dipinti nel suo scudo, poiché superava la forza di sette uomini”
(Chronicon extravagante 103, 4-5, trd. Céngarle Parisi-David), e tanto
basta perché il Giovio inizi la biografia del capostipite dei Visconti di
Milano dicendo che come insegna “usava sette ghirlande” (I dodici
Visconti, p. 7, trad. Domenichi).
[7]
G. Fiamma, Chronicon extravagante 103, 4.
[8]
G. Fiamma, Politia novella 55.
[9]
G. Merula, Antiquitatis Vicecomitum, 1529, pp. 31-32; l’opera è in
realtà del 1492.
[10]
P. Giovio, I dodici Visconti, p. 6 (trad. Domenichi).
[11]
P. Morigia, Historia dell’antichità di Milano I 2, p. 12.
[12]
Cfr. ad esempio C. Torre, Il ritratto di Milano, Milano, 1714, p. 142.
[13]
G. Fiamma, Chronicon maius, p. 109.
[14]
F. Petrarca, Rerum memorandum libri IV 122.
[15]
Landolfo Seniore, Historia Mediolanensis II 25.
[16]
Questa particolare spira contraddistingue il ramo principale dei Visconti, ed è
infatti assente in tutti quelli collaterali (cfr. F. Guerreri, Le “imprese”
Visconti-Sforza. La storia di una famiglia regnante vista attraverso gli stemmi
personali dei suoi membri, a cura di A. Bernareggi, su storiadimilano.it,
2011, cap. II).
[17]
Nella stessa epoca dovettero comunque convivere raffigurazioni di qualità
diversa: ad esempio, risale alla seconda metà del XIV secolo lo stemma
affrescato nella Cappella Viscontea in Sant’Eustorgio, che alla normale vipera aggiunge
semplicemente orecchie (o corna) e barba; da notare che sopra è rappresentato
san Giorgio che uccide il drago, forse in maniera non slegata dalla leggenda
riportata dal Fiamma.
[18]
G. C. Bascapé - M. Del Piazzo, Insegne e simboli. Araldica pubblica e
privata medievale e moderna, Roma, 1983, p. 140.
[19]
Bazzi, op. cit., pp. 86-87.
[20]
Ibid.
[21]
Ibid., p. 88.
[22]
C. Rosmini, Dell’istoria di Milano, tomo IV, Milano, 1820, pp. 428-429.
[23]
F. Cognasso, I Visconti. Storia di una famiglia, Perugia, 2016, p. 85.
[24]
La vicinanza di queste località al Lago d’Orta è interessante, perché il luogo
porta con sé la leggenda di san Giulio che, giunto sulle sue sponde, avrebbe
scacciato tutti i serpenti che vi vivevano; anche in questo caso, però, è
difficile dire se la storia abbia in qualche modo influenzato la nascita dello
stemma, ma appare poco probabile.
[25]
M. Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari, 2007, p. 361, n. 39.
[26]
Cfr. G. Vigotti, La diocesi di Milano alla fine del secolo XIII. Chiese
cittadine e pievi forensi nel Liber sanctorum di Goffredo da Bussero,
Roma, 1974, p. 9. Esiste peraltro una teoria per la quale l’antico nome del
paese fosse Angularia, a cui forse ha attinto il Pastoreau, ma ciò non è
attestato da alcun documento.
[27]
Stefanardo da Vimercate, Liber de gestis in civitate Mediolani II.
[28]
Cfr. ad esempio, oltre al già citato Bonvesin, Dante (Pur. VIII 80) e
Petrarca (Fam. XX 1); da notare peraltro che in Francia la biscia
araldica è sempre chiamata guivre o vuivre.
[29] G. P. Bognetti, L’età longobarda, vol. I,
Milano, 1966, p. 70, n. 83.
[30]
Essi erano Ariprando, Ardengo, Azzone (Azo),
Guido (Wido), Guglielmo, Lantelmo, Obizzo, Ottone (Odo), Ruggero (Hrodger),
Tebaldo (Theutpald) e Uberto (Hubertus).
[31]
A. Bazzi, Per la storia dello stemma del Ducato di
Milano, in Arte lombarda. Atti del convegno Umanesimo: problemi
aperti, num. 65/2, 1983, p. 84.
[32] Vita Barbati episcopi Beneventani 1 (trad.
dell’Autore).
[33]
Galli, op. cit., p. 365.
[34]
G. Binazzi, La sopravvivenza dei culti tradizionali nell’Italia tardoantica
e altomedievale, Milano, 2008, pp. 84-87.
[35]
Num. 21, 4-9; II Re 18, 4.
[36]
Landolfo Seniore, op. cit., I 13.
[37]
Morigia, op. cit., II 11, pp. 341-342.
[38]
Cfr. ad esempio Benzo di Alessandria, Chronicon
III 23.
[39]
Galli, op. cit., pp. 374-379.
[40]
Gion 2
[41]
Cfr. E. A. Arslan (a cura di), Milano e la Lombardia in età comunale (secoli
XI-XIII). Catalogo della mostra, Milano, 1993, p. 349, n. 150.
[42] G. Andenna, I
conti di Biandrate e le loro clientele vassallatiche alla prima crociata,
in Giancarlo Andenna - Renata Salvarani, Deus non voluit. I Lombardi alla
prima crociata (1100-1101). Dal mito alla ricostruzione della realtà,
Milano, 2003, pp. 234.
[43]
Quest’ultimo personaggio è puramente romanzesco: la
storia di Eginaldo Cadamosto e Sterlenda Poccalodi, ambientata nel 1299, è in
realtà ottocentesca, ed è un’estensione letteraria della leggenda del vescovo
Talenti, che vedremo in seguito (P. A. Curti, Tradizioni e leggende di
Lombardia, Milano, 1857, vol. IV); l’autore ha tratto tutte le vicende e i
personaggi dal discorso di Defendente Lodi (v. infra).
[44]
Anche questa è un’invenzione del Curti, parte della
storia di Eginaldo (v. n. supra).
[45]
U. Aldrovandi, Serpentum et draconum historia,
Bologna, 1640, pp. 422-423; le didascalie riportano per la precisione “draco
Aetihiopicus” e “draco alter Aethiopicus mas cum
eminentijs dorsi” (da notare che anche quest’ultimo viene usato, in
alternativa all’altro, come immagine di Tarantasio).
[46]
Il culto di Mefite a Lodi Vecchio è testimoniato da CIL
V 6353.
[47]
C. Vignati, Storie lodigiane, Milano/Lodi, 1847, pp. 170-171.
[48]
Ibid. p. 159.
[49]
Ibid. n. 2; studi dell’epoca identificarono l’animale
a cui apparteneva il cranio con un “alce d’Irlanda”, ovvero un megacero (cfr. G.
B. Brocchi, Conchiologia fossile subappennicia, Milano, 1843, pp.
511-515).
[50]
Ciseri, Giardino istorico lodigiano,
Milano, 1732, in
Vignati, op. cit., p. 159, n. 1.
[51]
G. Cairo - F. Giarelli, Codogno e il suo
territorio nella cronaca e nella storia, Codogno, 1877, p. 21.
[52]
A. Cerizza, La spina del drago, in Archivio Storico Lodigiano, CXIX,
2000, pp. 29-62.
[53]
Legenda aurea
105.
[54]
Ciseri, op. cit., p. 10.
[55]
Il testo latino (trad. dell’Autore) è riportato in D. Lodi, Discorsi
historici, Lodi, 1629, VIII; per altre narrazioni della leggenda, cfr. ad
esempio G. B. Villanova, Historia della città di
Lodi, Padova, 1657, pp. 113-114; Ciseri, op. cit., pp. 9-10, il
quale aggiunge che “trovandosi già edificata la Chiesa di S.
Cristoforo, posseduta da’ PP. Umiliati fino all’anno 1229, fu fatta ritornare,
o riedificata dalla Città per essere cadente.”
[56]
G. Molossi, Memorie d’alcun uomini illustri della città di Lodi, Lodi,
1776, pp. 82-83, n. n.; il decreto, rogato dal notaio
Antonio Barone, risale al 29 aprile, dopo la morte del vescovo, avvenuta il 7
marzo.
[57]
Curti, op. cit., p. 73.
[58]
A. Zambarbieri, Terra, uomini e religione nella Pianura Padana, 1983,
pp. 11-13.
[59]
M. Pastoureau, Bestiari del Medioevo, Verona,
2012, p. 258.
[60]
F. Villani, Federico, ovvero Lodi riedificata,
Lodi, 1828, II 20, 1-33 e 51-84.
[61]
Cfr. P. L. Mulas, Le Memorie antiche detti monasteri di Lodi e Villanova
di Vincenzo Sabbia, in Archivio Storico Lodigiano, CXI, 1992, pp.
5-102.
[62]
D. Lodi, op. cit.; il Cerizza fa comunque notare che un primo nucleo
abitativo con una chiesa doveva già esistere in epoca longobarda anche a Lodi
Nuovo, e identifica l’alluvione che formò il Gerundo con quella riportata in
Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, III 23-24 (cfr. Cerizza, op.
cit., p. 61-62).
[63]
Riguardo la Cascina Taranta, frazione di Cassano
d’Adda (un paese che doveva essere sulle sponde del Gerundo), e che si vorrebbe
ricollegare etimologicamente alla creatura, essa risale al 1539 (cfr.
lombardiabeniculturali.it), ma sappiamo dal Catasto Teresiano del 1722
(Cassano, f. 2) che all’epoca aveva un nome diverso, ovvero Cascina Bruggiada:
è evidente che essa è stata rinominata Taranta solo negli ultimi secoli.