Chi
si avvicina allo studio delle tradizioni afroamericane arriva inevitabilmente a
conoscere da un lato il vudu di matrice dahomeiana (con le sue varianti
haitiane, dominicane e così via) e dall’altro la religione lucumì di matrice
yoruba (in particolare nella sua veste più recente e filosofica, l’umbanda). La
prima differenza che salta all’occhio è sicuramente la struttura del pantheon:
nella seconda si adorano gli orisha, un insieme di dèi ben strutturato, ognuno
con le sue potestà e caratteristiche, e con una mitologia complessa; nella
prima, invece, abbiamo i loa, una caotica accozzaglia di dèi africani, creoli
divinizzati, antenati mitici, spiriti indios e via discorrendo, con una mitologia
scarna o inesistente che varia da tempio a tempio (solo la variante dominicana
sembra avere una serie di miti abbastanza condivisi).
Tuttavia,
nel corso del tempo, alcuni orisha sono entrati a far parte del pantheon dei
loa, in un sincretismo molto caratteristico del vudu: ne sono un bell’esempio
Oyà, la dea delle tempeste, e il suo sposo Shango, che ora viene considerato
come aspetto di Ogun, per quanto nei miti yoruba i due dèi non solo siano ben
distinti, ma anche eterni rivali. È però giusto notare che questa non è la regola:
spesso e volentieri ad alcuni loa sono state date caratteristiche degli orisha
anche in vista del fatto che si adattavano molto bene, anzi, così bene da far
venire il dubbio che all’inizio le entità in questione non fossero distinte.
Volevo
dunque proporre una serie di ipotesi su cui riflettere riguardo l’origine di
alcuni loa e del rapporto che essi avrebbero avuto in principio con gli orisha:
va da sé che si tratta di mere supposizioni, anche perché le fonti documentarie
precedenti al secolo scorso sono quasi inesistenti, essendo che gli Africani
non scrivevano, né da una parte né dall’altra dell’Atlantico. Spero comunque
che gli accostamenti e la logica dei ragionamenti possa essere persuasiva su
tematiche che ancora non sembrano essere state trattate come si deve.
A
questo punto, però, pare opportuno un discorso preliminare su come funzionano
le cose nella terra d’origine di questi dèi, l’Africa. Per quanto ne sappiamo,
nelle zone di lingua ewe e fon (ovvero quelle dei popoli che avrebbero
originato il vudu americano), il termine “loa” è assente: esso è infatti una
parola congolese che indica genericamente uno spirito, ed è forse il più
importante lascito della cultura bantu a quella religione (almeno a livello linguistico).
In quelle regioni dell’Africa (Benin, Togo, Ghana, Nigeria e così via) si usa
piuttosto il termine “vudu”, che indica il feticcio, ovvero la rappresentazione
fisica della divinità che permette alla stessa di manifestarsi, in una
concezione più animistica. Ciò implica che ogni villaggio ha uno o più vudu
locali, che non costituiscono un pantheon strutturato; la stessa religione
ufficiale dell’antico Impero del Dahomey (il cosiddetto vodun) era un culto
gerarchizzato, con iniziazioni su votazione e stretta dipendenza dal re. Le
uniche caratteristiche mitiche che sembrano restare costanti sono le due figure
divine creatrici, la dea della luna Mawu e il dio del sole Liza, che avrebbero
generato tutti i vudu esistenti, fra i quali quelli che godono di maggior considerazione
e diffusione in Africa sono il Serpente dell’Arcobaleno e Legba.
Il serpente celeste
La
divinità serpentina che incarna i sette colori dell’iride è praticamente
diffusa nella maggior parte delle popolazioni nere, e le zone di lingua ewe e fon
non fanno eccezione: il suo nome, in questi luoghi, è Dan (che significa
“serpente”), e il nome completo sarebbe Dan-Ayida-Wedo. Nei Caraibi, i serpenti
celesti sono ben due: Damballah Wedo e Ayida Wedo, i sovrani di tutti i loa
(almeno nella concezione haitiana), entità sapienti e pure per eccellenza,
tanto che non accettano offerte come alcolici o tabacco, si lavano in acqua
pulita e si nutrono per lo più di cibi bianchi; essendo maschio e femmina,
possono venire cultuati separatamente, ma il loro vever (la rappresentazione simbolica che serve a invocarli) li
raffigura sempre entrambi. Non è dunque difficile immaginare che l’originario
Dan-Ayida-Wedo si sia scisso in una coppia di dèi: a supporto di ciò, anche fra
gli orisha esiste il serpente dell’arcobaleno, ovvero Oshumare, che è al tempo
stesso maschio e femmina (oggi esiste peraltro Damballah Nagò, cioè “Damballah
della Nazione Yoruba”, come loa identificato in maniera completa con Oshumare).
Tuttavia,
anche un altro orisha sembra condividere alcune caratteristiche di Damballah,
vale a dire Obatalà/Oxalà: egli è il dio della bellezza, dell’arte e della
maturità, come anche di tutto ciò che è in alto, è saggio e governa sulle idee
e i pensieri; viene cultuato con offerte di cibi bianchi, e gli sono sacri la
colomba e il serpente. Non sembrano esserci loa che lo incarnano completamente,
eppure le sue similitudini col re degli dèi sono palesi: credo non sia azzardo
ritenere allora che Damballah stesso sia l’unione dell’originario serpente
celeste (o per lo meno della sua parte maschile) e di Obatalà, che avrebbe
forse prodotto il nome stesso, ciò Dan-(o)batalà (il nome può venire trascritto
in moltissimi modi, come Danbalah, Dabala, e via dicendo).
Normalmente
si ritiene che Obatalà sia piuttosto confluito in Ogun Batalà ma, se ciò fosse
anche avvenuto, sarebbe stato giusto notare che le assonanze tra i due dèi sono
piuttosto deboli: questo Ogun in effetti è quello che primariamente combatte
contro le forze avverse, ma per il resto viene cultuato esattamente come gli
altri della sua famiglia; mi trovo dunque più favorevole all’ipotesi che vede il
nome derivare dallo spagnolo batalla
(battaglia).
Vecchi e giovani agli incroci
In
Africa, Legba è il nome in cui viene chiamato Eshu nelle lingue locali: si tratta
della divinità che presiede alle strade e agli incroci, è il messagero degli
dèi ma anche un trickster e un
portatore di discordia, conosce la magia, adora fare scherzi e ha un carattere
difficile (non per nulla è un dio giovane, quando non proprio un bambino).
Tutte queste caratteristiche le ha conservate nella sua versione yoruba, ovvero
Elegguà (in maniera minore come Elegbarà), ma è diametralmente opposto al Legba
afroamericano, che appare invece come un vecchio benevolo, carico di anni e che
si regge a un bastone o a una stampella (per questo sincretizzato con san
Lazzaro), e che porta una sacca piena di mais. Un’iconografia, come detto, che
non riscontriamo in nessun Eshu africano: resta la potestà sui passaggi, ma la
cosa finisce lì.
Tra
gli orisha esiste però un dio che appare come il Legba di Haiti, ovvero Babalù
Ayè/Omolù, il signore delle pestilenze e corrispondente all’africano Sakpatà:
si tratterebbe di un appestato che, appoggiato a stampelle o bastoni, viaggia
per la terra con fare incessante, portando con sé le malattie, ma anche
curandole; reca sempre una borsa piena di cereali, come segno di abbondanza, ed
è identificato con san Lazzaro. È inutile dire che, tolta la valenza medica, la
figura combacia perfettamente con l’iconografia di Legba, e ha dunque senso
pensare che Babalù Ayè si sia una certa qual maniera “scisso”: la parte che
concerneva le pestilenze, e di conseguenza la morte, è passata alla ben più
preponderante figura di Ghede, mentre i suoi attributi sono confluiti in Legba,
rendendolo di fatto un dio diversissimo da quello originario. È ancora una
volta solo il vudu dominicano ad aver ridato all’orisha un posto tra i loa,
come Legba Pied Sabatà, ma è giusto dire che questa operazione è stata fatta in
vista delle pesanti influenze yoruba (non a caso questa religione viene anche
detta “santeria dominicana”).
Resta
comunque un quesito importante: da dove il Legba caraibico ha preso le sue
potestà? In effetti, a differenza dell’Eshu africano e delle sue controparti
americane, Legba è una divinità onnipresente ma che solo di rado prende
possesso degli uomini; è un essere estremamente elevato e, più che un
messaggero, è un vero e proprio collegamento fra i mondi. Fra gli orisha esiste
una divinità con queste caratteristiche, ovvero Orulà/Orumilà, il primo tra gli
dèi, messaggero del dio creatore Oloddumare e signore di ogni conoscenza (non a
caso è padre di Ifà, che dovrebbe però essere un mito successivo); e, del resto,
le sue storie lo collegano a Elegguà. Come nel caso di Oshumare, anche Orunmila
oggi può essere cultuato nel vudu, appunto come Legba Afà.
Tuttavia,
dato che gli dèi non scompaiono mai, pare lecito domandarsi che fine abbia fatto
l’Eshu vero e proprio nel vudu. In effetti, una delle forme più cultuate di
Legba, Met’ Kalfu, il giovane dio della magia e oscuro signore dei crocicchi, è
oggi parte del pantheon Petro; tuttavia, secondo alcune versioni, egli sarebbe
un Rada, e in questo mi trovo d’accordo: ha infatti senso pensare che Met’ Kalfu
(letteralmente “Signore del Crocicchio”) fosse in origine la variante vudu di
Eshu, soppiantato poi da una versione più benevola, e quindi relegato a “ombra”
della stessa. Non può dunque essere un caso che Legba abbia delle varianti propriamente
Petro (come Legba Le Flambeau o Legba Kriminel), mentre Met’ Kalfu gode di un
culto tutto suo (cosa che non avviene, per quanto ne sappiamo, a nessun altro
loa che sia il Petro di un Rada, a parte forse Erzulie Dantor); inoltre la sua
variante di New Orleans, Papa La-Bas, è il diavolo dei crocicchi più che
l’apritore dei passaggi, e nelle forme religiose più recenti Met’ Kalfu è stato
accostato immediatamente agli Exu della quimbanda.
Erboristi, sacerdoti e cacciatori
L’erboristeria
ha una valenza predominante nei culti africani e afroamericani: ogni dio ha la
sua pianta, che va raccolta in determinate ore e a certe condizioni, per
ottenere degli effetti specifici; non deve dunque sorprendere se, nel pantheon
yoruba, ben due dèi si contendono il patronato di quest’arte, ovvero Osain
(l’orisha erborista vero e proprio) e Oshosi (l’orisha cacciatore, ma che
possiede anch’egli questa sapienza). Di fatto anche il vudu dovrebbe avere dei
loa erboristi, ma qui la faccenda è più complicata, perché ne abbiamo almeno
quattro, ovverosia Ossagne, Loko, Gran Bois e Ogun Ashadé, più eventualmente
altri che però non rivestono un ruolo di assoluta preminenza nell’arte in
questione (come Simbi D’lo). Dunque, chi è chi?
Ossagne
è chiaramente Osain, è questo ormai è accertato sia tra gli studiosi che tra i
praticanti; tuttavia, la sua collocazione all’interno del pantheon non è
chiara: alcuni lo associano alla famiglia di Damballah, chiarendo che la sua
saggezza si attua in terra solo tramite Loko, mentre altri lo inseriscono negli
Ogun, ma distinguendolo dal summenzionato Ashadé, dando a intendere che il suo
ruolo è unicamente erboristico e non guerriero (il che è abbastanza strano,
vista la famiglia, anche se non sarebbe un caso isolato). Di certo Osain non è
riuscito a guadagnarsi un posto di preminenza fra i loa, forse per la presenza
di questi suoi altri “concorrenti”.
Loko,
il primo sacerdote, dovrebbe dunque essere l’erborista per eccellenza, privo di
qualsivoglia altra potestà se non, per l’appunto, quella sacerdotale: egli non
è nient’altro che una variante dell’orisha Iroko, che rappresenta l’Albero del
Mondo e il collegamento tra uomini e spiriti nonché, in quanto dio-pianta,
patrono dell’erboristeria. Di base, avrebbe senso che la figura di Osain sia di
fatto confluita in lui, che nel vudu è considerato il grande erborista, e che
solo successivamente Ossagne sia ritornato nel pantheon, in forma per così dire
più “elevata”, ma non più selvaggia. E questo perché il signore della foresta
(anzi, del monte) è Gran Bois.
Questi
è un loa piuttosto misterioso, e di nazionalità incerta: viene cultuato come
Petro, ma senza alcun dubbio la sua origine non è creola, in quanto si tratta
di uno spirito della natura; ha dunque senso ritenere, come fanno alcuni, che
sia un Congo entrato solo successivamente nei Petro per motivi cultuali, alla
maniera di Simbi o di L’Inglesou. Egli è raffigurato come un uomo-albero,
signore di Ville au Champs, patrono dei maghi e dunque dell’uso delle erbe a
scopo magico, uno spirito di concezione animistica in questo senso molto bantu;
alcuni lo vorrebbero come manifestazione di Loko/Iroko, ma a conti fatti sembra
essere un loa ben distinto che poco ha a che fare col sacerdozio e, in
generale, con la vita comunitaria umana. Proprio per questa sua selvatichezza
avevo pensato che il summenzionato Oshosi potesse essere confluito in lui, ma
l’origine e la preminenza dell’erboristeria di Gran Bois mi hanno indotto a
ritenere altrimenti. Essendo una divinità bantu, è più probabile allora che sia
la forma vudu di Kenke/Favorito, il dio erborista del palo monte, e possa davvero
essere, in un certo senso, associato a Loko come uomo-albero.
È
dunque possibile che il dio cacciatore Oshosi si celi oggi sotto Ogun Ashadé
(in origine un re dahomeiano), che come ogni membro degli Ogun è una divinità
guerriera, ma in questo caso specializzata nella magia delle erbe: non sembra
avere l’attributo specifico della caccia, ma questo può essere semplicemente
andato perso e rimasto solo nella sua appartenenza alla famiglia, che in questo
caso ha un senso molto chiaro. Nei culti yoruba, paradossalmente, Oshosi sembra
aver avuto maggior fortuna come erborista di Osain, mentre nel vudu le cose
paiono essersi mischiate molto più che altrove: non dobbiamo infatti
dimenticare che, nella sua variante dominicana, il vudu identifica Oshosi con
Centinela Tibunal, deprivandolo delle sue caratteristiche di erborista e
accentuando quelle di cacciatore e protettore.
Gli dèi della morte
Per
quanto strano possa sembrare, il pantheon yoruba è abbastanza distante dalla morte:
esiste il culto degli antenati e ha una sua rilevanza, ma gli dèi legati al
concetto di morte sono pochi. Viceversa, il vudu ha da sempre avuto come suo
simbolo presso i media proprio il dio dei morti, Ghede, e per quanto la sua
origine sia misteriosa come quella degli altri loa, su di lui qualcosa
sappiamo: non è una divinità yoruba, ma era il vudu della tribù dei Ghedevi,
deportata in massa in America (sacerdoti inclusi, quindi) dopo essere stata
sconfitta dal re del Dahomey; è sempre per questa ragione che in Africa il
culto di Ghede è quasi estinto, mentre a Hispaniola i deportati dovevano essere
così numerosi da aver potuto imporre il loro patrono come una delle divinità
principali. Non deve dunque sorprendere se la sua figura non trova corrispondenza
alcuna presso gli orisha: tutt’al più, come visto, può aver acquisito determinate
potestà e caratteristiche da altri dèi (le pestilenze da Babalù Ayè e forse il
ruolo di trickster e burlone da
Elegguà).
Ghede
(e in particolar modo il Barone) ha ovviamente una sposa, Maman Brigitte, che
viene cultuata molto spesso dai praticanti di magia, e il cui ruolo può
tranquillamente risultare paritario a quello del marito; la tradizione vuole
che essa sia giunta con l’arrivo dei migranti irlandesi nei Caraibi, che
avrebbero dunque portato santa Brigida. Ritengo sia comunque probabile che il
nome e l’iconografia siano stati sovrapposti a una divinità preesistente,
stavolta di matrice yoruba, ovvero Yewá. Questa dea, anche detta Ewa e quasi
scomparsa nell’umbanda, è la personificazione della morte e del destino
ineluttabile, identificata con santa Chiara e con la Vergine Addolorata; casta
e antropofaga, è la signora dei cimiteri e presiede alle cerimonie funebri
(soprattutto a quelle dei sacerdoti), e le sue sacerdotesse sono vincolate al
divieto permanente di pratiche sessuali. La sovrapposizione con Brigitte è
fortissima, molto più che con Oyà Yansà che, pur essendo una dea cadaverica e
legata alla morte, è anzitutto una dea delle tempeste e della magia (cultuata
nel vudu assieme a Shango e nella famiglia degli Ogun); ritengo dunque che in principio,
quando Ghede divenne così popolare da diventare il signore della morte in tutta
Hispaniola, Yewà gli sia stata affiancata come sua sposa, e solo
successivamente abbia preso il nome di Brigitte.