Da
sei anni mi capita ormai di passare buona parte del mese di agosto in un paese nei
pressi di Varese, Venegono Superiore, quello che a primo acchito potrebbe
sembrare l’ennesimo paesino di provincia, senza nulla di interessante.
Tuttavia, sia per la suddetta permanenza che per il fatto di averci trascorso
buona parte della mia infanzia (è la residenza dei miei nonni materni e dei
miei zii e prozii), mi sono ritrovato a osservarlo per tanto tempo, e un
posticino nel mio cuore se l’è lecitamente scavato.
Nell’estate
2012, ricordando vagamente che c’erano stati dei processi per stregoneria in
zona, avevo creato un personaggio per il gdr Kata Kumbas che era per l’appunto
uno stregone, e che veniva dal Monte Rosso, una delle zone di Venegono. È stato
da quel momento che, col passare degli anni, mi sono sempre più reso conto di
quanto il paesino avesse da offrire a un occhio attento. Ho dunque deciso di
mettere per iscritto quanto scoperto, a metà strada fra un saggio e un diario,
visto che si tratta per buona parte di miei ricordi degli anni passati.
Seguendo
la strada che da Venegono Inferiore porta al suo omonimo Superiore, e passata
una suggestiva casa rosa con una piccola torre, si giunge alla piazza con la
chiesetta di Santa Caterina; lì accanto, fino a qualche giorno fa c’era una
strepitosa trattoria, il Pancia Piena, che faceva fin troppo onore alla sua
nomea: ci ho mangiato una sola volta, e credo che la risata isterica che ho
fatto quando, ormai sazio, ho visto altri piatti d’antipasto arrivare dalla
cucina, possa di per sé dire tutto. Voglio rendere omaggio anche ai
gentilissimi proprietari e al calice colmo di Braulio che per loro contava come
“digestivo”.
Bei ricordi... |
Proseguendo
si va verso il centro, dove sorge la parrocchia dedicata a san Giorgio, patrono
del paese, il quale, come la maggior parte dei vecchi santi patroni, ormai non
conta quasi più nulla nella devozione popolare, schiacciato dai leziosi culti
dell’Età Moderna. Ma, detto fra noi, non che sarebbe cambiato qualcosa, perché
siamo comunque molto vicini a Milano, e come sempre in queste zone non è il Santo,
ma il Drago a farla da padrone.
È
quindi un caso che l’attuale sindaco sia un Crespi?...
Il guaritore in mezzo al bosco.
La fontana del monumento ai caduti, che fa da ingresso al Monte Rosso. |
Prima di giungere alla suddetta piazza centrale, ci sono alcune strade sulla sinistra che salgono verso l’alto: una di queste (quella con la fontana) porta al quartiere più esclusivo di Venegono, il cosiddetto Monte Rosso, una zona residenziale composta esclusivamente da ville con ampi giardini boschivi, immerse in un silenzio quasi irreale. Da lì, proseguendo verso est, si estende l’immensa distesa del Pianbosco, un grande polmone verde che separa i comuni del Varesotto da quelli del Comasco, di cui solo alcune zone sono abitate, ville più o meno isolate fra loro immerse in una foresta d’altri tempi.
Proseguendo
però verso nord, portandosi sul limitare (o se preferite sulla cima) del Monte
Rosso c’è una stradina sterrata che si inoltra per qualche decina di metri
nella vegetazione, fino ad arrivare a un cancello, che si apre su una grande
distesa d’erba circondata dal fitto del bosco. In teoria si sarebbe già entro
il comune di Vedano Olona, il quale però è molto distante, e vi si arriva solo
tramite un secondo sentiero spesso battuto dai cercatori di funghi, che passa
vicino al vecchio lazzaretto. All’interno di questa grande radura sorgono due
edifici: in lontananza, un vecchio cascinale, e a metà strada fra questo e il
cancello un edificio più piccolo, rustico e imbiancato, con un posteggio per 4
o 5 auto. Tutta questa proprietà prende il suggestivo nome di Cascina del
Trono, e fino a qualche anno fa vi abitava un segnatore, il “Giulio da Venegon”
o il “Giulio Medegón”.
Il rustico dove operava il segnatore di Venegono. |
I miei nonni lo conoscevano sin da quando si era trasferito al Trono dalla nativa Milano: lui faceva il ragioniere, loro gestivano un bar in paese, in un’epoca nella quale il mondo era più piccolo; mia madre ha tenuto all’asilo sua figlia, e insomma, si sono sempre un po’ frequentati. Inutile dire che anche io, sin da quando ero molto piccolo, accompagnavo mia madre a farsi segnare con una certa regolarità. All’epoca per me era una cosa normale, e anche un po’ noiosa visti i lunghi tempi d’attesa, ma non è che mi desse fastidio; col senno di poi, era anche molto suggestivo.
La
mattina si entrava dal cencello, sempre aperto, e si posteggiava la macchina
dove si poteva: spesso il parcheggio era già occupato, e idem i lati del
sentiero accanto all’edificio, ma a volte si era fortunati e si riusciva a
posteggiare in maniera decente. Entrati, c’era una sala d’attesa (o per meglio
dire un corridoio) poco illuminata e molto spoglia, con un attaccapanni e
un’ombrelliera vicino alla porta, e una decina di sedie; dietro l’angolo, un
piccolo bagno nel quale non ricordo di essere mai entrato. Sulla destra c’era
la porta dello studio, con eventuali avvisi attaccati sopra (come quella di un
dottore), e un piatto di ceramica appeso sopra di essa, con il simbolo del
Giulio: una croce e un triangolo sospesi in cielo che emanavano luce, la quale
teneva a bada un groviglio di rovi neri che sembrava risalire dal basso.
Lui iniziava
a lavorare più o meno alle 5 del mattino, se non prima (tutto questo, ovviamente, dopo essere
andato in pensione), e già a quell’ora c’era diversa gente ad attendere sulla
porta; verso le 8 andava in pausa caffè, e riprendeva per il resto della
mattinata, più o meno fino a mezzogiorno, ma spesso a oltranza: di più, diceva
la gente in attesa, non riusciva a fare, anche considerato che era sulla
settantina. In ogni caso le persone lì sedute chiacchieravano del più e del
meno, o uscivano a fumare o a prendere aria, e dato che spesso ritornavano (e
nei medesimi giorni, causa orari di lavoro) finivano per conoscersi:
un’atmosfera un po’ più intima rispetto a quella che si viene a creare nello
studio di un medico.
Spesso
e volentieri il Giulio (all’anagrafe Giulio Obbialero) usciva dallo studio
accompagnando la persona che aveva appena finito di visitare, si guardava
attorno e vedeva se c’era gente che sapeva avere casi urgenti o semplice fretta di dover tornare al lavoro, e la faceva accomodare prima degli altri. Era un
uomo anziano, non molto alto, con gli occhi sporgenti, pochi denti, la
pelle coperta di macchie e porri tanto da apparire quasi spaventoso a me che
ero un bambino; compensava però con un viso sorridente, una voce squillante, e un
carattere sempre allegro ed espansivo, ma al contempo cordiale e molto diretto.
Profondamente religioso e convinto cattolico, era un appassionato di storia che
ogni tanto si lasciava andare a frasi un po’ poco ortodosse come “Non dirlo ad
alta voce, che gli dèi ascoltano!”, il tutto perfettamente inserito nel
paradigma della religiosità popolare e della credenza sulla magia; in effetti
la gente lo definiva un “pranoterapeuta”, ma credo che fosse una dicitura un
po’ new age messa in giro da qualcuno, perché il Giulio con le discipline
orientali non c’entrava proprio nulla.
Lo
studio era una grande stanza arredata in maniera (involontariamente)
suggestiva: il centro di tutto era una grande scrivania di legno, oltre la
quale c’era la scala per andare al piano di sopra, e nell’angolo sinistro un
camino sempre spento; la finestra era sulla destra, e a entrambi i lati della
stanza c’erano mobili di legno dall’aria molto vetusta. In generale, per lo
meno nei miei ricordi, c’erano molti oggetti su quei mobili, in particolare la
grande statua di san Rocco, colui che allontana i mali, con tanto di cane e
bastone non intagliato. Il Giulio sedeva alla scrivania, e dietro di lui
spiccava una grossa foto in bianco e nero, in una cornice ellittica in legno
lavorato, raffigurante una distinta signora, ovvero sua nonna.
Lui
raccontava spesso di come fosse stata lei ad accorgersi della sua virtù, quando
da bambino aveva notato come fosse in grado di tranquillizzare gli animali con
estrema facilità. Anche lei era ovviamente una segnatrice, e a giudicare
dall’età del Giulio, deve essere stata operativa tra la fine dell’Ottocento e
l’inizio del Novecento: era di Milano e, forse in vista del fatto che le città
creano collegamenti più facili, c’era gente che veniva su anche dalla Calabria
per farsi segnare da lei. Il nipote, operando in un paesino di provincia ed
essendo schivo di natura (non ha mai rilasciato interviste né si è mai fatto
pubblicità, e infatti credo che questo articolo sia più o meno tutto quello che
troverete su di lui), aveva certo clienti che vengono da più vicino, ma solo per
modo di dire: la gente in sala d’attesa veniva dal Varesotto, ma anche dal
Comasco, dal Milanese, dalla Svizzera e probabilmente anche da oltre. Inoltre,
a giudicare da quanta gente c’era ogni mattina, per tutti quegli anni, sono
abbastanza sicuro che il numero di clienti fosse comunque enorme.
Operava
in maniera molto classica, nell’ambito della segnatura, ma non era
specializzato in qualche male particolare. L’ho visto fare i suoi “interventi
di routine” numerose volte: aveva dei bigliettini con il suo simbolo (quello del
piatto), dietro ai quali erano riportate alcune frasi del Vangelo; in genere li
piegava fino a formare un triangolo, sui lati del quale tracciava in penna
alcuni simboli (il punto, il cerchio, la croce fatta da quattro linee quasi
come un cancelletto, e il pentacolo, che si ritrova molto raramente in
segnatura), e poi li segnava con un grosso chiodo senza punta, riproduzione di
uno di quelli di Cristo, benedetto e messo in giro dalla Chiesa in numero
ristretto di esemplari, non si ricordava nemmeno più quando. Lo strumento più
significativo era però una scatolina piatta e tondeggiante, talmente coperta di
vecchio nastro adesivo da risultare marrone scuro, che usava per segnare
direttamente la persona: non ho idea di che cosa ci fosse dentro, da tradizione
poteva essere un insieme di erbe, medagliette, oggettini consacrati e via
dicendo, il tutto però legato a lui personalmente. Si metteva anche a
“costruire” piccoli feticci (chiamiamoli così) che i pazienti potevano portarsi
a casa: ad esempio una croce formata da due immaginette della Madonna, tenute
assieme da graffette, o una corda con vari nodi, o ancora medagliette da
strofinare nei momenti di bisogno.
Ovviamente,
come da buona tradizione, non chiedeva nulla, ma era le gente a lasciargli
un’offerta: mia madre già pagava in denaro (non molto, ma del resto ci andava
credo una volta al mese o quasi), ma tanti portavano salami, bottiglie di vino
e cose simili. La gente andava volentieri da lui anche solo per la sua estrema
disponibilità: tutti sapevano che, in momenti di grande crisi (e se eri
abbastanza in confidenza da poterlo disturbare fuori dall’orario di lavoro),
potevi chiamarlo a casa; mia madre racconta di come una volta, al telefono,
l’abbia fatta sedere e detto di “segnarsi” da sé mentre lui diceva alcune
preghiere. Le sue competenze, va detto, non si limitavano ai mali fisici: sempre
mia madre racconta che una volta lo ha sentito distintamente recitare una
preghiera d’esorcismo su un qualche paziente, e insegnava senza problemi
preghiere per allontanare persone fastidiose o nocive. Poi, va da sé, la gente
arrivava anche a credenze superstiziose come il fatto che potesse influenzare
il corso degli eventi e, ad esempio, fare arrivare una persona a destinazione
senza trovare traffico, al che lui rispondeva seccamente con frasi tipo “Ma
adesso attribuite a me ogni cosa che vi capita?!”
Quando
ormai ero già grandicello, e iniziavo a interessarmi di queste cose, la figlia
ne aveva preso il posto nello studio grande, e lui si era trasferito in uno più
piccolo fatto costruire poco tempo prima fra la parete a ovest e la porta del bagno (quando appunto la figlia aveva
iniziato a segnare, dopo aver seguito anche corsi di pranoterapia e similia);
lo studio era stato impostato da lei in maniera forse più fredda, ma
sicuramente più funzionale, con visite su appuntamento e un’offerta fissa di 10
euro (per evitare di arrivare a fine mese con 100 euro in contanti e mezzo
quintale di salami in cantina). Quando poi lui si è ritirato, ormai troppo
vecchio per continuare e dopo essere tragicamente rimasto vedovo, il tutto è
più o meno finito lì, fino alla sua morte in età piuttosto avanzata. La figlia,
trasferitasi a Busto Arsizio dopo essersi sposata e aver avuto un figlio, ha
operato per qualche tempo in uno studio che faceva pratiche come iridologia, reiki
e così via, per poi semplicemente smettere. Mi sento però di dire che, anche
solo a livello umano, il Giulio di Venegono ha lasciato un grande vuoto nel
cuore di tantissime persone.
Un po' di oggetti da segnatura creati dal Giulio di Venegono. |
Il demone maestro e il santo visitatore.
Santa Maria alla Fontana, ottima chiesa dove reclutare giovani streghe. |
Negli
ultimi anni, grazie a una posizione maggioritaria più moderata degli studiosi
sulla questione dei processi per stregoneria (ovvero una via di mezzo tra
Margaret “Un Grande Culto Stregonesco Europeo” Murray e Norman “Isteria di
Massa & Tutte Cazzate” Cohn), anche a Venegono si è scoperto che c’erano le
streghe. Nel 1999, Anna Marcaccioli Castiglioni ha riesumato alcuni testi dell’archivio
dei suoi nobili antenati, scoprendo che nel 1520 il magnifico signore
Fioramonte Castiglioni aveva fatto chiamare l’inquisizione perché il
figlioletto era morto in culla a causa di un maleficio. Il frate domenicano Gioacchino
Beccaria arriva in paese, sente un po’ di gente del posto e convoca alcune
persone, accusate di stregoneria.
Che
cos’era successo?
Caterina
Fornasari era una giovinetta che conduceva una vita normalissima, senza sapere
però che la madre Margherita era una strega. Elisabetta Oleari, quella a capo
del gruppo della zona (che contava persone di Venegono Superiore e Inferiore,
Castiglione e Vedano Olona) si informò presso di lei per sapere se la figlia
fosse o meno portata per diventare una strega a sua volta; la madre disse di
sì, dunque entrambe la presero da parte appena uscite dalla chiesa di Santa
Maria alla Fontana, dopo la messa natalizia, e le dissero di andare con loro in un posto. Lei non aveva motivo di rifiutare, dunque le seguì fino
alla sorgente del fontanile, dove incontrarono un uomo di mezz’età vestito di
scuro e con un cappello di nero che le aspettava sulla strada. Si presentò col
nome di Martino, e le due donne la invitarono a prenderlo come amante e
compagno; lei pensava che si trattasse di un semplice contadino, e lui di
contro le disse che, se lo avesse accettato come amante, avrebbe avuto giorni
felici e non le sarebbe mancato nulla.
Le
cose andarono avanti per alcuni anni: tutti i giovedì lei e le sue compagne si
recavano a casa di Elisabetta, che possedeva un unguento che, spalmato su dei
bastoni, permetteva di volare fino alla Silva Rupta (letteralmente il Bosco
Rotto, che noi oggi non abbiamo idea di dove fosse); lì c’erano i loro demoni
maestri ad aspettarle, uno per ognuna, e ovviamente Caterina cercava Martino e
aveva rapporti con lui. Lo spirito la prendeva sia da davanti, come fa il
marito con la moglie, sia da dietro, in quella maniera che altrove è detta mestlet; la ragazza non provava molto
piacere nell’amplesso in sé, in quanto il membro di Martino, forse per il fatto
che non era un essere umano, non era né turgido né caldo, ma adorava giacere
con lui perché la baciava, la accarezzava e la coccolava come nessun altro
faceva, dimostrandole quanto fosse importante per lui. Era il momento sacro
delle streghe, quello in cui smettevano di essere donne comuni, e divenivano
tramite tra il mondo materiale e l’Altrove.
Le
streghe, quando non stavano alla Silva Rupta, se ne andavano in spirito a
compiere vendette su coloro verso i quali avevano un qualche risentimento: non
colpivano mai direttamente, ma sempre facendo del male a ciò a cui questi
tenevano. Ed ecco allora che, infilandosi nelle serrature delle case e delle
stalle, toccavano i buoi e li facevano ammalare, cullavano i neonati e li
facevano morire, ed erano arrivate persino a toccare la gamba a un pastorello
durante il giorno, e questa non era più tornata sana. Il nobile Castiglioni,
signore di Venegono, non doveva essere uno stinco di santo se le streghe erano
arrivate a uccidere il suo figlioletto nato da poco: il problema era che questi
aveva i mezzi per vendicarsi, e infatti non aveva avuto paura di usarli,
ospitando l’inquisitore nel suo castello appositamente adibito a tribunale,
carcere e luogo di tortura. Era presente a quasi ogni interrogatorio,
osservando con sguardo duro e impassibile tutti i convocati, suscitando tanta
paura a Caterina che, continuando a implorare perdono, confessò tutto.
Ma
il Beccaria non era un inquisitore dalla condanna facile: ad esempio, liberò
quasi subito il povero Badono Fornasari, il fratello di Caterina, la cui unica
colpa era stata quella di accompagnare la sorella e la madre a fare delle
commissioni, senza capire che stavano facendo stregonerie. Un atteggiamento
simile lo tenne anche nei confronti delle donne: Margherita Fornasari, a causa
dell’età avanzata, morì in carcere, e fu forse per questo che le altre streghe
accolsero con gioia la sua proposta di patteggiamento, ovvero che se avessero
confessato sarebbe stata loro commutata una pena minore, come una penitenza pubblica
o una multa salata.
Dunque
tutte accettarono, sennonché il Beccaria venne richiamato alla sede centrale
per altre questioni (non che fosse strana come cosa), e sostituito con un nuove
inquisitore, Michele d’Aragona, che si ritrovò per le mani tutte le confessioni
delle streghe, ma non aveva nessun vincolo da rispettare riguardo al suddetto
patto, che non era stato lui a stringere. Indi per cui, quello stesso anno,
tutte le donne incarcerate vennero condannate a morte, decapitate e i corpi
bruciati tra le fiamme, inclusa ovviamente la povera Caterina.
Mi
è capitato più volte di domandarmi se il demone Martino si aggiri ancora per
queste zone alla ricerca di nuove adepte alle quali donare grandi poteri, e un
giorno, parlando di tutt’altro, mia nonna mi ha raccontato un aneddoto successo
diversi anni prima, ovvero che un eminente membro dei testimoni di Geova
residente in paese era solito attendere la madre (evidentemente cattolica) fuori
dalla chiesa di Santa Caterina, ed era solito vestirsi di scuro e con un
cappello nero, tanto che la gente non riusciva a non trovarlo inquietante… e a
parlarne male, manco fosse un demone. Anche se in effetti oggi i testimoni di
Geova fanno più paura dei demoni, a ben pensarci…
Ovviamente
anche Venegono ha i suoi santi ma, essendo comunque Venegono, persino essi
sembrano mutare. Nella seconda metà del Cinquecento anche di qui è passato
Carlo Borromeo, l’integerrimo e spietato arcivescovo di Milano, campione della
Controriforma, uniformatore di tutte le chiese, e grande persecutore di eretici
e streghe. In vita, egli era il fuoco dell’incendio che passava e distruggeva
ogni cosa che intendeva opporsi a lui, lasciando dietro di sé solo distese nere
e uniformi; in morte, è stato santificato quasi subito, divenendo il protettore
dei vescovi e dei catechisti, coloro che imprimono a fuoco la mente dei bambini
in modo da renderli dei perfetti cattolici, tutti che la pensano alla stessa
maniera, tutti uguali come la cenere usata per riempire un barattolo vuoto. Un’entità
terribile e spaventosa, che ha impresso il suo marchio su tutta la Lombardia, e
anche oltre: ogni chiesa è stata rimodellata secondo il suo volere, e ognuna di
esse è uno dei suoi occhi che scruta quanto accade tutt’attorno, con impietosa
disapprovazione; in molte di esse ci sono immagini di lui che, in abiti rossi e
dorati, viene investito di luce divina.
Eppure,
anche il tremendo san Carlo può mutare aspetto, con le dovute precauzioni: a
Santo Domingo, dove il cattolicesimo incontra le religioni africane e quelle
amerinde, egli è diventato il benevolo Papà Candelo, l’allegro signore del fuoco
(di cui il mio amico Luca ha magistralmente parlato in un articolo che trovate
QUI). A Venegono egli è rimasto l’arcivescovo di Milano, ma in una veste ben
lontana da quella che ha nelle chiese: se proseguite oltre la strada che fiancheggia
Santa Caterina, prima di arrivare alla fontana che segna la strada per la
Cascina del Trono, troverete una cappelletta bianca e piuttosto grande, alla
quale si accede per mezzo di quattro gradini, e che presenta un affresco molto
recente (è datato 1995) ma anche molto sentito: san Carlo Borromeo in viaggio. È
ripreso, benedicente, nell’atto di raggiungere una non meglio precisata
destinazione (forse la stessa Venegono?), a dorso di un asino bianco che
cammina su uno sterrato che fiancheggia un campo di grano maturo, nel quale
vola un passero; dietro di lui, alberi e una campagna verde con qualche
paesello, tipica delle Prealpi, e in fondo una montagna su cielo azzurro,
mentre sopra a tutto svettano due cherubini con il motto borromaico, Humilitas.
Tutto
questo è ben lontano dal terribile e inflessibile santo che imponeva la sua
morale reazionaria e faceva uccidere chi gli si opponeva, ma anche solo dal
riformatore della Chiesa, l’inavvicinabile alto prelato che la gente guardava
con timore e ammirazione: sembra quasi ricordarlo nella sua versione di
visitatore delle parrocchie, che all’epoca doveva apparire, per lo meno ai
fedeli, come l'incarnazione del fatto che la Chiesa si fosse finalmente ricordata delle sue pecorelle. Ma non è solo
questo: viaggia in completa solitudine, come se non temesse nulla, su un
animale che simboleggia al tempo stesso purezza, resistenza e umiltà, e sembra
quasi benedire non qualcuno, ma la campagna stessa, che dona frumento in
abbondanza. Insomma, il fuoco di san Carlo qui non ha più la valenza delle
fiamme dei roghi, ma è il calore della primavera e dell’estate che fa
germogliare la nuova vita: del resto, nei suoi tempi più sinceri, la Chiesa si
è sempre occupata anche di questo. Non più santo cittadino, dunque, ma divinità
contadina. E, per non dimenticare che egli è sempre e comunque il buon Papà
Candelo, ecco che per qualche strana ragione un pezzetto della cappela, sul
lato destro, è bruciata, non per indicare distruzione, ma come semplice ricordo
della sua vicinanza al fuoco. E ancora oggi, a questa benevola versione di san
Carlo Borromeo, si offre fuoco di candela.
Le sciagure che calano dall’alto.
Direi che è piuttosto rispondente... |
Venegono
è letteralmente infestata dai corvi.
In
realtà, a voler essere pignoli, si tratta di cornacchie grigie ma, si sa, il dialetto
dei contadini non fa troppe distinzioni: sono tutti scurbatt, a eccezione della gazza. E qui più che altrove questi
uccelli rendono onore alla loro nomea di accompagnatori della Morrigan. La
gente di Venegono parla con fastidio, se non con inquietudine e paura, dei
corvi che infestano i cieli del paese, arrecando dolore e spavento con la
loro sola presenza; numerosi sono gli aneddoti che narrano delle loro malefiche
imprese: quasi ogni venegonese, se non ha vissuto direttamente un’esperienza,
ha sentito parlare di loro, dunque ne riporterò qualcuno raccontatomi dai
parenti…
In
una grande villa con un immenso giardino, il padrone era solito tenere in
libertà galli, galline, oche, tacchini e anatre, facendoli riprodurre senza
problemi: ebbene, i corvi si appostavano sugli altissimi pini che sovrastavano
il pollaio all’aperto, e non appena pareva loro che fosse il momento propizio,
scendevano in picchiata per aggredire quelle povere bestie. E non si limitavano
a rubare le uova: rapivano i pulcini, in gran quantità, e persino gli uccelli
adulti. Mio nonno ne ha visto uno acchiappare un’anatra da terra, grande quanto
lui, e sollevarla per portarsela via.
Ma
se pensate che agiscano solo per fame, vi sbagliate di grosso. Essi uccidono
principalmente per puro divertimento, sperimentando modi sempre nuovi e sempre
più atroci.
Un
signore aveva comprato alcuni pulcini e li aveva messi in una scatola di
cartone, coperta da una rete, con una lampadina per tenerli caldi e del
becchime sul fondo. Un giorno soleggiato decise che sarebbe stato salutare per
essi prendere una boccata d’aria, così prese la scatola e la mise nel suo
giardino. Allontanatosi per qualche minuto, al suo ritorno non riusciva a
credere a quanto era successo: la rete era stata perforata, e i poveri pulcini
giacevano all’interno della scatola in un lago di sangue, tutti privati della
testa, dal primo all’ultimo. L’uomo, non sapendo come pulire quell’orrore,
diede fuoco all’intero oggetto.
Quale
animale si sarebbe nutrito delle teste di quei poveretti, ignorando totalmente
la carne stessa? Nessuno potrebbe credere che l’assassino abbia agito per
fame...
E
ancora, un uomo e sua madre avevano un cagnolino molto vecchio, che ormai stava
per lasciare questo mondo. Non avevano voluto farlo sopprimere, così lo avevano
lasciato tranquillo sul marciapiede del cortile, in attesa che spirasse da
sé. La donna non resisteva alla vista di quel poveretto agonizzante, e così
andò in casa; il figlio fece lo stesso, per tornare di lì a qualche minuto. Ma
del cane s’era persa ogni traccia; eppure il cancello era chiuso, nessuno
avrebbe potuto entrare a rubarlo, men che meno in così poco tempo! Non aveva tenuto
conto, l’uomo, che il pericolo era venuto dall’alto: un corvo, avendo percepito
come sempre l’odore della morte, si era appostato sul tetto della casa,
attendendo pazientemente che i due umani si allontanassero; poi era sceso,
aveva afferrato il cagnolino coi suoi artigli e lo aveva rapito. E a quel punto
i due padroni non poterono che versare lacrime amare: non avevano voluto dare
al loro animale una morte rapida e indolore, e ora lo sapevano morto non di
vecchiaia, ma a causa dei becchi dei corvi, spolpato ancora vivo (o, nel
migliore dei casi, spiaccicato al suolo dopo essere stato lasciato andare dal
suo assalitore).
La
gente si chiede se la fredda perfidia di questi esseri abbia un limite. Fatto
sta che paiono immortali: alcuni coraggiosi hanno perfino tentato di
impallinarli, ma senza risultato, e anzi sono rimasti vittime di ictus poco
tempo dopo aver compiuto un’azione tanto spavalda. I corvi, di contro, ogni
giorno diventavano sempre di più. Come dico sempre parafrasando Tertulliano, il
sangue dei corvi di Venegono è un seme!
Mia
nonna, ogni volta che in casa si mangia carne, si premura di tenere da parte le
ossa, che si avvede di non pulire troppo bene, poi le getta nel prato. Tempo un’ora,
le va a raccogliere, trovandole sempre bianche come fossero state passate nell’aceto.
Questo è il suo tributo ai tremendi figli del cielo.
L’ultimo
spirito di cui voglio parlare, per questa carrellata, è quello della tempesta.
Se
non siete mai stati sul Seprio, difficilmente potreste immaginare la rapida
violenza con la quale i temporali estivi si abbattono in queste zone: sembrano
quelli di montagna, ma avvengono in collina, e per il fatto di non avere l’ostacolo
visivo dei monti sono alquanto spettacolari, oltre che terribili.
Ricordo
distintamente quando, da ragazzino, ne scoppiò uno mentre io e mio fratello
attendevamo il ritorno di nostra madre dal lavoro: la nonna ci portò in
torretta per mostrarci per bene quello che stava accadendo, e fu davvero
impressionante. Il cielo era letteralmente nero nonostante fosse primo
pomeriggio, i fulmini e i lampi si alternavano quasi senza tregua, i tuoni
erano talmente forti che sembravano far tremare la casa sin nelle fondamenta. E
chiariamo, è una vecchia casa bella solida.
Poi
ha iniziato a grandinare, e davvero sembrava non finire più, mentre io e mio
fratello ci tappavamo le orecchie tanto era assordante quel rumore. Non ricordo
quanti danni abbia fatto il maltempo, sta di fatto che è stato davvero uno
spettacolo… a suo modo. E fenomeni del genere non sono inusuali a Venegono, con
tutto ciò che ne consegue. Quindi è importante tributare onore anche alla
tempesta…
Lo stregone del Monte Rosso.
Il Castello Castiglioni, oggi dei missionari comboniani. |
È
facile immaginare come tutto questo abbia contribuito alla creazione di padre
Cornelio, lo stregone di Kata Kumbas, che da giovane venne venduto dal
patrigno, dopo la tragica morte della madre, a un monastero dove, per il fatto di essere storpio, veniva tenuto segregato. Una volta uscito, ormai vecchio, si
era vendicato della famiglia adottiva, ed era stato iniziato alle arti della
stregoneria nientemeno che dalla Signora del Gioco in persona. Il suo scopo era
quello di tornare giovane e poter vivere la vita che gli era stata tolta, e
solo a quel punto erano cominciate le sue avventure, che lo hanno portato non
solo in Lombardia, ma anche in Veneto, in Romagna, in Umbria, nel Lazio, in
Abruzzo, in Campania e in Trentino, per tornare infine proprio a Venegono, dove
aveva ottenuto ciò che voleva.
Già
all’epoca lo avevo creato pensando a tutte le cose che ho descritto prima,
connesse al paese: il monastero dove stava è quello dei missionari comboniani
(l’ex castello dei Castiglioni), aveva poteri come far scaturire rovi neri dal
terreno, mutarsi in corvo, provocare tempeste, trasformarsi in drago e, alla
fine della storia, è andato a vivere alla Silva Rupta, dove ha tenuto il Grande
Gioco, e che oggi coincide con la Cascina del Trono. Il mio buon master ha
pensato anche di metterci il demone Martino col cappello nero e la Santa
Inquisizione, giustamente, e ha persino inserito Cornelio, assieme ai suoi due
compagni, in un’avventura pubblicata nel volume Kata Kumbas - Avventure per Laitia, dal titolo Una notte sul Monte Rosso, e ispirata ai processi venegonesi.
Ho
dunque voluto trascrivere alcune storie di questo misconosciuto paesino,
ignorato da tutti ma ricco di suggestioni, estremamente pulito e tranquillo, e
abitato da gente ancora generosa e altruista. E perché, nonostante l’oscura
presenza dei corvi (e delle nocciole), per quanto ancora si racconti di demoni
e stregoni, e per quanto (e questa è la cosa davvero tremenda) a governare sia
la Lega, anche qui la vita non smette di fare il suo corso, di nascosto, ma
senza dimenticare le proprie tradizoni. Gli spiriti sono attivi qui più che
altrove, mi viene da pensare, omaggiando tutti lo scorrere della grande Olona.
Ieri
infatti, mentre ero a leggere sotto il nocciolo, un corvo è atterrato piuttosto
vicino, ci siamo salutati, poi una coppia di tortore gli è piombata addosso e
lo ha cacciato via. E solo stamattina, alzando la testa, ho capito perché.