giovedì 13 ottobre 2016

Storia della Magia 03 - La magia nell'Antichità



LA DIVINAZIONE

Il Fegato di Piacenza, prontaurio per l'arte degli aruspici.

Oltre all’arte oracolare, che richiedeva un’esperienza estatica, l’Antichità conobbe molte altre forme di previsione degli eventi attraverso la decifrazione di segni e presagi: non a caso il termine greco mantiké dovrebbe derivare dalla radice indoeuropea *men (da cui il latino mens, mente), e questo perché nella divinazione agisce l’intelletto umano, reso più acuto dalla sacralità dell’arte stessa. I Greci distinguevano la divinazione in due tipologie: quella atechnos (senza artificio, divina e religiosa), ovvero quella ispirata da forze soprannaturali, e quella techniké (con artificio, magica e profana), effettuata tramite l’interpretazione dei segni. Ognuna di queste forme era usufruibile, al tempo stesso, sia dal governo delle città che dai privati. Viceversa, i popoli italici non facevano una distinzione simile, essendo le loro arti divinatorie unicamente del secondo tipo: la leggenda vuole infatti che gli Etruschi ricevettero da Tagete, un fanciullo nato dalla terra, le tre discipline con cui interpretare la volontà degli dèi, e che passarono poi al mondo romano, ovvero gli auguria (tramite il volo degli uccelli), l’aruspicina (tramite l’osservazione delle viscere animali) e i fulguralia (tramite la caduta dei fulmini). A differenza che nel mondo greco, poi, la divinazione romana era istituzionalizzata, ovvero veniva compiuta durante i riti pubblici per interpretare la volontà degli dèi riguardo affari di Stato.
Gli animali avevano un ruolo importante in quest’arte: il principio base era l’osservazione, l’interpretazione e la decodificazione di movimenti apparentemente causali o estranei alla logica umana, e per questo considerati divinamente ispirati. Tra le pratiche divinatorie l’ornitomanzia (gli auguria romani) era forse la più diffusa: attraverso l’osservazione del volo e del comportamento degli uccelli si traevano auspici per il futuro; a ogni specie inoltre corrispondeva una certa simbologia: l’apparizione di uccelli derivati da personaggi mitologici negativi era un presagio funesto, quella dell’aquila indicava la volontà di Zeus, quella della civetta di Atena, quella del corvo di Apollo, e così via. Nell’oracolo di Zeus a Dodona i sacerdoti interpretavano la volontà del dio tramite il volo delle colombe, oltre che con la dendromanzia (il trarre auspici dallo stormire delle querce del bosco sacro); a Roma, parimenti, si praticava l’auspicium pullarium, ovvero la divinazione a scopo militare tramite l’osservazione del beccare di alcuni polli sacri a Marte. Una forma simile di pratica divinatoria era la melittomanzia, ovvero quella effettuata tramite l’osservazione del volo delle api, soprattutto presso l’oracolo di Trofonio, dove i serpenti sacri venivano nutriti col miele. Inoltre, per scoprire dove fondare una città si seguiva un animale fin dove questo si fermava (come fecero, secondo il mito, Cadmo con Tebe e Ascanio con Alba Longa). Infine, la ieroscopia (l’aruspicina romana) prevedeva il futuro o spiegava gli eventi tramite l’osservazione delle viscere degli animali sacrificati, e per questo consacrati alle divinità.
Altre forme di divinazione erano poi la negromanzia (che nel Medioevo assumerà un significato diverso, come vedremo), ovvero quella effettuata tramite l’ausilio dei defunti, i quali si diceva potessero prevedere il futuro se si faceva loro un opportuno tributo di sangue (come Odisseo con l’anima dell’indovino Tiresia). Ma per scrutare il futuro esistevano anche molte pratiche legate al riflesso: l’idromanzia, in quanto laghi e fiumi erano connessi all’oltretomba, e l’immersione in specifici luoghi permetteva non solo di vedere il futuro, ma anche di modificarlo; la lecanomanzia, ovvero l’osservare le figure e la distorsione delle immagini su una superficie liquida (acqua, a volte con alcune gocce d’olio o immergendovi una spada) per trarne presagi; la catottromanzia, quella effettuata tramite uno specchio, in genere in relazione a eventi di natura sentimentale (ma nel tempio di Artemide, a Efeso, anche per eventuali guarigioni). Popolarmente, poi, si poteva anche trarre presagi aprendo a caso libri ritenuti ispirati, come i poemi omerici (pratica che verrà poi ripresa dai Cristiani nel Medioevo nei riguardi della Bibbia).
Infine occorre ricordare una delle forme divinatorie più strutturate, ovvero l’oniromanzia: essendo i sogni ispirati dagli dèi, essi presentavano una specifica simbologia, che poteva essere interpretata per trarne presagi; l’oniromante più famoso è Artemidoro di Daldi (II-I secolo a.C.), il cui trattato L’Interpretazione dei Sogni cerca una sistemazione scientifica della materia, distinguendo i sogni concernenti il presente o il passato (derivati da una percezione sensoriale diretta o da un’amplificazione fantastica della stessa) e sogni concernenti il futuro (profetici, visionari o simbolici). A ciò si legava inoltre la cosiddetta “incubazione”, una pratica terapeutica effettuata nei santuari di Asclepio, nella quale il fedele dormiva nel tempio e attendeva nel sonno una manifestazione del dio o un sogno rivelatore, che veniva poi interpretato dai sacerdoti (la testimonianza più importante in merito è quella del retore Elio Aristide, del II secolo).

LA GOEZIA

Una defixio, tavoletta di maledizione del mondo romano.

Come abbiamo visto, fu in Grecia che nacque il termine “magia”; malvista nella Roma repubblicana in quanto pratica vana, superstiziosa e nociva (venefica), in epoca imperiale essa venne informalmente accettata e distinta in due grandi tipologie: la teurgia e la ben più diffusa goezia (da goes, lamento), che includeva ogni sorta di pratica magica slegata dalla religiosità pubblica e dalla filosofia, e che in genere faceva appello a forze del mondo sotterraneo (come Serapide, Ecate, i demoni inferi, le anime dei morti e via dicendo), o a dèi stranieri (spesso egizi e semitici, fra i quali a volte compaiono anche Yahweh e Gesù).
Una delle pratiche goetiche più diffuse sin dai tempi remoti, in Grecia come a Roma, erano i katadesmoi e le defixiones, laminette di piombo sulle quali venivano scritte maledizioni nei confronti di qualcuno (per fargli perdere una gara, per soggiogarne la volontà, per farlo morire, e via dicendo), poi arrotolate e trafitte con un chiodo, e infine gettate in una tomba, affinché il morto portasse il messaggio agli dèi inferi. Similmente si potevano creare immaginette di cera che si trafiggevano con spilloni o si bruciavano, per procurare nella realtà la morte o l’innamoramento della persona che raffiguravano. Ma anche metodi più semplici erano sufficienti: bruciando determinati incensi e pronunciando formule e invocazioni si potevano ottenere gli stessi risultati, per quanto incantesimi più particolari potessero richiedere ingredienti specifici e rituali complessi. In genere, infatti, per richiamare le entità spirituali era necessario che il goeta scrivesse i simboli, costruisse gli oggetti e tracciasse i nomi che avevano una particolare attinenza con l’essere che si desiderava evocare; va notato che spesso i nomi e le formule erano in lingue diverse dal greco o dal latino (i cosiddetti nomina barbarica) o vocalizzi incomprensibili (voces mysticae), la qual cosa conferiva loro un particolare potere.
Ampie testimonianze dell’arte goetica ci vengono, oltre che dalle summenzionate tavolette, dai papiri magici ritrovati per lo più in Egitto, scritti in greco e in demotico, e risalenti a un’età compresa tra il IV secolo a.C. e il V secolo d.C.: essi comprendono veri e propri prontuari, con formule contro le più svariate affezioni o per ottenere gli effetti più diversi (dalla vincita al gioco all’acquisizione dell’invisibilità, dall’estinzione di un incendio alla protezione da ladri e animali, da esorcismi contro gli spiriti maligni a metodi per procurarsi l’amore, e via dicendo).
Spesso la goezia, almeno a partire dal I secolo a.C., si tradusse nella creazione di amuleti e gemme incise, e tale pratica si sviluppò soprattutto nella Tarda Antichità (in particolare quelle dette abrasax, dal nome dell’entità raffigurata, nata in ambienti gnostici, o il quadrato del sator arepo di matrice cristiana): essi servivano per proteggersi da pericoli invisibili, demoni, fantasmi e malattie (la celebre formula abracadabra trae infatti origine da un amuleto triangolare contro la febbre).

LA TEURGIA

Il Convito di Giuliano di Edaward Armitage.

Si intende per teurgia (dal greco theos, dio, ed ergon, opera) un’arte magica con la quale si riteneva di poter esercitare autorità sugli dèi, perché apparissero in forma visibile o si incarnassero temporaneamente in un oggetto (in genere dentro una statua). Nata nell’ambito del neoplatonismo, essa era basata su alcuni concetti, i più importanti dei quali erano certamente il nome della divinità e la philia che con essa si doveva stabilire.
La philia (in greco amore, amicizia) era l’unione con gli dèi attraverso la sympatheia: per entrare in contatto con le forze superiori, il teurgo doveva usare simboli che le rappresentassero (ad esempio, per un’invocazione al dio del sole si sarebbe potuto usare dell’oro, dei girasoli, un gallo, una torcia accesa,…); i simboli, dicevano i teurghi, non hanno potere di per sé, né esercitano costrizione sugli dèi (a differenza dei segni e delle parole della goezia), ma aiutano l’uomo a entrare in uno stato mentale nel quale lui e il dio diventano la stessa cosa, e possono dunque agire all’unisono: la philia è dunque l’amore universale che tramite gli dèi collega tutte le cose esistenti. Per quanto riguarda il vero e puro nome, poiché il nome racchiude in sé l’essenza di ciò che denomina (una concezione di probabile origine egizia), esso consente a chi lo conosce di avere influenza sull’essere nominato, in questo caso il dio. L’aspetto tecnico richiesto dall’arte teurgica, ossia la fabbricazione delle statue, era contraddistinto da un rituale complesso composto da segni e formule, e da una teoria mitologica, in base alla quale si attribuivano determinati poteri e figure alle varie divinità; tuttavia il teurgo poteva anche incarnare il dio compiendo miracoli in sua vece, o farlo apparire in forma fisica.
Il primo autore che si autodefinì “teurgo” fu Giuliano il Caldeo (II secolo d.C.), il presunto autore degli Oracoli Caldaici, giunti a noi solo in maniera frammentaria; i pensatori che più valorizzarono la teurgia furono Giamblico (250-330) e Proclo (412-485); molto in voga negli ambienti colti, quest’arte venne aspramente perseguitata dal potere imperiale cristiano, fino alla sua scomparsa.

LE RUNE

Divinazione per mezzo delle rune (disegno tratto da un testo cinquecentesco).

Le rune sono, a livello generico, le lettere dell’alfabeto norreno (futhark), attestate sia nei Paesi scandinavi, appunto, che nella Germania continentale. Esse tuttavia sono, prima ancora che segni alfabetici, entità magiche vere e proprie in quanto, secondo la tradizione, contengono il segreto dell’esistenza, poiché in ciascuna di esse è concentrata e posseduta una delle essenze fondamentali della vita e del mondo, sia benefica che nefasta: esse hanno perciò potere creatore e distruttore. Già Tacito, nel II secolo d.C., riferiva dell’uso dei Germani di predire il futuro usando bastoncini sui quali venivano incisi segni particolari; le bacchette per i responsi, che a volte venivano bagnate nel sangue sacrificale e usate per aspergere, erano dette hlautteinar (in norreno“rami della sorte”) o blotspann (“bacchette del sacrificio”). In genere tali bacchette erano ottenute dal legno di faggio, per la sua morbidezza e facilità di intaglio: non a caso, dalla parola in tedesco moderno per indicarlo (buche) è derivato buch (libro, come nell’inglese book).
Le rune appaiono dunque come simbolo di conoscenza superiore e potere magico espressi nella capacità divina dello scrivere. Esse vengono incise o dipinte dal praticante, talora col sangue; in esse egli possiede l’antica saggezza delle cose, e molti passi delle saghe ricollegano le rune alla sapienza delle origini: in un canto esse vengono fatte risalire a Odino, il quale le trasse dal cranio di Heidhraupnir e dal corno di Hoddrofnir (entrambi appellativi del sapiente gigante Mimir); le rune sono anche il dono di sapienza e di dominio delle cose che la valchiria Brunilde fa a Sigfrido quando gli offre il calice ricolmo della “bevanda del ricordo”: nelle sue parole ella allude a diverse rune, benefiche e nefaste, nelle quali è trasmessa a chi le possiede la capacità di influenzare il corso degli eventi, e ne elenca le tipologie (rune del sonno, della gioia, della vittoria, della birra o della fortuna, dei parti, contro i marosi, dei rami, dell’eloquio, della mente, del dolore, della seduzione, della morte e dell’alterco, e a questo proposito ricordiamo che quelle del sonno sono trasmesse mediante una spina, quelle contro i marosi devono essere impresse a fuoco sulla prora, sul timone e sul remo, quelle dei rami sono indispensabili per la sapienza medica, e quelle della mente danno la scienza segreta delle cose).
Le iscrizioni runiche ebbero soprattutto carattere magico: ciò è particolarmente evidente nei numerosi amuleti sui quali questi segni venivano incisi (e a volte ripetuti sistematicamente per un numero di volte simbolico che ne rafforzasse il potere), così come nelle iscrizioni più antiche. Anche l’uso di inciderle sulle pietre sepolcrali dovette avere in origine lo scopo di proteggere dagli spiriti malvagi.

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