domenica 10 settembre 2023

L’astrologia celtica: verità storica o invenzione contemporanea?

 


La passione per i Celti che ormai da più di un secolo permea il mondo occultista e quello neopagano ha dato origine a una miriade di elaborazioni che, a chi ha un minimo di esperienza dell’argomento, possono far storcere il naso: ne è un bell’esempio la Ruota dell’Anno, che vorrebbe riprendere feste celtiche ma sopperisce alle mancanze “simmetriche” inserendone altre di origine germanica. Tuttavia, forse il caso più interessante è quello del cosiddetto “oroscopo celtico” o “zodiaco arboreo”.

Si tratta, in breve, di un insieme di 13 segni astrologici in cui viene diviso l’anno, e il numero dipende dal fatto che il calendario di riferimento è lunare anziché solare: dunque, se ne conteggia uno per ogni ciclo lunare; ognuno di questi segni corrisponde a una pianta (betulla, sorbo selvatico, frassino, ontano e così via), e a una lettera dell’alfabeto oghamico. Promotore di questo sistema fu il poeta e saggista britannico Robert Graves, nel suo La dea bianca del 1946.

Tuttavia, a chi non fosse del tutto digiuno di cultura celtica, l’esistenza di questo sistema potrebbe dare un po’ da pensare: infatti, è cosa nota che i druidi trasmettessero solo oralmente i propri insegnamenti, e questo ci è testimoniato sin dall’epoca di Cesare. Il condottiero romano del I secolo a.C. scrive infatti che essi “non credono però lecito di trascrivere i dogmi della loro scienza, mentre per quasi tutte le altre faccende e per le norme pubbliche e private si servono della scrittura greca. Mi pare che abbiano stabilito questo per due ragioni e perché non vogliono che si diffonda tra il volgo la loro dottrina e perché i novizi, fidando nella scrittura, non siano meno diligenti nell’apprenderla; infatti ai più suole accadere che per l’aiuto degli scritti si mostrino più trascurati nell’imparare e nell’uso della memoria.” (B. G. VI 14, 3-4) Dunque, appare chiaro che può restare ben poco del pensiero dei druidi, non essendoci pervenuto nulla di scritto delle loro dottrine, per loro stessa scelta. Ma allora, da dov’è che Graves ha tratto questo zodiaco celtico?

Fonte primaria della sua speculazione fu l’opera dell’irlandese Roderic O’Flaherty, Ogygia, seu rerum Hibernicarum chronologia, pubblicata in latino nel 1685 e tradotta in inglese solo nel 1793. Il titolo riprende l’isola menzionata nell’Odissea, in quanto nel XVII secolo i dominatori inglesi non permettevano la circolazione di testi che parlassero dell’Irlanda, per timore che potessero risultare patriottici e dunque sovversivi; indi per cui, l’autore decise di usare il nome di un’isola mitologica per nascondere quello reale. E proprio in questo testo O’Flaherty parlava dell’interpretazione dell’ogham, un alfabeto celtico irlandese, in cui ogni lettera avrebbe preso il nome da un albero. A sua volta, l’autore si rifaceva a un testo precedente, l’Auraicept na nÉces, una presunta grammatica irlandese del VII secolo scritta da un certo Longarad.

Purtroppo, se a una prima occhiata tutto ciò può apparire corretto e lineare, esistono due grossi problemi perché ciò che scrisse O’Flaherty risulti accettabile. La prima, è che la più antica copia dell’Auraicept pervenutaci non è del VII secolo, ma del 1390, ed è conservata all’interno di un altro testo, il Libro di Ballymote, per l’appunto di molti secoli successivo alla presunta data originale. La seconda cosa, è che le caratteristiche dell’ogham rendono questo alfabeto assai problematico da intendere come un’antica scrittura sacra diffusa tra i Celti: infatti, delle circa 400 iscrizioni conosciute, ben 350 provengono dalla sola Irlanda e non dal mondo celtico in generale, e le più antiche sono anche estremamente tarde, del V-VI secolo d.C. Di usi dell’ogham precedenti a quell’epoca non ci resta alcuna testimonianza, né archeologica né letteraria; di contro, sappiamo che altrove i Celti usavano altri alfabeti per scrivere la loro lingua (etrusco, fenicio, greco e latino). L’ogham in sé è proprio una notazione dell’alfabeto latino per mezzo di linee intagliate (di numero variabile da 1 a 5) e disposte in modo differente in relazione a una resta; in genere si legge dal basso verso l’alto. Nato probabilmente come codice cifrato (e adatto solo a scritte brevi), può essere stato usato anche a scopo magico, ma questa non era certo la sua principale funzione: anzi, la sua nascita tardiva e derivata dal latino testimonia piuttosto l’influenza della cultura romana in Irlanda.

La cosa non finisce qui, però. O’Flaherty pensò bene di cambiare a sua volta quanto scritto nell’Auraicept, dove le lettere dell’ogham erano in totale 25 (di cui 5 non sono presenti nelle epigrafi, ma vennero inventate in una fase successiva): l’autore irlandese scrisse invece che l’alfabeto era composto da 13 consonanti e 5 vocali (quindi, da un totale di 18 lettere). Insomma, delle 20 originali dell’ogham il testo del XIV secolo ne aggiunse 5, e quello del XVII ne tolse 3: come si può vedere, la corrispondenza con l’alfabeto originale lasciava molto a desiderare. Come se non bastasse, Graves (il quale, ricordiamolo, voleva inizialmente dimostrare nientemeno che l’origine ebraica dell’alfabeto celtico!) non si premurò di consultare il Libro di Bellymote, ma si basò unicamente su O’Flaherty, dunque adottando il sistema delle 18 lettere; questo gli permise tra le altre cose di speculare sulle 13 consonanti, il cui numero ricordava quello dei mesi del calendario lunare, oltre che i segni dello zodiaco (quelli canonici più l’Ofiuco). La sua fantasia fece un passo ulteriore: dato che ogni lettera, a detta di O’Flaherty, corrispondeva a un albero, era allora per lui logico pensare che i Celti dividessero l’anno in “mesi arborei”, e che ogni mese corrispondesse a un segno zodiacale, a sua volta arboreo. Si trattava in sostanza di speculazioni unicamente basate sul numero 13.

Dunque, in cerca di supporto per la sua teoria, Graves scrisse al professor Robert MacAlister, il massimo esperto di ogham dell’epoca. Scrive ne La dea bianca che “R. S. Macalister, da me consultato di recente come massima autorità vivente in materia di scritture ogamiche, mi ha invitato a non prendere sul serio gli alfabeti di O’Flaherty: «Mi sembrano tutte tarde costruzioni artificiose, anzi, pedanterie, di peso non maggiore delle leziosaggini di Sir Pierce Shafton e di altri del genere.» Cito questo ovviamente per onestà, poiché la mia tesi poggia sull’alfabeto di O’Flaherty e Macalister è un robusto scudo per coloro che ritengono assurdo quanto vado dicendo. Ma l’ipotesi di partenza di questo libro è che Gwion [il bardo Taliesin] abbia celato nella sua poesia enigmistica un segreto legato all’alfabeto. E se non ho preso una cantonata, le risposte agli indovinelli (anche se ‘Movran’ e ‘Moiria’, ‘Ne-esthan’ e ‘Neiagadon’, ‘Rea’ e ‘Riuben’ non sembrano molto simili) si avvicinano a tal punto al Boibel-Loth che mi sento pienamente autorizzato a supporre che O’Flaherty riporti una tradizione autentica risalente perlomeno al XIII secolo e che gli indovinelli ancora senza risposta ne troveranno una nei nomi delle lettere del Boibel-Loth ancora non chiamate in causa.” (pp. 133-134)

MacAlister, dunque, mette in guardia il Nostro dalle sue elucubrazioni, perché quella di O’Flaherty è un’opera tarda e la costruzione dell’alfabeto che fa sembra molto artificiosa. Graves però decide di ignorare il parere dello studioso in favore della sua speculazione, dando a intendere che, per lui, un testo tardomedievale poteva avere in quest’ambito la stessa autorevolezza di uno di epoca antica. L’autore però si spinge anche oltre: certo, dice, nemmeno le parole che io associo fra loro sembrano corrispondere, e non sono nemmeno riuscito ad associarle tutte… Però a me piace così, e mi sembra corretto. Questa è la sostanza del discorso, che oggi non può che far storcere il naso, soprattutto dopo che lui stesso ha cercato conferma della teoria presso il massimo esperto dell’epoca.

Tuttavia, la vicenda ha per Graves un risvolto ancora più personale. Il nonno dell’autore era infatti il professor Charles Graves, una volta presidente della Royal Irish Academy e grande studioso di ogham, il quale aveva liquidato l’alfabeto arboreo di O’Flaherty come del tutto spurio: nel suo commento a un’edizione del 1917 dell’Auraicept scriveva infatti che “abbiamo già osservato che le lettere del Bethluisnin [l’alfabeto oghamico] erano tutte chiamate alberi; e non solo, ma si dice che i nomi delle rispettive lettere siano i nomi di alberi e piante reali. Incontriamo questa affermazione in tutti i resoconti del Bethluisnin, sia antico che moderno. Si riterrà tuttavia errato. Vale solo per quanto riguarda il nome di alcune lettere. Di molti altri si può dimostrare con certezza che non sono nomi di alberi o piante; mentre del resto possiamo solo dire che è possibile che abbiano avuto un tale significato.” Com’è dunque possibile che Graves si sia imbarcato in una simile operazione, avendo avuto in famiglia un’autorità del genere? Con ogni probabilità, il tutto ha una certa vena di rivalsa nei confronti della linea paterna (e irlandese), formata da medici e accademici: lui stesso, nel suo Goodbye to all that del 1929, dimostra di preferire quella materna, di origine sassone.

In ogni caso, nel 1949 Maroney pubblicò un articolo dove si approfondiva la questione, e ancora più di recente, nel 1991, McManus diede alle stampe il suo A guide to ogam, dove faceva chiarezza sull’originale numero delle lettere (20), esplicava quelle aggiunte come caratteri extra (per integrare quelli greci e latini non presenti nella versione originale), e rintracciava l’origine di ognuno di essi. Dunque, gli studi non si sono mai fermati, e oggi possiamo vedere gli errori di O’Flaherty e, conseguentemente, di Graves. Ad esempio, solo 6 lettere dell’intero alfabeto oghamico corrispondono a nomi di piante, vale a dire beth (betulla), fearn (ontano), saille (salice), duir (quercia) e coll (nocciolo), ma già onn non è il ginestrone (aiteann), bensì il frassino. Per tutte le altre, il significato è ben diverso: luis non è sorbo, ma fiamma; nion non è frassino, ma casa; uath non è biancospino, ma paura; tinne non è agrifoglio, ma barra di metallo; muin non è vite (peraltro introdotta in Irlanda dai Romani), ma gola; gort non è edera, ma campo; ruis non è sambuco, ma rosso; ur non è erica o prugnolo (fráech o draogean), ma argilla; ailm non è pino o abete argentato, perché non è attestato in nessuna forma, allo stesso modo di eadha (pioppo bianco) e idho (tasso); un discorso simile va fatto anche per pethboc, che non è l’ebbio, semplicemente perché la lettera P non faceva parte della lingua gaelica (questo Graves lo sapeva, e speculò che si trattasse di una modifica di NG).

Come si può vedere, dunque, la correttezza dell’alfabeto arboreo appare di poca sostanza. Ma, dopotutto, Berresford Ellis definisce correttamente Graves un “gentiluomo antiquario” che seguiva la moda romantica diffusa a cavallo tra XIX e XX secolo, piuttosto che un vero studioso: del resto, molte delle sue ipotesi prendono avvio da speculazioni sull’etimologia e l’associazione di parole in lingue che non aveva mai studiato, come il gaelico, l’ebraico e persino il greco, il tutto derivato da scritti precedenti che erano a loro volta fantasiose speculazioni senza basi concrete. Anzi, lui stesso nella riedizione del libro del 1961 si lamenta (in maniera paradossale, visti i precedenti) del fatto che “da quando è apparsa la prima edizione nel 1946 nessun esperto di irlandese antico o gallese mi ha offerto il minimo aiuto nel perfezionare le mie argomentazioni, o nel far notare uno qualsiasi degli errori che sono destinati a insinuarsi nel testo, o addirittura nel riconoscere le mie lettere.” La cosa più divertente è forse che l’autore si premurò di precisare che il Calendario di Coligny del I secolo d.C. “non è più considerato druidico e viene invece ricondotto alla tentata romanizzazione della religione autoctona nei primi anni dell’Impero” (p. 190), asserendo neanche troppo implicitamente che quello arboreo sarebbe ciò che realmente resta dell’antica sapienza dei druidi.

 

Bibliografia

- Berresford Ellis P., The fabrication of “Celtic” astrology, in The astrological journal, vol. 39, nr. 4, 1997.

- Cesare G. G., Opere, a cura di R. Ciaffi e L. Griffa, UTET, Torino, 1952.

- Graves R., La dea bianca, Adelphi, Varese, 2009.

- Kruta V., La grande storia dei Celti. La nascita, l’affermazione e la decadenza, Newton & Compton, Roma, 2003.

- Maroney H, Early Irish letter-names, in Speculum, vol. 94, nr. 1, 1949, pp. 19-43.

- McManus D., A guide to ogam, An Sagart, Maynooth, 1991.

giovedì 17 marzo 2022

Il drago Tarantasio tra storia e leggenda

La lotta contro Tarantasio raffigurata all'ingresso di Cascina Taranta. (foto D. Deponti)


Un’altra creatura leggendaria nella quale oggi molti tendono a vedere il residuo di un qualche spirito totemico della Milano antica è il drago Tarànto o Tarantasio. Per come la si narra nella maggior parte dei testi contemporanei, viveva un tempo nel Mare o Lago Gerundo (che una volta si sarebbe esteso tra Milano, Bergamo, Lodi e Cremona) un serpente mostruoso che uccideva uomini e animali col suo fiato pestifero, e che era solito divorare i bambini; esso sarebbe stato ucciso da un eroe, nella maggior parte dei casi Uberto Visconti, che lo avrebbe poi effigiato sul suo stemma famigliare. Oggi si parla dunque molto spesso di “Tarantasio, il drago di Milano”. Vediamo allora di scoprire la genesi del più celebre drago della Lombardia.

 

Un solo stemma per molte leggende.

La storia dello stemma dei Visconti è molto oscura, e ancora oggi non esistono certezze riguardo la sua origine.[1] Come noto, esso è d’argento alla biscia d’azzurro ondeggiante in palo, ingollante un moro di carnagione, ovvero un serpente mostruoso (con orecchie da lupo, una chiostra di zanne e spesso una cresta) di colore azzurro che si attorciglia verso l’alto (appunto, come su un palo invisibile) e ingoia la parte inferiore di un essere umano nudo (un bambino o un moro, a seconda delle diciture), di colore rosa.

La prima attestazione letteraria della sua esistenza risale al 1288, quando Bonvesin Da la Riva racconta che “dal comune viene offerto al nobile rappresentante della famiglia dei Visconti che risulta di più elevata dignità uno stendardo, bianco con effigiata una serpe di colore indaco che inghiotte un saraceno rosso. Questo è lo stendardo che marcia davanti a tutti gli altri; il nostro esercito non pone mai il campo finché la serpe non è messa in posizione evidente issata su un pennone. Questa prerogativa si dice la nobilissima famiglia dei Visconti l’abbia ricevuta in riconoscimento della particolare rettitudine di un antenato di nome Ottone, uomo di eccezionale valore, e per la vittoria militare che egli ottenne oltremare contro i Saraceni.”[2] È da notare che Bonvesin non specifica esattamente il modo in cui l’emblema sia stato ottenuto, se non per generici meriti di guerra, e anzi non sembra collegare direttamente la vipera all’evento, sottintendendo che essa era uno stemma del comune.[3]

La storia in questione ebbe però fortuna e venne sviluppata di lì a pochi decenni: nel 1337 Galvano Fiamma (a cui, va detto, vanno attribuite molte leggende della propaganda viscontea) riprende in toto quanto detto da Bonvesin, e aggiunge che il vessillo “fu dato ad un visconte Ottone, che ad una porta della città di Gerusalemme se ne impadronì, in duello, dalla testa di un certo re dei Saraceni. È dipinta del colore del lapislazzuli, anellata in cerchi, con gli occhi terribili, divorante un saraceno in rosso.”[4] Non possiamo comunque attribuire al Fiamma l’invenzione di questa storia, perché lo scudo con la biscia in mano a un soldato saraceno è già presente nel ciclo di affreschi della Rocca di Angera, eseguiti tra il 1314 e il 1316, all’epoca di Matteo I Visconti, che quando scriveva Bonvesin era appunto capitano del popolo e portava in guerra il suddetto stendardo. La leggenda verrà poi ripresa da altri autori e arricchita di particolari: ad esempio Bernardino Corio, nel 1503, chiamerà il saraceno Voluce, e ne farà un principe;[5] altri arriveranno persino a identificare l’Ottone delle crociate con l’arcivescovo stesso.[6]

Allo storico domenicano si deve però l’origine di un’altra leggenda, narrata assieme a quella della crociata ma che piacque di più ai lettori di oggi, tanto che la prima è stata quasi del tutto dimenticata: sempre nel Chronicon extravagante dice che “un visconte Uberto afferrò per la barba un drago che appestava l’intera città col suo fiato e divorava uomini e animali, e l’ammazzò con la scure.”[7] Lo stesso autore diede in seguito qualche altra specifica sulla vicenda quando, nei primi Anni ’40 del XIV secolo, scrisse nella Politia novella che essa si svolse fuori da Porta Nuova, dicendo peraltro che si trattava dell’unico fatto storico che si era potuto recuperare dalle cronache precedenti alla distruzione di Milano a opera del Barbarossa, nel 1162, e che sarebbero risalite fino al tempo di Ambrogio.[8] È però da notare che Pietro Azario, nel suo Chronicon del 1362, non sembra conoscere nulla a riguardo, segno forse che alcuni storici non ritenevano questa storia degna di fede.

Non è dunque un caso se né Tristano Calco né Giorgio Merula, sul finire del XV secolo, parlano della leggenda di Uberto Visconti (e anzi, quest’ultimo descrive con più minuzia la vicenda della lotta col saraceno, specificando che in origine a essere inghiottito dalla vipera non era un moro, ma un bambino).[9] Ancora nel 1548 Paolo Giovio iniziava la sua opera sui Visconti proprio narrando delle origini dello stemma, e riportando appunto le due versioni. Ma, mentre l’autore sembra narrare senza problemi del duello a Gerusalemme, subito dopo dice che “alcuni scrittori, amanti del meraviglioso, asserirono i Visconti aver adottato questo stemma, perché un loro antenato, per nome Uberto, ammazzò un serpente, ossia drago, nelle vicinanze di Milano, il quale coll’alito recava morte agli abitanti.”[10] Il Giovio sembra qui mettere l’accento sul fatto che le due tradizioni sono incompatibili fra loro, mostrando ovviamente di preferire la prima perché più credibile, diversamente dalla fantasticheria del Fiamma.

Tuttavia, nel 1592, Paolo Morigia scrisse una versione ulteriormente arricchita della leggenda del drago, quella che poi è arrivata fino a noi praticamente immutata: “In questi tempi poco dopo la morte di Teodosio, & del nostro Padre Santo Ambrogio, nella parte della Città, dove è la Chiesa hora di San Dionigi, nacque un pestifero morbo, onde ne morirono quivi assai centenaia di persone; ne sapendosi d’onde fosse cagionato questo accidente, in quella parte sola della Città, essendo in tutte l’altre parte sanissima; fu scoperto un gran Dragone, che usciva à certe hore dalle cave, & col pestifero, & mortifero fiato suo ammorbava l’aria; alqual non trovandosi remedio speditivo, come in tal instante caso faceva bisogno, Uberto uno de’ primi nobili della Città di casa d’Angiera, allhora Luogotenente del detto Conte d’Italia, mosso dal suo naturale valore, & dalla Pietà della patria, si espose al pericolo della vita per liberare la patria. Andò adunque il coragioso Uberto contro il mortifero Drago armato non tanto di ferro, quanto di fortezza d’animo, di destrezza, & d’ingegno, et al fine felicemente l’ucise, et liberò la sua patria con gloria eterna di lui. Da questo Uberto ha havuto origine casa Visconte…”[11] L’opera in questione, l’Historia dell’antichità di Milano, è un grande compendio di svariate tradizioni e leggende milanesi, dunque non è sorprendente trovare anche la storia del drago, in pieno spirito antiquario. È però interessante come in questo brano abbiamo una serie di dettagli estrapolati dal Fiamma ma non esplicitamente citati: anzitutto, il Morigia ambienta la storia sul finire del IV secolo, mal interpretando la menzione dei “tempi del beato Ambrogio”, e poi dà una locazione geografica precisa, menzionando l’oggi scomparsa chiesa di San Dionigi, che sorgeva appunto fuori da Porta Nuova; quest’ultimo fatto verrà ulteriormente mal interpretato dagli studiosi successivi, che daranno come campo di battaglia proprio il luogo ove sorgeva la chiesa (oggi i Giardini Pubblici Indro Montanelli).

Esiste in realtà un’altra leggenda, più tarda e meno nota, la quale narra che Desiderio, il futuro re dei Longobardi e allora conte di Angera, dopo aver riposato sull’erba, si rimise l’elmo, nel quale si era annidata una vipera; il rettile tuttavia, anziché morderlo, gli cinse la fronte come una corona lasciandolo illeso, ed egli decise allora di usare l’animale come suo stemma.[12] Nel Chronicon maius il Fiamma pone l’accento sul fatto che Desiderio fosse appunto uno dei conti di Angera,[13] probabilmente per dare legittimazione ai Visconti, ma non accenna a questa storia. È probabile che essa sia più tarda e tragga origine da Petrarca: questi, nel 1343, racconta una diceria che aveva sentito (ovviamente prima di essere a Milano al servizio dei Visconti), ovvero che una volta Azzone, rimessosi l’elmo dopo una pausa dalla cavalcata, vi avesse trovato una vipera, che però sarebbe strisciata fuori senza recargli danno; da lì, il signore di Milano avrebbe deciso di farne il suo stemma.[14] Ovviamente questa storia non ha alcun fondamento, e così dovevano pensarla i Visconti stessi, che usavano la vipera già dal tempo di Ottone; cionondimeno questo non deve aver impedito alla storiografia successiva di creare una nuova leggenda, riprendendo Petrarca ma ambientandola in età longobarda.

Occorre infine aggiungere che alcuni studiosi, anche piuttosto minuziosi come il Galli, riportano che la prima menzione dello stemma risalirebbe a un fatto narrato nell’Historia Mediolanensis di Landolfo Seniore durante l’assedio di Corrado II nel 1037 (ed essendo il testo di fine XI secolo, dovrebbe essere quella più antica): in questo frangente un certo visconte Eriprando avrebbe affrontato in duello Baiguerio, nipote dell’imperatore, sconfiggendolo e ottenendo il suo stemma, la vipera per l’appunto.[15] Peccato, purtroppo, che nel testo non si faccia alcuna menzione di questa immagine, né i Visconti allusero mai a una parentela con il personaggio in questione; ciononostante, l’errore entrò nell’uso comune, sebbene come leggenda minore.

 

Il Biscione di Giovanni Visconti (XIV secolo) sull'Arcivescovado di Milano (foto Wikicommons).

Dalla vipera al drago.

È interessante notare come il Biscione si sia nel tempo trasformato, passando da semplice serpente a vero e proprio drago non solo nelle leggende, ma anche nell’araldica.

Il processo non è ovviamente stato breve, e prende avvio dallo stemma primitivo: di esso ci resta un unico esempio, presso il Palazzo Visconti di Legnano, voluto da Ottone sul finire del XIII secolo, dove l’animale è un serpente cornuto con un solo avvolgimento completo su sé stesso, la testa rivolta a destra mentre inghiotte una figura umana che tiene in mano una freccia e un globo; i colori dovevano essere, come dice Bonvesin, indaco per il rettile e rosso per il saraceno su campo bianco.

Già coi Visconti del XIV secolo la vipera si volta a sinistra e assume fattezze più poderose: all’esterno della chiesa di San Gottardo in Corte (voluta da Azzone e quindi databile a prima del 1339) si trova un bassorilievo dello stemma, dove l’animale ha ora naso canino, zanne (due superiori e due inferiori), orecchie da lupo, una cresta rotondeggiante e una spira che forma un cerchio;[16] l’essere umano appare giovane e nudo, con le mani libere. La diretta evoluzione sembra essere la scultura fuori dal Palazzo Arcivescovile, voluta da Giovanni (quindi prima del 1354): qui la vipera mantiene le orecchie (che potrebbero quasi sembrare corna), ha un’intera chiostra di zanne, barba e basette pelose, squame in rilievo ma non una cresta; l’uomo ha le stesse fattezze di cui sopra (tanto che è difficile stabilire se si tratti di un adulto o di un bambino). Questa riproduzione dovrebbe essere comunque precedente, perché una molto simile si trova già sul sarcofago di Azzone, del 1339.[17] Se Gian Galeazzo dotò la creatura di una grandiosa cresta a punte su alcune miniature,[18]  la tipologia scultorea rimase invece la stessa anche in epoca sforzesca, come mostrano i biscioni sulla parlera della Loggia degli Osii, che recano le iniziali di Galeazzo Maria e di sua madre Bianca Maria Visconti, e per questo risalenti a prima del 1468 (anno della morte di quest’ultima).

È però giusto dire che furono proprio gli Sforza a mostrare un particolare gusto nel voler trasformare la vipera in un drago, seppur non nell’ambito dell’araldica ufficiale. Infatti, già con Francesco I possiamo vedere su un diploma del 1450 (quindi lo stesso anno della sua ascesa a duca) come il normale stemma della vipera barbuta e cornuta ingollante un umano sia sostenuto da un drago alato verde, squamato, con cresta appuntita, fauci aperte e lingua semovente.[19] Ai massimi estremi si spingerà però il figlio Ludovico il Moro, che in una lettera del 1497 mostra la rielaborazione dell’animale in foggia di vero e proprio drago, con un paio d’ali e quattro zampe artigliate, il collo che forma il cerchio e la coda attorcigliata in diversi giri, ovviamente ingollante un essere umano.[20] Nonostante queste varianti, nell’araldica ufficiale lo stemma si consolidò nelle forme suddette (non poteva essere mutato a piacere, essendo quello degli Sforza una concessione imperiale),[21] e dopo la caduta dei duchi milanesi smise di venire rielaborato, anzi, in alcuni casi addirittura facendo perdere alla vipera gli attributi “dragheschi” delle orecchie e della barba (come ad esempio nell’affresco del XVIII secolo a Palazzo della Ragione).

Ma dunque, da dove deriva veramente lo stendardo dei Visconti?

Sembra che una prima testimonianza archeologica venga riferita da Carlo Rosmini, che nel 1820 scrive che “la più sicura memoria che si ha dell’arma in cui dall’angue esce il fanciullo ignudo è dell’anno 1226, nel quale Ardengo Visconti fu creato Abate del Monastero di Sant’Ambrogio, il cui pastorale trovato nel suo sepolcro, e veduto dal Calco, era ornato con vipere d’avorio.”[22] Si tratta di un dato piuttosto interessante, per quanto il fatto che l’oggetto in questione sia irreperibile (e lo fosse già all’epoca in cui scriveva lo storico, essendo il ritrovamento del XV secolo) porta con sé non pochi problemi. In ogni caso, si ha qui un termine ante quem, ma che non ne spiega l’origine.

Secondo il Cognasso, il già citato passo di Bonvesin racchiude in sé l’indizio del fatto che lo stemma visconteo fosse particolarmente antico, e risalisse al periodo nel quale la famiglia aveva il titolo vicecomitale: a differenza del gonfaloniere, che portava per l’appunto il gonfalone della Chiesa Ambrosiana, il visconte aveva il diritto di recare la ferula laicalis, che simboleggiava la lotta contro il peccato e i delitti (e per estensione contro il Demonio), proprio in vista dell’autorità giudiziaria che deteneva.[23] L’ipotesi è basata sull’assonanza del serpente con le forze del Male, ma non si ha nessuna prova concreta, anche perché i documenti riguardanti i Visconti tra XI e XII secolo (o addirittura precedenti) sono scarsi, essendo che in quell’epoca erano i signori di paesi piccoli e lontani dalla città, come Massino e Invorio.[24]

Un’alternativa viene proposta da Michel Pastoureau, il quale vorrebbe che le origini del Biscione fossero di natura puramente toponomastica: i Visconti, in quanto signori di “Anguaria”, avrebbero elaborato il loro stemma partendo dalla parola latina anguis (serpente), creando poi varie leggende a riguardo.[25] In realtà, in Lombardia un paese con quel nome non esiste: lo storico si riferisce evidentemente ad Angera, che però divenne dominio della famiglia solo dalla fine del XIII secolo, e i cui nomi latini pervenutici attraverso il Liber notitiae sanctorum Mediolani (Stationa, Angleria e Angera)[26] e in Stefanardo (Engleria)[27] ricordano molto poco il serpente. Peraltro, è da notare che nelle fonti coeve il Biscione non viene mai chiamato anguis, ma vipera.[28]

Il Bognetti, ricordando che i Visconti vollero far risalire la loro stirpe ai Longobardi, teorizza che la vipera fosse in origine lo spirito totemico di una famiglia di arimanni, cioè di uomini liberi in grado di partecipare alla guerra.[29] In realtà, non è strano che la nobiltà medievale pretendesse di discendere dai Goti o dai Longobardi, ed è anche vero che i primi Visconti avevano per la maggioranza nomi germanici:[30] secondo la Bazzi, questo potrebbe indicare che essi avevano davvero discendenze arimanniche.[31] Degli usi di questo popolo precedenti la cristianizzazione abbiamo però molto poco, e tuttavia nella Vita Barbati del VII secolo si accenna al fatto che a Benevento essi compivano un rito pagano e “davanti all’immagine di un animale chiamato popolarmente vipera, essi piegavano la schiena che avrebbero dovuto piegare innanzi al loro Creatore;[32] e ancora, il Galli cita una diceria per la quale essi portavano al collo un amuleto a forma di serpente chiuso in un sacchetto.[33] Tuttavia, se entrambe queste informazioni siano degne di fede è questione ampiamente dibattuta, in quanto potrebbero in egual misura essere rimandi a reali tradizioni pagane che invenzioni degli autori cristiani dell’epoca, volte a peggiorare la fama dei Longobardi.[34]

Un’altra teoria venne avanzata dal Galli, portando all’attenzione degli studiosi un importante manufatto milanese, vale a dire il serpente di bronzo ancora oggi conservato in Sant’Ambrogio. La versione più antica della storia, riportata da Landolfo Seniore, dice semplicemente che esso, il serpente di bronzo fatto forgiare da Mosè durante la peregrinazione degli Ebrei nel deserto,[35] fu portato a Milano dall’arcivescovo Arnolfo II dopo un’ambasceria di tre mesi a Costantinopoli.[36] Non è questa la sede per parlare nel dettaglio della vicenda della scultura e della sua datazione (già il Morigia ci fa presente che esistono diverse versioni della cosa):[37] basterà dire che esso giunse a Milano a cavallo tra X e XI secolo, probabilmente in seguito alle trattative per la proposta di matrimonio di Ottone III nei confronti di Zoe, figlia di Basilio II.[38]

Dunque, il Galli fa un parallelo tra il racconto biblico e la storia delle crociate: come il serpente di bronzo aveva scongiurato la morte degli Ebrei a opera dei rettili, così avrebbe protetto i Milanesi dai nemici, e come aveva condotto incolumi i primi alla Terra Promessa, così avrebbe fatto coi secondi; l’arcivescovo Arnolfo III avrebbe allora affidato al visconte Ottone la bandiera con l’effige del serpente, aggiungendovi poi, a crociata terminata, l’immagine del saraceno.[39] Certo, è sensato pensare che in origine lo stendardo appartenesse al comune, come dice Bonvesin, ma i parallelismi tra le storie appaiono comunque un po’ forzati, senza contare un dato di estrema importanza, ovvero che il serpente di bronzo non avrebbe avuto motivo di essere dipinto d’azzurro, cosa che lo rende di fatto irriconoscibile nella sua principale caratteristica; d’altro canto, il giro completo delle spire della scultura è molto simile alla prima rappresentazione pervenutaci del Biscione, quella di Legnano, ed è interessante la presenza della barba, sebbene si tratti di elementi comuni nelle raffigurazioni medievali dei serpenti.

Una più recente interpretazione è stata proposta dall’Andenna, per il quale l’immagine non rappresenterebbe altro che Giona rigettato dal pesce mostruoso che lo aveva inghiottito,[40] simbolo di resurrezione in quanto prefigurazione del ritorno di Cristo dalla morte. Questo, precisa, era un episodio molto rappresentato nella pittura murale e nelle volute dei pastorali romanici e di prima età gotica,[41] il che non può che ricordare quello di Ardengo Visconti descritto dal Calco. È vero che il Biscione appare come un serpente e non un pesce, ma è altrettanto vero che l’animale citato nella Bibbia è stato variamente interpretato come pesce, balena e mostro marino, a volte dotato di corpo serpentiforme, corna e ali.[42] Il fatto che il suo significato, quando era stendardo comunale e poi visconteo, fosse ormai dimenticato è anche dato dal fatto che, appunto, si descrive il mostro come ingollante l’uomo, mentre nelle raffigurazioni, quando il profeta viene inghiottito, vengono rappresentate le gambe. La difficoltà, in questo senso, è comprendere perché nel primitivo stemma di Legnano Giona avesse in mano una freccia e un globo.

 

Miniatura dal menologio di Basilio II (X secolo) con la storia di Giona (foto Wikipedia).

Il terrore del Gerundo.

Come detto all’inizio, se si va a ricercare sui libri o sul web la vicenda del Biscione, con buona certezza ci si imbatterà anche nel fatto che la leggenda di Uberto Visconti non sarebbe stata ambientata fuori da Porta Nuova, ma nei pressi del Lago Gerundo, e che il drago abbattuto si sarebbe chiamato, come detto all’inizio, Tarànto o Tarantasio. Di conseguenza, se ci si informa di più su questa creatura, le cose che si verranno a sapere saranno le seguenti: era un mostro serpentiforme dal fiato velenoso che rovesciava le barche e mangiava i bambini, e che sarebbe stato sconfitto da Uberto, appunto, o dal vescovo di Lodi Bernardo Talenti, o da san Cristoforo, o da Federico Barbarossa, o da un tale Eginaldo;[43] secondo alcune versioni esso nacque dalla spina dorsale del cadavere di Ezzelino III Da Romano, sepolto a Soncino.[44] Il tutto è quasi sempre corredato da due citazioni, una del 1100 di un certo “monaco Sabbio”, e un’altra di otto righe in rima del poeta Villani, oltre che da un disegno che ne avrebbe fatto l’Aldrovandi. In aggiunta, ci sarebbero diverse ossa e raffigurazioni del drago in varie chiese sparse per il territorio del Gerundo. Ovviamente però, se si va a controllare, le cose non stanno esattamente così.

Per scoprire chi fosse realmente Tarantasio, credo sia opportuno cominciare dall’immagine di cui sopra, l’acquerello di Ulisse Aldrovandi che rappresenta un drago con due zampe, coda e collo allungati, e un paio di ali, in una raffigurazione per così dire molto classica. Poco sorprendentemente, l’autore mostra in realtà di non avere alcuna nozione riguardo il drago del Gerundo, e la didascalia sopra l’immagine in questione esplica che si tratta di un drago etiope; peraltro, nella pagina successiva vi è un altro drago etiope, stavolta rappresentato con una gobba.[45] È probabile che qualche buontempone, non si sa quando, abbia voluto dare a Tarantasio un’immagine per così dire autorevole, di fatto “rubando” il disegno di un altro drago e schermandosi dietro l’autorevolezza del naturalista bolognese. E un destino simile è quello che è toccato alle tante raffigurazioni nelle chiese del circondario che rappresenterebbero il mostro del Gerundo, anche se non esiste alcuna prova di tutto ciò, essendo che gli affreschi in questione sono sempre immagini del ciclo di san Giorgio.

In compenso, le mastodontiche ossa esistevano davvero. Del resto, la presenza di un grande rettile velenoso in loco non doveva comunque sorprendere, poiché, come dice il Vignati, in queste selve erano paludi assai vaste, d’onde venivano esalazioni mefitiche, causa di febbri putride […] Per tanto si diffuse nel Lodigiano il culto di Mefite,[46] poi quello di S. Cristoforo, e la superstiziosa ignoranza inventò le velenose esalazione di serpenti strani e di draghi.”[47] Lo stesso autore, nel suo elenco dei reperti preistorici rinvenuti nella zona, racconta che “nell’alveo del Lambro vicino a S. Zenone fu trovato un’altra testa d’uri, che si tenne gran tempo a Lodi nella libreria de’ Padri Olivetani di S. Cristoforo, e se ne dicevano delle cose favolose, e chiamavasi la testa del mostro Tarando. Una costola di cetaceo lunga ben sette piedi fu raccolta presso Lodi-Nuovo in seguito ad una grande innondazione dell’Adda. Essa fu conservata nell’Ospedale di Santo Spirito, d’onde i Padri Olivetani la levarono, lasciandone formale ricevuta, e l’appesero alla volta della loro Chiesa. Il volgo la credeva una costola di smisurato drago, che un tempo col fiato cagionò una terribile peste ai Lodigiani.”[48] Aggiunge infine che “la detta costola dopo la soppressione della Chiesa di S. Cristoforo [nel 1798] fu ritirata dal Dott. Villa.”[49] Sebbene la chiesa sia poi stata riconsacrata nel 1954, non resta ovviamente traccia di questi due reperti.

La cosa che salta subito all’occhio è che il primitivo nome della creatura sarebbe stato Tarando, e che ci si riferiva a lui unicamente in relazione al cranio fossilizzato. Sembrerebbe però strano che la gente dell’epoca non sapesse riconoscere un oggetto simile, e pensarlo di un rettile anziché di un mammifero; e infatti a esso era legata un’altra storia, che nulla c’entrava col drago: [Nella chiesa di San Cristoforo] è anche la testa d’un mostro detto Tarando, simile a quella d’un Bue in grossezza, e colle corna simili; questa è impietrita, ed è stata ritrovata in una ripa del Lambro sepolta, e da esso scoperta. Si giudica che i Goti, o Longobardi avessero di queste bestie ne’ loro eserciti quando s’impossessarono de’ nostri paesi, e che questa fosse una delle molte loro, ed ivi sepolta.”[50] Dunque Tarando, secondo l’originale tradizione lodigiana, non sarebbe altro che una specie di toro appartenuto alle popolazioni barbariche che invasero l’area in epoca tardoantica. Il nome comunque venne associato al drago già alla fine del XIX secolo.[51]

Occorrerà soffermarsi un attimo sull’origine del nome. L’unica spiegazione che mi sembra sia stata data finora è quella del Cerizza, che stabilisce un parallelismo tra i tremori delle febbri malariche e il fenomeno estatico del tarantismo.[52] L’ipotesi è affascinante, ma porta con sé due grossi problemi: anzitutto, l’entrata in uso di un termine molto specifico del dialetto pugliese nel Lodigiano almeno a partire dal XVIII secolo, e in secundis l’accostamento del morso della tarantola a un bovino. La spiegazione è a mio avviso più semplice: è probabile che l’origine del nome derivi da quello della Tarasca (Tarasconus in latino e Tarasque in francese), il mostro sconfitto da santa Marta di Betania nella sua agiografia, divenuta famosa grazie a Jacopo da Varazze.[53] La creatura in questione aveva caratteristiche diverse da quelle sia del drago che del bovino, ma il nome popolare datogli dai Lodigiani dovrebbe intendersi semplicemente come “essere mostruoso”, peraltro adatto a un contesto ecclesiastico. Mi sento infine di ricordare che, a causa delle numerose zampe con le quali viene raffigurata la Tarasca in Francia, è stata quest’ultima a ispirare il logo dell’Agip e non, come spesso si racconta, Tarantasio, ed è sempre lei a essere rappresentata nel famoso affresco nella chiesa di San Marco a Milano.

Il testo del Vignati di cui sopra è però importante anche per determinare temporalmente quando la costola venne trovata o, per lo meno, esposta al pubblico: il Ciseri dice infatti che essa, conservata inizialmente all’Ospedale Maggiore di Lodi, venne poi trasferita in San Cristoforo per volontà degli abati Bernardo Sommariva e Angelo Leccami con una provvisione del 15 novembre 1669.[54] Sapendo che la struttura accolse il primo paziente nel 1467, abbiamo un arco cronologico di un paio di secoli nei quali il fossile può essere stato rinvenuto; ritengo tuttavia plausibile che il decreto sia stato attuato poco tempo dopo il ritrovamento, quindi nella prima metà del XVII secolo. Ma dunque, anche ammettendo che si tratti di una scoperta del secolo precedente, la storia del drago sarebbe davvero così recente?

Le ambientazioni della vicenda sono piuttosto variegate, e dipendono da quando visse colui che sconfisse il mostro. Tralasciando dunque Uberto Visconti, di cui si è già parlato, è la storia del vescovo di Lodi a essere la più interessante. La testimonianza più antica era quella riportata su una tavoletta in latino e in volgare (secondo altri due tavolette distinte) nella chiesa di San Cristoforo, e il cui testo, riportato da Defendente Lodi, recitava: “Nell’anno 1300 dalla nascita di Cristo Signore Nostro, vi era intorno alla città di Lodi un certo lago, che per l’ingente grandezza e l’immensa quantità d’acqua che vi confluiva veniva chiamato Mare Gerundo; in questo stesso lago apparve per prodigio un serpente velenoso e mostruoso, che col suo alito pestilenziale ammorbava tutta la città, e per il quale molti, intaccati dal pessimo fetore, morivano. Aumentando di giorno in giorno il contagio e l’infermità, e scemando il numero degli abitanti, ed essendo la città invasa dall’acqua, molti cittadini se ne andavano, e tanto l’afflizione aumentava, meno si sperava di poter trovare un rimedio per risanare i campi infetti, o per prosciugare l’acqua, o per eliminare la bestia. Tuttavia, rimanendo tutti gravemente preoccupati, e non sapendo come agire per ottenere la salvezza, si rivolsero alla Maestà Divina, nella ferma speranza che essa non avrebbe respinto chi le si fosse raccomandato con cuore puro; e perché potessero ottenere più facilmente ciò che chiedevano, il reverendissimo signore Bernardino Tolentino [Bernardo Talenti], allora vescovo della città, convocato il clero e tutto ciò che rimaneva della popolazione, fece loro un pietoso sermone in cui efficacemente li pregava di innalzare preghiere a Dio con tutto il cuore e la fede, affinché liberasse il suo popolo da quella pestifera strage; lo stesso reverendissimo vescovo sancì inoltre che si facessero processioni per tre giorni di seguito, e che facessero questo pio voto, che se Dio, mosso a compassione per quelle morti, li avesse liberati da quella belva velenosa, avrebbero edificato un tempio in onore della Santissima Trinità e del glorioso martire Cristoforo. E la loro speranza non fu vana poiché, compiute le processioni, e firmato il voto quello stesso giorno, che erano le calende di gennaio [1° gennaio], ebbero luogo due miracoli memorabili, ovvero che morì il drago infestante, e che si prosciugò quell’immenso lago. Dunque i devoti cittadini, immensamente riconoscenti per questo grande beneficio, edificarono un magnifico tempio, come promesso nel voto, [nel quale conservarono un osso prelevato da quel serpente, affinché preservassero la memoria di quella miserrima calamità], il quale [tempio], per volontà di Dio, fu poi splendidamente riedificato a opera dei reverendi padri della Congregazione degli Olivetani, nell’anno 1563. Per questo invero il giorno festivo [della fondazione] veniva celebrato alle calende di gennaio, ma nell’anno 1310 questa solenne e felice memoria venne traslata dal reverendissimo signore [Leone] Palatino dell’Ordine dei Minori di San Francesco, vescovo di Lodi, nel giorno dopo l’Epifania, quando viene celebrata la circoncisione di Nostro Signore Gesù Cristo [7 gennaio].”[55]

Allo stato attuale è impossibile dire quanta verità ci sia in questa storia, anche perché non sembrano essersi conservati documenti riguardo la fondazione della chiesa in questione. L’epoca dovrebbe comunque essere corretta, e possiamo effettivamente pensare che la leggenda nacque in seguito al restauro dell’edificio, nel 1307,[56] dopo un’epidemia o un’inondazione, per quanto la documentazione non ci consenta di andare oltre il XVI secolo. La tavoletta citata è essa stessa di datazione incerta, ed è anche impossibile controllarne il testo originale, perché non ne rimane traccia, essendo andata perduta quando San Cristoforo venne sconsacrata, nel 1798.[57] Va infine notato che la parte riportata tra parentesi è quella che lo Zambarbieri scrive di aver recuperato nell’Archivio Diocesano di Lodi da un’altra trascrizione della perduta tavoletta:[58] appare però evidente che deve trattarsi di una falsificazione, in quanto la costola venne trasferita nella chiesa solo nel 1669, quarant’anni dopo la trascrizione del testo da parte di Defendente Lodi; e non può riferirsi al cranio, in quanto come visto non era ritenuto appartenere al serpente.

A dare grande risalto alla figura del drago fu poi Filiberto Villani, il poeta di cui vengono spesso citati quei versi decontestualizzati: la sua opera, Federico, ovvero Lodi riedificata, è un lungo poema eroico scritto intorno al 1650, ma che venne pubblicato in due tomi solo 1828. La storia, come accenna il titolo, è quella della discesa del Barbarossa, allorquando Milano distrusse Lodi e l’imperatore giunse in Lombardia per vendicare e riedificare la città; la narrazione, che si ispira alla Gerusalemme liberata, vede dunque le varie vicende della lotta contro i Milanesi che, alla stessa maniera dei Saraceni di Tasso, avevano dalla loro parte un incantatore, in questo caso la maga Marocca, la “madre” di Tarantasio. Dopo la distruzione della sua città, infatti, essa si invola fino alle sponde dell’Adda e, per vendicarsi dei Lodigiani e impedire loro di raggiungere la rocca sul monte Eghezzone, accende un falò con erbe magiche e velenose, invocando le potenze infere che in pochi istanti modellano un drago talmente spaventoso che la sua stessa creatrice ne ha inizialmente paura; poi però la belva le pone la testa in grembo, e viene mandata a devastare le zone circostanti. Il poema racconta anche del modo in cui caccia, usando soprattutto il fiato e la coda (una caratteristica molto medievale e oggi poco ricordata),[59] e di come viene infine sconfitto dal cavaliere Armando, che fa voto a san Cristoforo di erigergli una chiesa ornata con le ossa del mostro.[60] La storia, che conclude l’opera, riprende ovviamente quella di Bernardo Talenti (l’autore aggiunge infatti che, dopo la morte del drago, le acque dell’Adda si ritirano), e con ogni probabilità l’attuale credenza per la quale Tarantasio sia stato sconfitto dal Barbarossa deriva da un’errata interpretazione della vicenda (probabilmente fatta solo tramite il titolo, e senza leggere il poema).

A mancare ora all’appello è solo il monaco Sabbio del XII secolo, la cui presenza striderebbe con quanto detto finora: se infatti esistesse una testimonianza simile, significherebbe che la vicenda del drago è antecedente alla storia del vescovo di Lodi nel 1300. Anche in questo caso, la vulgata ha confuso le cose: l’autore del passo che viene spesso citato è in realtà Vincenzo Sabbia, abate lodigiano del XVI secolo che scrisse delle Memorie antiche detti monasteri di Lodi e Villanova, datato appunto alla seconda metà di quel secolo, e non certo al 1100.[61] Anche perché, ricordiamolo, la città venne fondata nel 1158, dopo che i Milanesi distrussero quella che oggi è Lodi Vecchio (l’antica Laus Pompeia) nel 1111; dunque, ogni edificio e tradizione riguardante l’attuale città non può essere antecedente a quella data. E proprio su questa base Defendente Lodi, già alla sua epoca, confutava la diceria per la quale i fatti del Gerundo si sarebbero svolti al tempo di Alboino, re dei Longobardi.[62] Ma la cosa più interessante, riguardo il Sabbia, è un’altra: la citazione riportata ovunque, dove si parla del drago, non esiste nel suo testo, e anzi l’autore non nomina né la leggenda, né la costola del mostro. Si tratta dunque di una recente falsificazione, creata forse basandosi anche sul fatto che il testo è di difficile reperibilità, e dunque risulta arduo da controllare.

 

Il drago etiope dell'Aldrovandi (XVI secolo), oggi spacciato per Tarantasio (da Wikipedia).

In conclusione, per la leggenda di Tarantasio ci troviamo davanti a un quadro piuttosto complesso. La storia del drago che infestava il Gerundo, ambientata tra il 1299 e il 1300, risale probabilmente a quell’epoca o tutt’al più al Rinascimento, e nacque in seguito alla ristrutturazione della chiesa di San Cristoforo a Lodi; a supportarla esisteva in loco almeno una grande costola preistorica. Il nome che oggi si attribuisce alla creatura era in origine Tarando,[63] e si riferiva al teschio di un grande erbivoro cornuto che si riteneva essere appartenuto a una bestia dei barbari. Col tempo, essendosi persa la memoria di quest’ultimo, il nome è andato a designare il drago stesso, che ha “assorbito” tutta una serie di altre storie, prima fra tutte quella di Uberto Visconti del XIV secolo, e inizialmente ambientata a Milano: da lì, Tarantasio sarebbe diventato nientemeno che lo stemma dei signori della città, il Biscione, in origine uno stendardo comunale che rappresentava molto probabilmente il pesce mostruoso che rigetta Giona sulla spiaggia, simbolo di resurrezione.

Nonostante questo, l’immagine del drago del Gerundo (ben narrata dal poeta Villani negli ultimi capitoli della sua opera) è ancora oggi molto affascinante, tanto da essere riuscita a far sue tutte una serie di leggende che hanno contribuito alla sua attuale fama.

 

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[1] Per un’esaustiva monografia sull’argomento, cfr. M. C. Giannini, Il Biscione, in F. Benigno - L. Scuccimarra (a cura di), Simboli della politica, Perugia, 2010, pp. 137-190.

[2] Bonvesin Da la Riva, De magnalibus Mediolani XIII (trad. Chiesa). È interessante notare come il testo di Bonvesin fece talmente scuola da essere citato anche da Dante, quando parla della “vipera che il Melanese accampa” (Pur. VIII 80), e divenendo quasi una credenza riferita all’epoca il fatto che era necessario per porre il campo, tanto che il Giovio scrive che “in memoria di questo trionfo [alle crociate] fu stabilito che l’esercito milanese non dovesse mai accamparsi, se prima non innalzasse il vessillo della vipera.” (I dodici Visconti, p. 6, trad. Domenichi) Trovo altresì insensata l’ipotesi del Chiesa, che vorrebbe rivederci l’eco di una tradizione totemica ancora presente nel folklore (cfr. il commento all’opera di Bonvesin, p. 273), anche per il semplice fatto che simili situazioni si riferivano sempre alla fondazione di città, e non all’accampamento di un esercito.

[3] E. Galli, Sulle origini araldiche della Biscia Viscontea, in Archivio Storico Lombardo. Giornale della Società Storica Lombarda, ser. 5, fasc. 3, 1919, p. 369.

[4] G. Fiamma, Chronicon extravagante 96, 4-5 (trad. Céngarle Parisi-David).

[5] B. Corio, Storia di Milano, p. 135.

[6] Il Fiamma dice che il visconte Ottone portava sette scudi dipinti nel suo scudo, poiché superava la forza di sette uomini” (Chronicon extravagante 103, 4-5, trd. Céngarle Parisi-David), e tanto basta perché il Giovio inizi la biografia del capostipite dei Visconti di Milano dicendo che come insegna “usava sette ghirlande” (I dodici Visconti, p. 7, trad. Domenichi).

[7] G. Fiamma, Chronicon extravagante 103, 4.

[8] G. Fiamma, Politia novella 55.

[9] G. Merula, Antiquitatis Vicecomitum, 1529, pp. 31-32; l’opera è in realtà del 1492.

[10] P. Giovio, I dodici Visconti, p. 6 (trad. Domenichi).

[11] P. Morigia, Historia dell’antichità di Milano I 2, p. 12.

[12] Cfr. ad esempio C. Torre, Il ritratto di Milano, Milano, 1714, p. 142.

[13] G. Fiamma, Chronicon maius, p. 109.

[14] F. Petrarca, Rerum memorandum libri IV 122.

[15] Landolfo Seniore, Historia Mediolanensis II 25.

[16] Questa particolare spira contraddistingue il ramo principale dei Visconti, ed è infatti assente in tutti quelli collaterali (cfr. F. Guerreri, Le “imprese” Visconti-Sforza. La storia di una famiglia regnante vista attraverso gli stemmi personali dei suoi membri, a cura di A. Bernareggi, su storiadimilano.it, 2011, cap. II).

[17] Nella stessa epoca dovettero comunque convivere raffigurazioni di qualità diversa: ad esempio, risale alla seconda metà del XIV secolo lo stemma affrescato nella Cappella Viscontea in Sant’Eustorgio, che alla normale vipera aggiunge semplicemente orecchie (o corna) e barba; da notare che sopra è rappresentato san Giorgio che uccide il drago, forse in maniera non slegata dalla leggenda riportata dal Fiamma.

[18] G. C. Bascapé - M. Del Piazzo, Insegne e simboli. Araldica pubblica e privata medievale e moderna, Roma, 1983, p. 140.

[19] Bazzi, op. cit., pp. 86-87.

[20] Ibid.

[21] Ibid., p. 88.

[22] C. Rosmini, Dell’istoria di Milano, tomo IV, Milano, 1820, pp. 428-429.

[23] F. Cognasso, I Visconti. Storia di una famiglia, Perugia, 2016, p. 85.

[24] La vicinanza di queste località al Lago d’Orta è interessante, perché il luogo porta con sé la leggenda di san Giulio che, giunto sulle sue sponde, avrebbe scacciato tutti i serpenti che vi vivevano; anche in questo caso, però, è difficile dire se la storia abbia in qualche modo influenzato la nascita dello stemma, ma appare poco probabile.

[25] M. Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari, 2007, p. 361, n. 39.

[26] Cfr. G. Vigotti, La diocesi di Milano alla fine del secolo XIII. Chiese cittadine e pievi forensi nel Liber sanctorum di Goffredo da Bussero, Roma, 1974, p. 9. Esiste peraltro una teoria per la quale l’antico nome del paese fosse Angularia, a cui forse ha attinto il Pastoreau, ma ciò non è attestato da alcun documento.

[27] Stefanardo da Vimercate, Liber de gestis in civitate Mediolani II.

[28] Cfr. ad esempio, oltre al già citato Bonvesin, Dante (Pur. VIII 80) e Petrarca (Fam. XX 1); da notare peraltro che in Francia la biscia araldica è sempre chiamata guivre o vuivre.

[29] G. P. Bognetti, L’età longobarda, vol. I, Milano, 1966, p. 70, n. 83.

[30] Essi erano Ariprando, Ardengo, Azzone (Azo), Guido (Wido), Guglielmo, Lantelmo, Obizzo, Ottone (Odo), Ruggero (Hrodger), Tebaldo (Theutpald) e Uberto (Hubertus).

[31] A. Bazzi, Per la storia dello stemma del Ducato di Milano, in Arte lombarda. Atti del convegno Umanesimo: problemi aperti, num. 65/2, 1983, p. 84.

[32] Vita Barbati episcopi Beneventani 1 (trad. dell’Autore).

[33] Galli, op. cit., p. 365.

[34] G. Binazzi, La sopravvivenza dei culti tradizionali nell’Italia tardoantica e altomedievale, Milano, 2008, pp. 84-87.

[35] Num. 21, 4-9; II Re 18, 4.

[36] Landolfo Seniore, op. cit., I 13.

[37] Morigia, op. cit., II 11, pp. 341-342.

[38] Cfr. ad esempio Benzo di Alessandria, Chronicon III 23.

[39] Galli, op. cit., pp. 374-379.

[40] Gion 2

[41] Cfr. E. A. Arslan (a cura di), Milano e la Lombardia in età comunale (secoli XI-XIII). Catalogo della mostra, Milano, 1993, p. 349, n. 150.

[42] G. Andenna, I conti di Biandrate e le loro clientele vassallatiche alla prima crociata, in Giancarlo Andenna - Renata Salvarani, Deus non voluit. I Lombardi alla prima crociata (1100-1101). Dal mito alla ricostruzione della realtà, Milano, 2003, pp. 234.

[43] Quest’ultimo personaggio è puramente romanzesco: la storia di Eginaldo Cadamosto e Sterlenda Poccalodi, ambientata nel 1299, è in realtà ottocentesca, ed è un’estensione letteraria della leggenda del vescovo Talenti, che vedremo in seguito (P. A. Curti, Tradizioni e leggende di Lombardia, Milano, 1857, vol. IV); l’autore ha tratto tutte le vicende e i personaggi dal discorso di Defendente Lodi (v. infra).

[44] Anche questa è un’invenzione del Curti, parte della storia di Eginaldo (v. n. supra).

[45] U. Aldrovandi, Serpentum et draconum historia, Bologna, 1640, pp. 422-423; le didascalie riportano per la precisione “draco Aetihiopicus” e draco alter Aethiopicus mas cum eminentijs dorsi” (da notare che anche quest’ultimo viene usato, in alternativa all’altro, come immagine di Tarantasio).

[46] Il culto di Mefite a Lodi Vecchio è testimoniato da CIL V 6353.

[47] C. Vignati, Storie lodigiane, Milano/Lodi, 1847, pp. 170-171.

[48] Ibid. p. 159.

[49] Ibid. n. 2; studi dell’epoca identificarono l’animale a cui apparteneva il cranio con un “alce d’Irlanda”, ovvero un megacero (cfr. G. B. Brocchi, Conchiologia fossile subappennicia, Milano, 1843, pp. 511-515).

[50] Ciseri, Giardino istorico lodigiano, Milano, 1732, in Vignati, op. cit., p. 159, n. 1.

[51] G. Cairo - F. Giarelli, Codogno e il suo territorio nella cronaca e nella storia, Codogno, 1877, p. 21.

[52] A. Cerizza, La spina del drago, in Archivio Storico Lodigiano, CXIX, 2000, pp. 29-62.

[53] Legenda aurea 105.

[54] Ciseri, op. cit., p. 10.

[55] Il testo latino (trad. dell’Autore) è riportato in D. Lodi, Discorsi historici, Lodi, 1629, VIII; per altre narrazioni della leggenda, cfr. ad esempio G. B. Villanova, Historia della città di Lodi, Padova, 1657, pp. 113-114; Ciseri, op. cit., pp. 9-10, il quale aggiunge che “trovandosi già edificata la Chiesa di S. Cristoforo, posseduta da’ PP. Umiliati fino all’anno 1229, fu fatta ritornare, o riedificata dalla Città per essere cadente.”

[56] G. Molossi, Memorie d’alcun uomini illustri della città di Lodi, Lodi, 1776, pp. 82-83, n. n.; il decreto, rogato dal notaio Antonio Barone, risale al 29 aprile, dopo la morte del vescovo, avvenuta il 7 marzo.

[57] Curti, op. cit., p. 73.

[58] A. Zambarbieri, Terra, uomini e religione nella Pianura Padana, 1983, pp. 11-13.

[59] M. Pastoureau, Bestiari del Medioevo, Verona, 2012, p. 258.

[60] F. Villani, Federico, ovvero Lodi riedificata, Lodi, 1828, II 20, 1-33 e 51-84.

[61] Cfr. P. L. Mulas, Le Memorie antiche detti monasteri di Lodi e Villanova di Vincenzo Sabbia, in Archivio Storico Lodigiano, CXI, 1992, pp. 5-102.

[62] D. Lodi, op. cit.; il Cerizza fa comunque notare che un primo nucleo abitativo con una chiesa doveva già esistere in epoca longobarda anche a Lodi Nuovo, e identifica l’alluvione che formò il Gerundo con quella riportata in Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, III 23-24 (cfr. Cerizza, op. cit., p. 61-62).

[63] Riguardo la Cascina Taranta, frazione di Cassano d’Adda (un paese che doveva essere sulle sponde del Gerundo), e che si vorrebbe ricollegare etimologicamente alla creatura, essa risale al 1539 (cfr. lombardiabeniculturali.it), ma sappiamo dal Catasto Teresiano del 1722 (Cassano, f. 2) che all’epoca aveva un nome diverso, ovvero Cascina Bruggiada: è evidente che essa è stata rinominata Taranta solo negli ultimi secoli.